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Leonardo Cantone

Leonardo Cantone

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Il mito della frontiera infranto, la recensione di Cheyenne

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Forse è meglio cominciare dal Cinema, piuttosto che dalla Storia o dai Fumetti: il cinema americano all’inizio delle sue produzioni western mostrava, con una buona dose di soddisfazione, Pellerossa che assalivano la diligenza e Cowboy che li uccidevano con fierezza; gli “indiani” erano i cattivi, una presenza ostile, un ostacolo al “sogno americano”, tanto quanto la natura selvaggia o l’attacco di un animale. Venne, poi, il momento della presa di coscienza e del senso di colpa: il “bianco” era l’invasore, che stava costruendo una nazione a discapito di un altro popolo. Nascono capolavori come Piccolo grande uomo o Un uomo chiamato cavallo, capaci di raccontare da un lato l’accoglienza pellerossa verso quella occidentale e dall’altro, la brutalità con cui questo popolo è stato decimato.
Cheyenne, volume della collana Bonelli Romanzi a fumetti, firmato da Michele Masiero ai testi e Fabio Valdambrini ai disegni sceglie di operare lungo un confine molto sottile tra i due approcci narrativi e lo fa attraverso una domanda che, costantemente, si ripropone alla mente del lettore: i “cattivi” sono i bianchi o i pellerossa?

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Il graphic novel racconta del rapimento, da parte degli “indiani”, di Colin, un bambino in fasce di una famiglia “yankee”. Anni dopo questi viene ritrovato dalla Colonna di Hazelwood, un plotone dell’esercito, che decide di riportarlo alla “civiltà” e da suo nonno, Ray Henderson. L’uomo, ex sceriffo ormai dedito all’alcool, ha cercato per anni il nipote rapito senza trovarne traccia e ora che questi è tornato, si ritrova costretto a rivedere la propria esistenza. Colin, in questi anni di assenza, si è formato nella tribù indiana, è diventato un cheyenne e cambiare le proprie abitudine, la propria vita, non sarà un percorso in discesa.

Il nucleo narrativo su cui è incentrato Cheyenne è la violenza in diverse sue declinazioni: nel mondo del “selvaggio west” sembra che la violenza sia l’unico motore di cambiamento. I genitori di Colin vengono trucidati e il neonato tolto alla sua comunità; quando questi viene recuperato dall’esercito, subisce un ulteriore brutalità poiché strappato alla vita che ha sempre conosciuto. Il popolo indiano viene ingannato e brutalizzato dai coloni che, a loro volta, subiscono gli attacchi dei pellerossa: un ciclo continuo in cui la violenza genera solo altra violenza. Non c’è molto spazio per l’amore o l’affetto, l’unico sentimento umano che riesce ad avere un peso nel racconto è quello, raro, del senso di colpa che rimane, però, solo un rammarico e non diventa strumento grazie al quale cambiare.

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Non esiste dunque un “buono” o un “cattivo”, Masiero e Valdambrini non prendono una posizione, non parteggiano per l’una o l’altra fazione: chiunque, che sia per autodifesa o per attacco, agisce con violenza, e il “mito della frontiera”, il “sogno americano” si infrange contro il muro della storia.  Dopotutto l’epica western, del povero colono che, contro tutto e tutti supera le difficoltà perché il suo diritto ad avere una terra è più forte di ogni altra cosa, non trova più spazio nelle riflessioni storico-sociali contemporanee, e i protagonisti di Cheyenne hanno la consapevolezza che l’ideale mitico con cui hanno iniziato a costruire la propria nazione non è altro che un’ipocrita messa in scena. Lo stesso vale per il concetto del “buon selvaggio” contaminato dalla presenza europeista degli americani: a tradire il proprio stesso popolo di nativi è lo stesso pellerossa che tenta l’accordo con l’uomo bianco a discapito di un’altra tribù.
A rafforzare il concetto del continuo ritorno e riciclo della violenza è la costruzione narrativa del graphic novel: Masiero non adotta una linearità storica per il proprio racconto, ma la costruisce attraverso tasselli diversi che incastrano temporalità diverse. Il fumetto inizia in medias res e gli eventi, la trama, il background dei personaggi, si disvela man mano, in una serrata successioni di rivelazioni che convergono verso l’ammiccante, citazionista e sorprendente finale.

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Il disegno di Valdambrini evoca alla perfezione l’atmosfera cupa del racconto. I volti spigolosi segnati da cicatrici invisibili, sono la marca distintiva del tratto del disegnatore, capace di fermare il pensiero dei personaggi nell’istantanea della vignetta e rimandarlo ai lettori attraverso le espressioni. Il selvaggio West, con le sue contraddizioni, rivive nei paesaggi carichi di forza evocativa sia che riguardino le forme imprevedibili della natura ancora incontaminata dell’America di metà ‘800, sia nella ricostruzione degli ambienti, rigidi e geometrici della colonizzazione “civilizzata”.

Nonostante Cheyenne si attesti in un genere ben codificato come il western, gli autori riescono a non essere prevedibili senza discostarsi troppo dai canoni, ricostruendo la dolorosa epopea della famiglia Henderson e utilizzandola come pretesto narrativo per raccontare l’aspetto più drammatico della nascita di una nazione come gli Stati Uniti che, fin troppo spesso, hanno velato di romanticismo epicizzante le proprie origini.

Il solito evento, la recensione di Inumani VS X-Men 1

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In principio era Infinity. Dal nome stesso della maxi saga scritta da Jonathan Hickman nel 2013, si potevano intuire che, degli eventi narrati, ci sarebbero stati riverberi nel futuro delle pubblicazioni targate Marvel: il rilascio sul nostro pianeta, delle nebbie terrigenee, capaci di risvegliare il gene inumano sopito in alcuni individui. La stessa Civil War 2 partiva proprio dalla saga che vedeva coinvolto l’intero pantheon eroico della casa editrice ed, in particolare, il supergruppo di rinnovato successo degli Inumani.
Il nuovo evento Marvel, dunque, vede coinvolta la famiglia reale di Attilan e la nuova formazione degli X-Men, dopo la recente scomparsa di Ciclope. Scott Summers, ha perso la vita in uno scontro con il leader degli Inumani, Freccia Nera, nel tentativo di distruggere una delle due nubi terrigenee che si è scoperto essere nocive per ogni mutante. I due gruppi, dopo le numerose perdite, hanno deciso per una tregua e, insieme, trovare una soluzione.

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Il numero 1 di Inumani vs X-Men, che raccoglie i primi due americani, inizia proprio nel momento più buio di questa tregua: non c’è soluzione. O le nebbie vengono distrutte permettendo ai mutanti di vivere ancora sulla terra ma interrompendo la mutazione inumana, oppure i “figli dell’atomo” saranno costretti ad abbandonare il loro pianeta. Come si può immaginare, lo scontro è inevitabile.
Charles Soule e Jeff Lemire sono ai testi di quello che sembra essere un maxi dejavù, piuttosto che un maxi evento. Nonostante l’evidente sapienza narrativa dei due sceneggiatori, attraverso una costruzione impeccabile del racconto, la lettura è sempre velata dalla sensazione del già visto. Lo schema è quello assodato delle saghe crossover Marvel: esposizione del problema, apparente quiete, climax narrativo irrisolto a fine primo numero. Il numero seguente è dedicato agli scontri.
Lo sforzo dei due sceneggiatori è evidente, specie nel numero di apertura: nel posizionare i propri eroi nella scacchiera della saga, Hickman e Soule mettono sullo stesso piano della lettura due temporalità diverse che incastrano presente ed immediato futuro come in un thriller dal sapore di spy story. Purtroppo non basta: come per un compito in classe, tutte le richieste di casa Marvel sono state esperite costruendo un racconto tecnicamente perfetto ma ben lontano dalla ricerca dell’emozionalità del lettore. I protagonisti sono mossi dal naturale bisogno basilare della “conservazione della specie” e, per ora, agiscono solo in funzione di una dicotomica affermazione genetica, senza dubbi o ripensamenti, e lo “scontro ideologico” per adesso rimane poco sotto la superficie narrativa.

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Simile appunto lo si potrebbe fare al disegno di Leinil Francis Yu: il fumettista filippino fa il proprio dovere, caricando le figure di eroica possanza fisica attraverso il suo tratto “sporco”, ombroso, e dalla straordinaria forza espressiva. Ma, anche qui, non basta: layout, composizione della tavola, messa in scena, di grande impatto visivo e ineccepibili nella loro resa, ma tutto facilmente identificabile in un “canone” fin troppo assodato e, spesso, abusato.

Nonostante l’ottimo ritmo narrativo e lo straordinario tratto, Inumani vs X-Men inizia la propria corsa nella maniera più “sicura” possibile, offrendo al lettore una formula che funziona e che, comunque, incuriosisce gli aficionados degli scontro di casa Marvel. Ma, se da un lato funziona la volontà di legare non solo i maxi eventi alle storie singole ma anche le diverse saghe tra di loro, il meccanismo narrativo si è fin troppo sclerotizzato e la “rivoluzione” che ogni nuovo evento reclama non è poi così tanto rivoluzionaria.

Il Frankenstein erotico di Magnus, la recensione di Necron 1: La fabbricante di mostri

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Roberto Raviola, in arte Magnus, è uno dei più riconoscibili, imitati e prolifici autori del fumetto italiano. Il fumettista è stato capace, mantenendo un tratto assolutamente riconoscibile, di raccontare ogni tipo di storia e di tratteggiare personaggi, ormai, diventati icone. Fumetto storico, di fantascienza o “nero”, Magnus ha esplorato diversi generi durante la sua trentennale carriera, consolidandosi come un artista dalla straordinaria capacità narrativa che gli permetteva di spaziare con facilità tra tavole riccamente definite ad altre sinteticamente scarne ma dall’eguale potenza grafica.

La serie Necron rispecchia la ricchezza e la stratificazione del suo autore: le avventure della scienziata necrofila Dottoressa Frida Broher e della sua creatura sono destinate ad un pubblico smaliziato, dotato di grande ironia e capace di raccogliere, tra le righe, il grande gioco messo in campo dall’autore. Non si può definire tale opera con un’unica etichetta di genere: non è un mero fumetto erotico, non è solamente un horror e, nonostante i numerosi affondi nella narrazione noir, non lo si può incasellare in tale genere. Magnus riesce, coadiuvato dalla sceneggiatrice Ilaria Volpe – pseudonimo di Mirka Martini – a creare un racconto denso di sfumature narrative ma dalla scorrevole e veloce lettura: nel corso della sua pubblicazione, il fumettista farà sempre più suo il concept originale dell’editore Renzo Barbieri, conferendogli la caratteristica componente surreale e diluendone, rispetto le intenzioni originarie, quella horror erotica.

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La dottoressa Broher è perennemente insoddisfatta, incapace di sentire quel “brivido” quando è in compagnia dei vivi. Trova appagamento solo tra le fredde membra dei cadaveri. Decide, infatti, di crearsi da sola il suo amante: Necron, creatura superdotata e assemblaggio delle parti “migliori” dei cadaveri che trafuga nel laboratorio dove lavora. Riportato in vita – omaggiando dichiaratamente il romanzo di Mary Shelley, Frankenstein – Necron diventa lo schiavo, sessuale e non, della dottoressa, accompagnandola nei suoi deliranti piani malvagi.
La creatura nasce, dunque, da una fantasia erotica, si carica di suggestioni letterarie ed è inserito in un contesto socio-politico ben definito: la parte ovest di una Berlino ancora divisa dal muro, sovraccaricando di cupezza l’atmosfera horror del fumetto. Necron è, dunque, la fantasia erotica di ogni necrofilo, con il corpo da culturista ma la mente è quella di un “sub-umano”, ha gli immancabili elettrodi e, nell’atto sessuale, lancia scariche elettriche. La sola descrizione della creatura chiarisce l’intento ironico, dissacrante, “politicamente scorretto” della serie di Magnus. Dopotutto, il lavoro del fumettista, mette in luce le turbe e le psicosi di una figura deviata e deviante come la Broher, pescando nell’intimo del lettore: la sessualità. Difatti, l’unico destinatario degli esperimenti e delle attività sessuali della protagonista è proprio il lettore, l’unico che può entrare nel laboratorio della dottoressa e guardare, tra il divertito e il raccapricciato, la nascita di questa buffa e inquietante creatura.

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Il tratto di Magnus è quello a cui, da sempre, ha abituato il lettore, graficamente personale ed estremamente riconoscibile: sintesi delle forme che virano verso il grottesco, tendenza caricaturale fusa con vignette a cui non manca l’attenzione al dettaglio, silhouette e spazi deserti di bianco, ambienti solo accennati o costruiti da poche, ma precise, linee. Lo straordinario disegno dell'artista, ricco, appunto, di linee spesse, nere, realizzate con un sapiente uso del pennarello, esalta la follia, l’assurdo, il teatro degli orrori, ma anche la divertente componente surreale dei personaggi di Necron.

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Il volume pubblicato dall’Editoriale Cosmo – che proporrà la serie completa – raccoglie le prime due storie della Dottorsessa Broher e di Necron: La fabbricante dei mostri e La nave dei lebbrosi. Il brossurato mantiene a formattazione originale della tavola, permettendo, così, al lettore, di ammirare l’attenzione di Magnus per il layout. La composizione, dunque, si regge sull’accostamento di due tavole con due vignette ciascuno, permettendo alle sequenze di acquisire un ritmo di lettura ben scandito. L’autore sfrutta tutte le potenzialità del medium utilizzando quello che, nella sua analisi sul linguaggio del fumetto, Scott McCloud definisce closure da momento a momento: il tempo tra una vignetta all’altra è estremamente ridotto. Tale strumento narrativo permette al fumettista sia di caricare le sequenze di grottesco divertimento, quanto di appassionato erotismo.

Pietra miliare dell’arte di Magnus, Necron è la serie che mostra l’evoluzione artistico-grafica del suo autore, che sancisce la grande ironia con cui il fumettista si rapportava non solo al disegno, ma anche alle storie, e che ricorda a chi legge il motivo per cui Roberto Raviola appartiene, di diritto, all’Olimpo fumettistico italiano.

L'orrore dietro casa, la recensione di Fax da Sarajevo di Joe Kubert

Il tagline del fumetto sintetizza con estrema efficacia il concept alla base del graphic novel di Joe Kubert, Fax da Sarajevo: «Nel 1945 abbiamo detto al mondo intero “mai più”. Nel 1992 abbiamo dimenticato la nostra promessa». Dopotutto, gli effetti della Seconda Guerra Mondiale hanno riverbero ancora oggi e, ancora oggi, si fa di tutto per non abbandonare nelle pieghe della storia quegli eventi socialmente, politicamente, economicamente e geograficamente fondanti il ventesimo secolo. Kubert, dunque, parte proprio da questa tematica: come può l’umanità non solo ripetere certi orrori e certi errori, ma, persino, lasciarli in secondo piano? Come può voltarsi dall’altro lato per eventi che non sono accaduti un secolo addietro ma solo 25 anni fa? Perché le vive testimonianze della guerra bosniaca sono spesso lasciate sottotono?

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La storia è quella, vera, di Ervin Rustemagic, amico fraterno di Kubert, editore di comics ed agente di autori, che si trovava con la sua famiglia proprio nella capitale bosniaca allo scoppio della guerra. Il conflitto creò, fin da subito, problemi con le comunicazioni della città verso l’esterno e il modo che trovò Ervin, con non poche difficoltà, per mandare e ricevere notizie, è quello del fax. Kubert, infatti, imbastisce il racconto e la sua evoluzione attraverso i fax che realmente Ervin scambiava con egli stesso e con altri colleghi ed amici, in una sorta di “romanzo epistolare” moderno fuso con il medium fumetto. Ciò che ricostruisce l’autore statunitense, reso più forte dalla veridicità degli eventi, è una storia profondamente drammatica, dolorosa e, sopratutto, estremamente coinvolgente: il 1992 è vicino al lettore nel tempo, Sarajevo lo è nello spazio, ciò che è accaduto ha l’inquietante caratteristica di essere replicabile ed adattabile ad ogni contesto storico, anche presente.

Cecchini che colpiscono i bambini per riscuotere la taglia sulle piccole vittime e su chi, poi, li andava a soccorrere, interi quartieri distrutti a cannonate, campi di concentramento per violentare le donne creando, così, una razza pura. Il clima di terrore instaurato dai serbi, per un lettore contemporaneo, ha il sentore del “già visto”: distruggere i simboli della cultura precedente, colpire indiscriminatamente civili e militari, teatralità crudele degli omicidi, non possono far altro che ricordare le efferatezze dell’Isis. L’odissea che la famiglia Rustemagic affronta, si arricchisce di poche, ma necessarie, licenze narrative per poter restituire l’intero quadro storico della guerra. Il punto di forza del racconto è la partecipazione dello stesso Kubert agli eventi che narra: il fil rouge che si dipana lungo tutto il fumetto è il bisogno di comunicare di Ervin con i suoi amici e viceversa, con questi che tentano di aiutare il loro amico e collega in difficoltà. Da citare è, infatti, la presenza di nomi illustri del panorama fumettistico mondiale tra cui Hugo Pratt ed Hermann Huppen come “personaggi storici” addentro il racconto.

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Nonostante, specie nella prima parte del graphic novel, Kubert indugi spesso nel retorico e nel didascalico, il racconto riesce a conservare bene il suo spirito documentaristico ma con grande attenzione per la narrazione empatica. Medesimo ragionamento è applicabile al disegno dello stesso artista: discretamente lontano dai suoi supereroi, e più vicino ai fumetti di “guerra”, il tratto dell’autore statunitense si lascia trasportare dalla grande cupezza, avvolgendo figure e spazi con ombre nere e scure, senza sfumature, nette, che fissano, come in una fotografia, i momenti drammatici. Il disegnatore rafforza non solo le violente scene di morte e di azione, ma anche quelle più intimiste di riflessione e di disarmante disperazione, attraverso primi piani carichi di dolore.

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La nuova edizione Mondadori Comics per la collana Historica, di cui Fax da Sarajevo è il numero 54, rende giustizia al racconto attraverso un formato di ampio respiro che permette al lettore di abbandonarsi alle tavole e alla loro forza comunicativa. L’edizione si arricchisce, inoltre, di straordinari contenuti extra: oltre alle note bibliografiche dell’autore, è presente, corredato da una ricostruzione scritta, un ricco apparato fotografico con le immagini vere della famiglia protagonista e della città prima e dopo il conflitto, usate da Kubert come reference per il suo lavoro, oltre che apertamente citate.

Un'intelligente opera sul valore della comunicazione, che sia a fumetto, a parole o via fax. Sulla necessità e l’importanza di comunicare, di veicolare non solo informazioni ma emozioni, desideri e speranze. In un mondo dove le regole sociali e la humanitas stessa vengono messe in crisi, raccogliere le testimonianze permette di conservare memoria di ciò che non deve essere dimenticato. O, quantomeno, non dovrebbe essere dimenticato.

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