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Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

The Darkness, Silvestri parla del film

  • Pubblicato in Screen

Darkness, creatura di casa Top Cow nata dalla matita ipercinetica di Marc Silvestri, è da anni in un limbo produttivo, fatto di false partenze e sviluppi infruttuosi, tutti tesi a un adattamento cinematografico che stenta a concretizzarsi.

UTF ha riportato le parole di Silvestri a riguardo del film di The Darkness: "Ci stiamo lavorando con Len Wiseman. Lo stanno sviluppando alla New Regency, per conto della Fox. Abbiamo la prima bozza della sceneggiatura e ci stiamo lavorando. Succederà. Witchblade è nel film. All'inizio doveva essere solo una easter egg per i fan, ma ci siamo accorti che aveva senso a livello narrativo averla nel film. Eravamo preoccupati, come si fanno due storie di origini in una, ma poi tutto è andato al proprio posto. Stiamo lavorando a un grande progetto".

"Stiamo andando avanti con la storia e la cosa bella è che lo studio ci appoggia" ha continuato. "Len lo adora ed è questo che serve al progetto. Sa più cose del personaggio di quante ne sappia io. A volte mi dice 'Ti ricordi quando è successa quella cosa su quel numero' e io 'Sì, certo, come no!'. È fantastico, il suo entusiasmo è alle stelle. Ovviamente è anche un regista di talento, quindi siamo molto contenti che sia dei nostri".

Figli di un'arte minore. Della critica a Maus

  • Pubblicato in Focus

maus1I fatti: in occasione della retrospettiva al museo ebraico di New York dedicata a Art Spiegelman, The New Republic pubblica un articolo in cui il critico d’arte Jed Perl si scaglia contro il bisogno di mostre fumettistiche negli spazi museali, contro lo stesso Spiegelman e la sua opera più famosa, Maus, definendolo un Primo Levi dei poveri: la bestemmia non sta tanto nell'ingeneroso paragone quanto nell'accostamento che non tiene conto dei diversi intenti alla base delle due opere.

Un pezzo al vetriolo, risentito e pieno di contraddizioni. “Se il pop è così favoloso” domanda Perl “perché c’è questo disperato bisogno del sigillo d’approvazione museale? Non è abbastanza essere i re del proprio reame?”; una frase che potrebbe sottintendere logiche feudalistiche e che in ogni caso rappresenta il fumetto come il grande pesce nel piccolo stagno. E un’affermazione del genere disinnesca la pur legittima domanda, come a dire che, sì, esiste un mare più grande dove il piccolo pesce fumetto è nulla in confronto a balene letterarie e squali cinematografici, giustificando la sua ricerca di approvazione da parte degli organi deputati a elargirne; esisterebbe un reame superiore, un altro mondo in cui gli adulti possono mangiare al loro tavolo e disquisire di Joyce senza stare a preoccuparsi dei mocciosi urlanti che si lanciano gli spaghetti addosso.
I dubbi e le domande che Perl pone con atteggiamento da bastian contrario si legano a doppio filo al museo come punto di coagulazione delle esperienze artistiche più disparate. Perl sembra avvallare la tesi per cui l’arte è arte solo se sta in un museo, checché ne dicano Banksy e i suoi, e che il fumetto soffre di un complesso d'inferiorità talmente radicato nella sua stessa natura da cercare continui attestati d'approvazione esterni. Perché è il medium visivo più vicino, seppur diverso, all'arte strettamente detta ma anche al fenomeno tutto mentale della letteratura. L' attrazione a due polarità così distanti generano schizofrenia e ineguatezza, portandolo a essere, unico nel suo genere, il fratello minore delle due arti.

Questo spunto iniziale non viene raccolto e si preferisce circoscrivere il discorso a Spiegelman. Le fallacie di Perl da qui in poi abbondano. Il suo atavico attaccamento agli ultimi residuali di forme d’arte tradizionali, testimoniato dai titoli di alcuni suoi pezzi (“Perché l’Impressionismo è ancora importante”, “L’ampiamente sopravvalutato Andy Warhol”, “Il MoMa inscena uno spettacolo sull’Arte Sonora: non è musica!”) è forse la causa del suo inorridire di fronte alla didascalia del Museo ebraico in cui si afferma che l’artista ha abbattuto la barriera tra alta e bassa cultura: “Cosa sulla Terra legittima un museo ad affermare una tale ridicolaggine?” scrive Perl “Non ha notato nessuno che le barriere erano già state abbattute un secolo fa da Picasso, Braque, Léger, Schwitters, Picabia e Duchamp?”.
Vero, Picasso e soci sovvertirono concetti artistici sedimentati nelle menti del pubblico ma non unirono in maniera radicale arte bassa e alta mischiando fumetti e avanguardie novecentesche, e soprattutto non divennero mai comprensibili allo stesso modo da un pubblico colto e da uno senza retroterra vari ed eventuali. L’ipotesi è che Perl veda il fumetto come un prodotto di seconda generazione, di tipo derivativo, una specie di arte figurativa con le parole scritte sopra, quindi esplicita nel rivelare il suo senso, quindi semplice, quindi non degna delle attenzioni dei critici.
Per lo stesso motivo imbufalisce di fronte ai paragoni con i minimalisti Malevich e Reinhardt fatti in occasione della copertina realizzata da Spiegelman per il numero post-11 settembre del New Yorker, un esempio di sincretismo tra linea e spazio che mostra la potenza comunicativa del fumettista (in alcune condizioni di luce, il profilo delle torri non è visibile da tutti i punti prospettici, legando il fumetto alla proprio forma fisica proprio come un pezzo d’arte originale) e che viene invece tacciato di semplicità retorica.
Ha da ridire perfino sulla retrospettiva in sé, rea di spacciare per arte, oltre al fumetto, anche la vita dell’autore, mettendo in mostra i cimeli di famiglia. Perl forse bada poco al fatto che lo scavo, il ritrovamento del reperto, dell’oggetto, del feticcio sono una diretta estensione della poetica spiegelmaniana, intenta a riutilizzare, citare e copiare icone artistiche in un ritorno all’origine che riconsegni i copia-incolla di Lichtenstein alla loro fonte primogenita. La realtà è che il critico sembra prendersela con Spiegelman perché artista minore, anzi, nemmeno artista, solo “figliol prodigo che ha optato per l’arte sul commercio ma che alla fine si è dimostrato essere un successo commerciale, rendendo orgogliosi mamma e papa - un bravo ragazzo ebreo vagamente graffiante”. A poco o nulla servono poi i paragoni in negativo che l’autore elargisce: confrontare Spiegelman con Robert Crumb e Winsor McCay, oltre a essere poco rilevante (di nuovo, i parallelismi andrebbero fatti quando si nota una compatibilità di intenti e mezzi, altrimenti vale tutto) - ha la stessa specificità di un vecchio che rimpiange l’età dell’oro. Vi ricordate quando i biscotti di cioccolato uscivano caldi dal forno e non tutti potevano frequentare i campi da golf? Jed Perl se lo ricorda.

Spiegelman Twin TowersSolo su un aspetto di Maus il critico sembra fare centro: Spiegelman divide acriticamente intere nazioni in maschere di comodo, evitando di affrontare la stratificazione sociale e ideologica di un paese. E così i tedeschi sono tutti gatti, gli ebrei tutti topi e i polacchi tutti porci. “Eh, ma è per ribaltare lo stesso concetto di razza teorizzato dai nazisti. Sovverte le parole di Hilter, che aveva dipinto gli ebrei come ratti portatori di malattie” sarebbe la linea di difesa. In verità Perl apre una ferita già punzecchiata da altri, come Hillel Halkin e R. C. Harvey, evidenziando il corto circuito interno al libro: la distinzione in razze cancella il senso delle atrocità commesse da esseri umani su altri esseri umani e la semplificazione della realtà si trasforma con fin troppa facilità in un gioco allo stereotipo più generalizzante. L’aveva di certo capito anche Ilan Manouach, artista greco che nel 2012 aveva dato alle stampe Katz, una rilettura decostruttivista di Maus dove tutti i personaggi sono gatti. Ebrei e tedeschi non sono più distinguibili.

Nonostante tutto, l’articolo risulta degno di nota per una ragione: è stato scritto da un critico d’arte che ha demolito a sassate un’icona del fumetto. Sarebbe possibile in Italia, dove ogni vicolo è patrimonio dell’umanità, dove ogni cantone pretende la paternità sulla pizza e le lasagne, e l’oggetto artistico è intoccabile oltre ogni misura, fare lo stesso, mettersi a smontare Andrea Pazienza o Hugo Pratt, sbadigliare di fronte alla naturalezza eterea di Leonardo da Vinci, affermare che Italo Calvino non scriveva poi così bene (sì, qualcuno negli anni novanta c’ha pure provato - Montefoschi e De Carlo, quest’ultimo scoperto proprio dallo scrittore ligure - ma ne hanno fatto una questione di gusto, più che di oggettiva importanza o capacità letterarie)?
Un conto è fantozzianamente dire che Maus è “Una cagata pazzesca”, un altro che non meriti di stare in un museo. Sul fatto che un prodotto artistico debba stare in un museo per ottenere prestigio e che quella sia l’unica forma di vidimazione culturale possiamo anche discuterne ma è un dialogo che si muove in parallelo, non vi si sovrappone.
Perl, sul sito della rivista, ha ricevuto più di un insulto - e la stessa sorte toccherebbe all’ipotetico critico nostrano - ma ha avuto l’ardire di proporre degli spunti di dibattito che andrebbero raccolti e sviscerati. Si possono criticare i miti. È possibile, scovando le crepe sulla superficie intonsa di questi pilastri. Tuttavia, più imponente è la struttura, più è difficile farla crollare: vanno trovate prove a sostegno, prospettive che evidenzino punti di rottura; insomma, argomentazioni forti e sostenibili. E dire che Spiegelman non sa disegnare solo perché non imposta le tavole come McCay o perché “non offre nulla di bello da vedere” è tutto fuorché sostenibile.

“Il suo lavoro” prosegue “offre una versione aggiornata della zona di sicurezza middlebrow da club del libro: dove quest’ultima si produceva in un blando inchino ai classici dell’altra cultura, la nuova zona di sicurezza prevede un inchino altrettanto superficiale a un carrozzone di icone pop”. L’idea è che Perl miri ad abbassare la percezione di Maus a marmellata middlebrow (dove highbrow indica l’altamente sofisticato e il lowbrow il rozzo più becero; per intenderci, il prototipo di consumatore di prodotti culturali middlebrow è la cinquantenne di media borghesia che guarda Fazio il sabato sera e il lunedì è in libreria con la lista di libri da comprare) mentre da noi quel livello di sofisticazione è lungi dall’essere raggiunto. Perché per ora l’unica cosa che siamo riusciti a mettere sul tavolo è la sterile demarcazione tra fumetto e graphic novel - con la recente variante del graphic journalism, appiccicato random anche a opere molto poco d’inchiesta come gli ultimi Delisle; una demarcazione che ancora non è chiara. Il graphic novel è un genere, uno stile, una discriminante culturale? O è un’etichetta, un’essenza che i media generalisti spruzzano sul fumetto per rendere sopportabile quel fetore da cartone animato che emana?

I Griffin, ucciso uno dei protagonisti

  • Pubblicato in Toon

ATTENZIONE: la seguente notizia contiene SPOILER!

Domenica scorsa, I Griffin, la serie creata da Seth McFarlane, ha subito un drastico cambiamento del proprio status quo. Nell'episodio Life of Brian, infatti, Brian, il cane della famiglia, ha trovato la morte, investito da un'auto.

Intervistato da E! Online, il produttore esecutivo della serie Steve Callaghan ha svelato la genesi dell'episodio: "C'era questa idea che è stata proposta nella stanza degli sceneggiatori ed è subito divampata, pensavamo fosse una bella idea per movimentare le cose. E da lì ci siamo subito chiesti come la morte di Brian avrebbe influenzato le dinamiche famigliari e i personaggi".

La scelta di uccidere Brian è stata fatta, secondo Callaghan, anche per mantere un certo grado di credibilità interna alla serie: "Sembrava più plausibile che un cane venisse investito, piuttosto che succedesse qualcosa agli altri personaggi. Per quanto amiamo Brian, e allo stesso modo di come si ama il proprio animale domestico, perdere uno dei figli sarebbe stata un'esperienza più traumatica".

Il produttore rivela anche che il posto di Brian verrà preso da un altro cane, Vinny, doppiato dall'attore de I Soprano Tony Sirico.

Di seguito, vi mostriamo il video con la seguenza tratta dall'episodio.



È morto Al Plastino

  • Pubblicato in News

superman20n-2-webÈ morto ieri Al Plastino. Lo comunica Mark Evanier sul suo blog, rilevando che l'autore novantunenne era da tempo in lotta contro un cancro alla prostata. Evanier riporta anche che Plastino doveva essere l'ultima persona in vita ad aver disegnato Superman prima del 1967.

Plastino esordì nel 1941 grazie a un piccola compagnia, la Dynamic Comics, per poi entrare alla DC nel 1948. Per la maggior parte della sua tenuta, Plastino venne messo in ombra dalle personalità di Wayne Boring, negli anni cinquanta, e successivamente di Curt Swan. "Le storie che non avevano il tempo di fare loro, le faceva Plastino" ricorda Evanier.

A lui si vede il design della prima Super-Girl, creata nel 1959 sui testi di Otto Binder. In seguito, lavorò sulle strisce giornaliere di Batman fino al suo ritiro dalle scene, nel 1989. Abile trasformista dal tratto versatile, in quell'arco di tempo fu perfino incaricato dagli editori di rimpiazzare Charles Schulz sui Peanuts per l'ammontare di strisce corrispondente a qualche settimana. Schulz dissentì con l'editore e i lavori di Plastino non vennero mai pubblicati.

Recentemente era stato al centro di un controversia riguardante una tavola originale tratta dalla storia Superman’s Mission for President Kennedy, in cui l'eroe di Krypton incontra il presidente Kennedy. Heritage aveva infatti messo all'asta la copertina originale in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di JFK, che l'artista sapeve essere conservata a Boston, nella libreria dedicata a Kennedy. In realtà il pezzo era stato venduto nel 1993 da Sotheby's come parte di un lotto appartenente alla rock star Graham Nash; non si sa quindi se la libreria avesse venduto la copertina, poi finita nella mani di Nash, o se la DC, che aveva promesso di donare la tavola, non l'avesse mai fatto. Su pressione di Plastino e dei suoi avvocati, Heritage aveva poi ritirato l'opera dall'asta a tempo indeterminato.

In basso, potete ammirare una gallery con alcuni lavori dell'artista.

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