Un ultimo bicchiere di bourbon per dire addio alla sboccata e cinica investigatrice privata Jessica Jones, che chiude il suo ciclo su Netflix con la terza stagione: tuttavia, bisogna ammettere che questo metaforico brindisi stavolta va un po’ di traverso.
Nonostante i tredici episodi finali siano nettamente migliori della seconda disastrosa stagione, essi non convincono pienamente e non riportano la serie nemmeno lontanamente vicina all’eccellenza delle origini.
Stavolta il grande villain dell’arco narrativo è rappresentato dall’umanissimo Gregory Salinger, serial killer che opera indisturbato da decenni e che viene scoperto grazie al potere della new entry Erik. Per quanto potesse essere interessante vedere la protagonista confrontarsi e lottare con una malvagità che origina solo ed esclusivamente dall’essere umano, senza appoggiarsi a doti extra se non l’astuzia e la crudeltà, l’occasione è stata sprecata, in quanto il suo personaggio non appassiona, non ha presenza scenica né si dimostra l’antagonista ultimo che Jessica deve affrontare prima di completare la sua evoluzione come persona/eroina. Lo stesso ritmo della narrazione è molto lento, rendendo alcuni episodi particolarmente pesanti da guardare.
È probabile che il picco sia stato raggiunto già nella prima stagione, dove la magistrale interpretazione di David Tennant nei panni di Kilgrave e la presa psicologica che il Purple Man aveva sulla protagonista hanno fatto sì che qualsiasi cattivo venuto dopo abbia potuto solo deludere.
Si potrebbe obiettare che l’altro villain sia rappresentato da Trish, la cui storyline occupa larga parte della narrazione. Bello vedere finalmente le due confrontarsi e Jessica realizzare che la moralità giudicante dell’amica era un tratto da sempre presente in lei, ora solo accentuato dai poteri che si è egoisticamente procurata. Affetta da chiare manie di protagonismo e da un desiderio di fare del bene che poco ha a che fare con l’altruismo, questa versione di Patsy si è sempre (consciamente o meno) creduta migliore di Jessica ed è lontanissima dal diventare l’Hellcat dei fumetti, nonostante il breve riferimento al costume del personaggio.
Il conflitto tra le due ricorda quello fra Buffy e Willow nella sesta stagione della serie di Joss Whedon: infatti entrambi riprendono il topos del leader e del sidekick che si scontrano, per quanto qui sia mancato il tempo di affrontare gradatamente la discesa di Trish verso l’abisso, avvenuta invece in maniera veloce, come una vera e propria colata a picco. Il cenno finale fra le due mentre la ex star dello spettacolo viene condotta in prigione è indice di un legame nel bene e nel male indissolubile, che di certo sarebbe stato un perno importante se la serie fosse andata avanti.
Infine, un cenno lo merita l’evoluzione del personaggio di Jessica Jones, per il quale si sarebbe potuto ambire a qualcosa di più. Partita come vittima di una violenza terribile e appesantita da un passato tutt’altro che facile, Jessica è rimasta una persona cinica e desiderosa di non essere un’eroina, sempre in bilico fra il caricarsi il peso del mondo sulle spalle e l’affogarlo nell’alcol. Anche la scena finale, in cui la voce di Kilgrave la convince a fare l’esatto opposto di quello che le dice, facendola tornare verso NY, fa solo presagire che abbia risolto il suo conflitto interiore e spezzato il circolo vizioso di senso di colpa e autocompatimento che la attanaglia. Sarà davvero così? Non sarebbe stato bello se anche questo fosse stato esplicitato nella colluttazione finale con Trish?
La conclusione del ciclo Marvel/Netflix rende impossibile rispondere a queste domande. Tuttavia, forse il bello di Jessica Jones sta proprio nel fatto che nasce antieroina e muore come tale, senza pretese di riscatto e lieto fine. Un realismo noir che ha permeato la serie fin dal primo istante e che la rende comunque una delle più interessanti del suddetto ciclo accanto a Daredevil.
Se solo si fosse riuscito ad eguagliare Kilgrave, magari questo brindisi avrebbe avuto un sapore diverso e più euforico.