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Antonio Ausilio

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Batman. Il cavaliere bianco 1 e 2, recensione: l'altra vita del Joker

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Lo statunitense Sean Gordon Murphy già da qualche anno, è considerato uno degli autori più quotati del panorama fumettistico americano, malgrado non abbia ancora compiuto quarant’anni. La sua carriera, in effetti, è stata piuttosto fulminea. Già nel 2005, appena venticinquenne (dopo alcuni lavori con la Dark Horse e una breve parentesi hollywoodiana), inizia a collaborare con la DC, dove raggiunge la notorietà prima in coppia con Grant Morrison sulla miniserie Joe the Barbarian, e poi con Scott Snyder su Selezione Naturale (spin-off della celebre American Vampire) e, soprattutto, sull’acclamata The Wake. Nel frattempo, si cimenta anche come sceneggiatore nell’iconoclasta miniserie Punk Rock Jesus (di cui cura anche i disegni), per la linea Vertigo, sebbene il suo vero esordio come autore completo risalga al graphic novel Off Road (pubblicato nel 2005 dalla piccola Oni Press).

Forte di questi successi, Murphy si dedica a due opere creator-owned, assieme a due dei nomi più caldi dell’editoria a fumetti statunitense: Mark Millar, con il quale realizza la poco riuscita Chrononauts, e Rick Remender, con cui dà vita al mondo futuristico di Tokyo Ghost. Ormai sicuro delle sue capacità, nel 2017 torna in casa DC, proponendosi nuovamente come autore di testi e disegni, per una miniserie dedicata a Batman.

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Pubblicata originariamente come una sorta di Elseworld (le storie ambientate in realtà alternative al DC Universe classico) e poi raccolta in volume sotto la nuova etichetta Black Label (la linea editoriale che, di fatto, ha preso il posto proprio dellaVertigo) Batman: Cavaliere Bianco racconta di un mondo parallelo, dove il Joker, durante uno scontro con il Cavaliere Oscuro, viene costretto da quest’ultimo a ingoiare delle pillole, grazie alle quali, inspiegabilmente, riesce a guarire dalla sua pazzia. Tornando a farsi chiamare Jack Napier (un omaggio al primo Batman di Tim Burton), l’ormai ex criminale si presenta come il nuovo paladino di Gotham City, pronto a dimostrare alla popolazione che i fuorilegge sono solo un capro espiatorio, con cui la polizia nasconde il modo di agire senza regole di Batman, a suo dire una minaccia per la città allo stesso livello dei criminali che sostiene di combattere.

L’idea di invertire le parti tra buoni e cattivi non è certo una novità nel fumetto americano, così come ancora meno lo è quella di mostrare un criminale redento. Ma, pur partendo da questa premessa poco originale, Murphy riesce a imbastire una trama che non manca di spunti brillanti: mostrare il lato “umano” del Joker è qualcosa che finora era riuscita bene solo ad Alan Moore nel meraviglioso The Killing Joke, opera dalla quale l’autore americano riprende anche il concetto che, in fondo, Batman e il Joker sono solo le facce opposte della stessa medaglia: una non esisterebbe senza l’altra. Di più, il Joker avrebbe commesso azioni sempre più efferate con il solo scopo di mantenere viva l’attenzione (o, meglio, l’ossessione) di Batman nei suoi confronti, senza la quale lui stesso perderebbe la sua ragion d’essere.

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Murphy dimostra di essere già uno scrittore di talento proprio nei passaggi in cui i personaggi vengono ritratti nella loro normalità: i momenti più intimi con protagonisti Jack Napier e la sua amante Harleen Quinzel (alias Harley Queen), infatti, sono così realistici, che ogni volta in cui i due continuano a scambiarsi vicendevolmente l’epiteto “pasticcino”, pur non indossando più i loro variopinti costumi, il lettore percepisce immediatamente un’evidente stonatura con la nuova realtà che si è venuta a creare. Lo stesso dicasi per Mr. Freeze, il cui passato criminale viene appena accennato, preferendo, piuttosto, approfondire il dramma relativo a sua moglie (facendo, così, tornare il personaggio alla malinconica versione ideata da Paul Dini nei primi anni anni Novanta per la serie animata dell’Uomo Pipistrello).

Meno radicale, ma altrettanto significativa è l’immagine data di Batman. Per rendere ancora più forte e credibile il riscatto del Joker, l’alter ego di Bruce Wayne viene rappresentato come un uomo caratterizzato da una forte dose di ambiguità e, inaspettatamente, incurante delle conseguenze delle sue azioni su civili e poliziotti. In questo modo il personaggio non riesce a catturare le simpatie dei lettori, automaticamente spinti a parteggiare per la crociata portata avanti da Napier. Murphy stesso non nasconde di avere un debole per il Joker, tanto che le parole pronunciate da Batman nel finale, parrebbero confermare parte delle accuse mosse dal criminale nei suoi confronti.

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Se non fosse per piccole ingenuità nei dialoghi (che, comunque, per gran parte della storia sono, al contrario, di alto livello), alcune semplificazioni nella trama (il modo in cui la popolazione di Gotham riabilita la figura di Napier, per esempio, avviene un po’ troppo repentinamente. Il commissario Gordon, inoltre, mostra un atteggiamento inspiegabilmente contraddittorio nei confronti di Batman. E il mistero attorno alla presunta morte di Jason Todd, infine, viene svelato in maniera un po’ banale) e una perdita di mordente nell’ultima parte della storia, dove Murphy mostra di non essere molto a suo agio quando la narrazione prende una piega decisamente più supereroistica, il cartoonist americano sarebbe uno sceneggiatore da promuovere a pieni voti. A ogni modo, pur con questi piccoli difetti, la maturità dei suoi testi ha già raggiunto un livello più che soddisfacente e fa ben sperare per i nuovi progetti a cui l’autore sta lavorando (tra cui anche Curse of the White Knight, seguito di questa miniserie).

Per quanto riguarda i disegni, Murphy conferma le grandi qualità già espresse fin dalle sue prime opere, regalandoci parecchie tavole dal forte impatto visivo: il suo tratto graffiato e spigoloso, ma estremamente dinamico e ricco di dettagli, mostra ancora qualche richiamo del Chris Bachalo degli esordi, ma anche una veloce evoluzione verso qualcosa di più personale. Notevole il lavoro fatto sui vari personaggi: il suo Batman è possente, intimidatorio, mai rassicurante, a cui fa da contraltare un Jack Napier sereno, dove l’ombra del suo alter-ego è quasi del tutto assente (sebbene le pagine davvero esemplari restino quelle dove, nel giro di poche vignette, si passa dall’espressione pacata di Napier a quella inquietante del Joker, quasi come se ci trovassimo di fronte a un individuo intento a guardare la sua immagine distorta attraverso uno specchio rotto). I pittoreschi nemici di Batman, poi, permettono a Murphy di mettere in mostra tutta la sua creatività, realizzando una galleria di personaggi da far invidia ai bizzarri avversari creati da Chester Gould per il suo Dick Tracy. Da sottolineare, infine, come l’autore americano, al variare del ritmo della narrazione, faccia sempre corrispondere un’estrema versatilità nella costruzione della tavola, a cui contribuisce, in maniera importante, anche l’ottima scelta dei colori operata da Matt Hollingsworth (particolarmente efficace nelle scene di lotta tra Batman e il Joker, dove il rosso del sangue invade spesso l’intera vignetta).

Prima di concludere, un breve accenno alla confezione degli albi da parte della Lion: pur nella loro semplicità, e sebbene pensiamo che l’opera meritasse un’edizione più elegante, i due volumetti in cui è stata raccolta la miniserie sono un ottimo compromesso qualità-prezzo.

The Magic Order, recensione: la prima opera di Mark Millar per Netflix

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Da tempo, ormai, l’uscita di una nuova opera di Mark Millar è accompagnata dal pregiudizio che il cartoonist scozzese ne decida i contenuti in vista di un possibile sfruttamento cinematografico o televisivo. Questo comprensibile atteggiamento mentale è stato ulteriormente legittimato da quando, nel 2017, Netflix ha annunciato di aver acquisito il Millarworld, l’etichetta sotto la quale l’autore di Kick-Ass da parecchi anni pubblica ogni sua nuova creazione. Quindi, è con un po’ di scetticismo sulla qualità della serie che ci siamo avvicinati a The Magic Order, primo frutto della collaborazione tra il colosso dello streaming e Millar, pubblicato di recente in Italia dalla Panini Comics in un elegante volumetto cartonato. Alla fine della lettura, però, ci siamo dovuti ricredere. Sia chiaro, è evidente l’utilizzo da parte del fumettista scozzese di personaggi accattivanti e di tematiche capaci di attrarre l’attenzione del pubblico mainstream, ma rispetto a opere come The Secret Service (poi, effettivamente, diventata una trilogia cinematografica), Chrononauts o Huck, dove era piuttosto forte l’impressione di essere di fronte più a uno storyboard che a un fumetto vero e proprio, in questo caso la qualità della narrazione è di ben altro livello.

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The Magic Order racconta di una millenaria congregazione di maghi, che si nasconde dal resto dell’umanità, al fine di proteggerla da mostruose minacce sempre pronte a colpire il nostro mondo. Questa nobile missione comincia a essere messa a rischio quando un potente stregone inizia a uccidere i membri più in vista dell’ordine, tra cui quelli della famiglia Moonstone, che ha l’onere di evitare che l’Orichalcum finisca in mani sbagliate. Esso, infatti, è un libro antichissimo e impossibile da distruggere e che contiene oscuri incantesimi di cui nessuno deve venire a conoscenza. Tanto che il suo custode, prima di prenderne possesso, deve giurare di non aprirlo mai. Pur non conoscendo l’identità dell’assassino, viene subito rivelato il suo mandante, Madame Albany, uscita dall’ordine parecchi anni prima, perché contrariata di non essere diventata lei la custode dell’Orichalcum.

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L’autore scozzese ha dichiarato di considerare The Magic Order un incrocio tra I Soprano e Harry Potter, ma in realtà le similitudini tra il fumetto e le due opere appena citate sono ben poche. Non si possono negare alcune strizzatine d’occhio ai personaggi creati da J.K. Rowling (i maghi che conducono una vita normale, pur lavorando nell’ombra per la loro vera missione, oppure l’utilizzo da parte di essi di strambi incantesimi come esiliare le persone nelle pagine di un romanzo o nascondere la propria dimora all’interno di un quadro). Tuttavia, non è sufficiente avere delle famiglie in lotta per vedere delle somiglianze con I Soprano. Senza considerare che dell’ironia della nota serie televisiva della HBO non c’è praticamente traccia. Fin dalle prime tavole, infatti, l’atmosfera è cupissima (accentuata anche dai colori oscuri e volutamente spenti di Dave Stewart) e i rari momenti leggeri sono quasi tutti confinati alla pessima condotta di Cordelia Moonstone, uno dei personaggi meglio caratterizzati della serie. Più corretto considerare The Magic Order un fantasy-thriller, per usare un’altra descrizione usata da Millar per la sua opera. Proprio la presenza della magia è l’insolito ingrediente che permette alla vicenda di discostarsi dalla consueta trama capace di vivere solo di momenti di tensione (anche se non ci vengono risparmiati passaggi particolarmente efferati), e che conferma la grande inventiva che Millar ha mostrato parecchie altre volte in passato. L’autore scozzese, inoltre, non perde il gusto di voler sorprendere il lettore fino alla fine, regalandoci nelle ultime pagine due colpi di scena, di cui, almeno il primo, difficilmente pronosticabile, anche se logico, visto a posteriori.

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Millar, dopo la trasposizione cinematografica di Wanted ha intuito prima di tutti le potenzialità di possedere un folto numero di personaggi e di storie da poter essere utilizzate per un adattamento cinematografico di successo, diventando, così, l’imprenditore di sé stesso (un processo arrivato a compimento con l’arrivo di Netflix). Non crediamo, quindi, che sia possibile rivedere, almeno nell’immediato futuro, il Millar di The Ultimates, una delle sue opere più celebrate. All’epoca, non ancora attratto dalle sirene di Hollywood, l’autore scozzese era esclusivamente interessato a realizzare fumetti di qualità, cercando non solo di intrattenere il lettore, ma anche di portarlo a riflettere. La differenza più evidente tra i suoi fumetti dei primi anni e quelli più recenti, infatti, è la pressoché totale assenza, in questi ultimi, di temi legati all’attualità politica e sociale, attraverso i quali Millar non mancava di far conoscere la propria visione del mondo. Persino un evento editoriale di grosse proporzioni come Civil War gli era servito per commentare, in maniera neanche tanto nascosta, gli avvenimenti più importanti del periodo. Già con Jupiter’s Legacy, però, ma anche nella più recente incarnazione di Kick-Ass, il modo di raccontare di Millar è sembrato riavvicinarsi a quello degli esordi, quasi a dimostrare, ai suoi sempre più numerosi detrattori, di essere ancora un narratore di razza. Non sorprende, quindi, che The Magic Order confermi quanto di buono si sia visto negli ultimi anni.

Chi è risultato un po’ al di sotto delle aspettative, invece, è Oliver Coipel, da cui, obiettivamente, era lecito aspettarsi qualcosa di più. Il bravissimo disegnatore francese ci aveva abituati a tavole eleganti, spesso impreziosite da sfondi molto elaborati e ricchi di dettagli. Ma nonostante l’aperto utilizzo della magia da parte di tutti i protagonisti, che avrebbe dovuto permettergli di dare libero sfogo alla sua fantasia, e ad arrivare a soluzioni visive più ardite, sono molto pochi i passaggi davvero memorabili. Anche i volti dei personaggi, pur tratteggiati con la solita maestria, non sempre risultano particolarmente espressivi. Coipel dà l’idea di aver lavorato un po’ troppo “di maniera”, limitandosi, di frequente, al minimo indispensabile. Un vero peccato, considerando anche la grande stima che Millar non ha mai nascosto di avere nei suoi confronti.

The Terrifics 1-2, recensione: ovvero, il simbolo del fallimento della The New Age of Heroes

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Sebbene il concetto di universo parallelo non fosse una vera e propria novità (si parlava già di qualcosa di simile nel numero 59 di Wonder Woman, uscito nel maggio del 1953), è solo nel settembre del 1961 che il Multiverso DC viene reso ufficiale, con la pubblicazione della storica storia “Flash dei due mondi”, opera di due colonne portanti dell’editore americano come Gardner Fox e Carmine Infantino. Quell’espediente narrativo servì per recuperare numerosi personaggi della Golden Age (il periodo che convenzionalmente viene fatto iniziare nel 1938, anno di uscita di Action Comics 1, fino ai primi anni Cinquanta), finiti nel frattempo nel limbo, dopo che nel 1956, con il debutto di Barry Allen come nuovo Flash, era iniziata la Silver Age, il primo “reboot” della storia del fumetto americano.

Presto, però, agli autori dell’epoca, le cose sfuggirono di mano e, con la scusa delle terre parallele, la DC ne approfittò per inserire nel suo universo narrativo, non solo altre versioni dei suoi eroi di punta, ma anche tutti quei personaggi di altri editori, di cui la casa editrice di Superman e Batman aveva acquisito, nel frattempo, i diritti di pubblicazione (di questi, l’esempio più noto è probabilmente Shazam, ovvero l’originale Capitan Marvel). Il continuo ricorrere a universi alternativi o a terre parallele, però, alla lunga generò parecchie incoerenze nei contenuti delle varie serie e un sacco di confusione nei lettori, tanto che, complice anche una forte crisi di vendite che colpì la DC sul finire degli anni Settanta, nel 1985 Marv Wolfman e George Pérez, cercarono di ridare lustro ai personaggi dell’editore newyorkese e, nello stesso tempo, a riportare un po’ di ordine nel suo multiverso con la monumentale maxiserie Crisi sulle Terre Infinite (di fatto un azzeramento della continuity). Ma, visto che, evidentemente, in casa DC non imparano mai dai propri errori, negli ultimi anni dopo l’ennesimo tentativo di reboot (il fallimentare evento conosciuto come The New 52), non solo si è deciso di ritornare alla continuity seguita all’opera di Wolfman e Pérez, ma anche di integrare in essa i personaggi di Watchmen e della linea America’s Best Comics (che, come è noto, sono tutte creazioni di Alan Moore).

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Come se già questo non fosse sufficiente, ecco che, quasi in contemporanea, Scott Snyder, attraverso la miniserie Dark Nights: Metal, si è inventato anche il Multiverso Oscuro, cioè un intero nuovo multiverso, parallelo a quello “classico” della DC, che, oltre a prevedibili complicazioni narrative difficili da gestire, ha portato alla nascita della nuova linea editoriale The New Age of Heroes, la quale, assieme alla presentazione di collane nuove di zecca, avrebbe dovuto rilanciare alcuni eroi secondari dell’editore newyorkese, procedere alla (molto discutibile) integrazione dei protagonisti dell’etichetta America’s Best Comics, di cui abbiamo accennato in precedenza, e consolidare quella di personaggi acquisiti da altre case editrici, non ancora portata a compimento per intero (uno su tutti, Plastic Man).

Tra le serie di questa nuova linea, The Terrifics (di cui la Lion, per il momento, ha pubblicato i primi otto episodi in due agili volumetti brossurati) è subito apparsa come una delle più interessanti, se non altro per il team creativo in gioco, che vede Jeff Lemire ai testi e Ivan Reis ai disegni.
Nel primo episodio, ricollegandosi direttamente alle vicende di Metal, Michael Holt (alias Mr. Terrific) si reca presso l’abitazione del magnate Simon Stagg, per investigare su alcuni esperimenti, che sembrano utilizzare le tecnologie sottratte alla Terrifictech, di proprietà di Holt, mentre quest’ultimo era impegnato a scoprire i misteri del multiverso oscuro. Mr. Terrific si rende subito conto che Stagg, grazie ai poteri elementali di Metamorpho, è riuscito ad aprire un portale proprio verso quel multiverso, senza, però, essere in grado di controllarne l’energia oscura. È solo grazie all’intervento di Holt, e al fondamentale aiuto di Plastic Man, che tutto si risolve senza conseguenze apparenti, anche se, durante il loro breve viaggio interdimensionale, Mr. Terrific, Metamorpho e Plastic Man, prima si imbattono in un’adolescente intangibile, che sostiene di chiamarsi Linnya Wazzo (quindi un’antenata della Phantom Girl della Legione dei Super-Eroi), e successivamente riescono a recuperare il messaggio olografico di un certo Tom Strong, che li avverte di un pericolo incombente, che potrebbe mettere a rischio tutto l’universo.

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Per quanto il nome di Jeff Lemire possa risultare una forte attrattiva per il lettore, visto l’altissimo livello di parecchie delle sue opere, esso - purtroppo - non è sempre garanzia di qualità. Troppe volte, infatti, soprattutto nei lavori su commissione, come gran parte di quelli per Marvel e DC, il cartoonist canadese ha deluso fortemente le aspettative. A questa categoria appartiene anche The Terrifics, dove l’autore di Black Hammer e Gideon Falls sembra l’ombra di sé stesso. La trama di fondo di questi primi otto numeri è di una banalità sconcertante: per quanto gli spunti interessanti non siano pochi (tra cui l’evidente similitudine del gruppo con i Fantastici Quattro della Marvel o proprio la scoperta dell’esistenza del mondo di Tom Strong), tutto viene portato avanti con soluzioni narrative troppo scontate (alcuni episodi sono al limite del “fill-in”, e il collegamento alla storia principale avviene con motivazioni alquanto pretestuose) e “trovate” parecchio discutibili (la spiegazione del perché i quattro protagonisti non possono allontanarsi l’uno dall’altro, per esempio, non fa onore alla grande inventiva che Lemire ha mostrato in altre occasioni). Non solo, anche la qualità dei dialoghi lascia molto a desiderare, con il risultato di rendere la lettura poco accattivante, nonostante l’autore canadese non lesini affatto nell’utilizzo di cliffhanger di vario tipo.

A tutto questo, bisogna aggiungere una caratterizzazione dei personaggi ai minimi termini, dove si distinguono in negativo Mr. Terrific, troppo spesso arrogante e poco carismatico (e dire che Michael Holt, con il suo passato segnato da una pesante tragedia familiare, avrebbe, al contrario, delle potenzialità enormi. Un tema che, invece, Lemire affronta di rado e in maniera poco convincente), e, soprattutto, Phantom Girl, tratteggiata, incomprensibilmente, come una teen-ager frivola e svampita, che recupera un po’ di spessore solo nei momenti in cui viene fatta emergere la nostalgia per i suoi genitori. Quello che voleva essere un omaggio a una delle eroine più importanti della Legione dei Super-Eroi, diventa, così, una malriuscita operazione di ret-con, tanto che i fan della Phantom Girl originale faranno fatica ad accostare la trisavola di Tinya Wazzo all’eroina complessa e matura, in cui si è evoluta, negli anni, la sua pronipote.

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Il gruppo, infine, è anche male assortito: capiamo che poter disporre di un personaggio come Plastic Man possa garantire momenti leggeri e divertenti (almeno teoricamente, visto che di frequente le sue battute sono ridicole e i suoi battibecchi con Metamorpho, spesso inseriti con il solo scopo di utilizzare tutti i cliché associabili ai Fab Four appaiono forzati o del tutto insensati, e neanche lontanamente paragonabili agli analoghi intermezzi tra la Torcia Umana e la Cosa), ma se il lettore ogni tanto arriva a sorridere è solo perché il disegnatore di turno riesce a fargli assumere le forme più strane e disparate. I suoi poteri, tuttavia, da un lato mostrano non poche somiglianze con quelli di Metamorpho (che, lo ricordiamo, oltre a far cambiare stato fisico al suo corpo o a trasformarsi in qualsiasi elemento chimico, è in grado di allungarsi a piacimento e di aumentare le sue dimensioni), con la conseguenza di rendere la trama un po’ ripetitiva, dall’altro sono troppo “cartooneschi”. Plastic Man, infatti, fin dal suo esordio, è sempre stato un supereroe sui generis, dove la componente umoristica ha sempre avuto un grosso peso. Ideato dal grande Jack Cole agli inizi degli anni Quaranta per la Quality Comics, l’alter ego di Patrick O’Brian voleva essere più una parodia degli eroi in calzamaglia, che un paladino della giustizia tutto d’un pezzo. Integrarlo nella continuity DC senza grossi stravolgimenti si sta rivelando un’impresa piuttosto ardua, e, a giudicare da questi primi numeri, neanche Lemire sembra esserci riuscito (solo Grant Morrison, durante la sua gestione della Justice League, alla fine degli anni Novanta, sembrò aver trovato un compromesso per far interagire il personaggio con gli altri eroi della DC, senza modificarne eccessivamente le caratteristiche). Quindi, seguendo lo stesso ragionamento, proprio non capiamo, la necessità di voler inserire anche Tom Strong nello stesso universo di Superman e soci. Alan Moore aveva concepito il personaggio come un incrocio tra Tarzan e Doc Savage, in omaggio alla letteratura pulp degli anni Trenta, per cui il rischio di snaturarlo parzialmente, per farlo agire in scenari che non gli appartengono, è molto alto (a volte abbiamo pensato che l’atteggiamento di Moore nei confronti dei colleghi chiamati a dare un seguito alle sue opere, o nei giudizi sui film tratti dalle stesse, fosse un po’ troppo altezzoso. In questo caso, però, le decisioni dei vertici della DC sembrano proprio fatte apposta per indispettire il bardo di Northampton).

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Per quanto riguarda il comparto grafico, è un po’ difficile dare un giudizio univoco. Il bravissimo Ivan Reis, infatti, rimane come disegnatore solo fino al secondo episodio, per poi essere sostituito da Joe Bennett, Doc Shaner e Dale Eaglesham, nessuno dei quali (soprattutto il legnoso Eaglesham), riesce ad avvicinarsi al dinamismo delle tavole iper-dettagliate del cartoonist brasiliano. Inutile dire che una simile mescolanza di stili, estremamente diversi tra loro, non induce il lettore occasionale ad affezionarsi alla serie.

A poco più di un anno dal suo esordio, la linea The New Age of Heroes si è rivelata un clamoroso insuccesso commerciale e delle otto collane che ne facevano parte, The Terrifics è, al momento, l’unica sopravvissuta. Ma l’abbandono di Lemire con il numero 14 (ulteriore segnale dello scarso interesse dell’autore canadese verso la serie), ne ha - probabilmente - segnato il destino.

Strangers in paradise. 25 anni dopo, recensione: il breve ritorno del classico di Terry Moore

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Ebbene sì, sono passati già venticinque anni da quando Terry Moore fece timidamente il suo esordio sulla scena fumettistica statunitense con un’opera anomala, molto lontana dal gusto e dalle mode del periodo, ma che presto avrebbe raccolto uno zoccolo duro di fan agguerritissimi, ancora oggi molto numerosi.
Nata nel 1993 come miniserie di tre numeri per la piccolissima Antarctic Press, Strangers in Paradise traslocò presto presso gli Abstract Studios, una casa editrice fondata da Moore stesso, dove la serie rimase fino alla sua conclusione, nel 2007. L’autore texano, intenzionato a seguire le orme di altri due suoi celebri colleghi, Dave Sim e Jeff Smith, decise infatti di non appoggiarsi alle big Marvel e DC, ma neanche alle emergenti Dark Horse e Image, e di autoprodurre la sua creatura, in modo da mantenerne il controllo totale.

Dei tre autori citati, però, solo Sim (che è stato anche il mentore degli altri due, dato che iniziò la sua attività di fumettista indipendente fin dal 1977) rimase fedele ai suoi propositi iniziali e i 300 numeri del suo Cerebus vennero interamente pubblicati dalla minuscola Aardvark-Vanaheim, di proprietà sua e di sua moglie. Sia Moore che Smith, infatti, vennero travolti dalla crisi che investì il fumetto americano a metà degli anni Novanta e le rispettive case editrici (quella di Smith si chiamava Cartoon Books, sotto la cui etichetta uscì fin dal primo numero Bone, la sua serie più nota) si ritrovarono presto senza un distributore. Ad aiutarli arrivò l’Image, che pubblicò per un breve periodo entrambe le serie (per la precisione, Strangers in Paradise apparve nella sotto-etichetta Homage, un altro tentativo di Moore di conservare la propria indipendenza), un tempo necessario ai due autori per recuperare la visibilità perduta, potendo, così, tornare, dopo pochi mesi, all’autoproduzione.

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Un giovane lettore americano di oggi, in un mercato dove, ormai, trovano spazio opere di ogni tipo (grazie agli ingenti investimenti di piattaforme streaming e studios hollywoodiani sempre pronti ad accaparrarsi i diritti di nuove serie, da adattare per il grande e per il piccolo schermo), troverà, probabilmente, difficile capire quanto sia stata coraggiosa, allora, la scelta di Moore e soci, quando essere indipendenti voleva dire davvero poter contare solo sulle proprie forze. Ma, d’altra parte, quale altra strada, se non l’autoproduzione, poteva intraprendere il cartoonist americano, per vedere pubblicata la storia di un semplice triangolo amoroso (quello che si crea tra le due protagoniste, la romantica e impacciata Francine Peters e l’energica e irrequieta Katina “Katchoo” Choovanski, con il timido e gentile David Qin a fare da terzo incomodo) in un momento in cui solo i supereroi sembravano poter catturare l’interesse del pubblico? Perché è questo che raccontava, di fatto, Strangers in Paradise, nonostante i lunghi intermezzi a metà tra il thriller e la spy-story, che, di frequente, interrompevano le scaramucce amorose dei tre. Francine, Katchoo e David erano persone reali: i loro dubbi, le loro paure, le loro reazioni, erano quelle di ognuno di noi, raccontate, però, con una profondità e con un’intensità che aveva pochi eguali nel fumetto, non solo americano.

Come dar torto, quindi, a tutti gli appassionati, che si sono entusiasmati non appena hanno appreso la notizia che Moore avrebbe proseguito le vicende dei loro beniamini? Ma, che questi nuovi episodi siano un reale seguito della serie originale è vero solo in parte. Le emozioni, i sentimenti, quello che, in poche parole, aveva reso Strangers in Paradise quel piccolo cult, il cui ricordo è ancora vivo nella memoria di tanti lettori, anche italiani (nonostante la travagliata vita editoriale nel nostro Paese, dato che l’opera, prima di arrivare nelle capaci mani di Michele Foschini e di Caterina Marietti e della loro Bao Publishing, era passata in pochi anni attraverso ben quattro editori) vengono lasciati un po’ in disparte, anche se, nei brevi momenti in cui emergono, regalano nuovamente al lettore la magia dei passaggi più riusciti degli episodi precedenti. Naturalmente, in questo modo, a farne le spese è Francine, il personaggio maggiormente legato al lato sentimentale della serie, che compare solo in una manciata di vignette: una scelta che scontenterà parecchi fan, nonostante una Katchoo più esuberante che mai e sempre nel vivo dell’azione.

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L’impressione che si ha alla fine del volume, infatti, è che Moore abbia voluto a tutti i costi tornare a utilizzare i suoi personaggi più noti, nonché quelli a cui si sente maggiormente legato (come lui stesso dichiara alla fine del volume), ma che fosse intenzionato a raccontare una storia di tutt’altro tipo. Se ci dimentichiamo per un momento della serie originale, però, è proprio dal punto di vista della narrazione che a Moore non si può rimproverare nulla: la trama imbastita dall’autore texano, infatti, è molto ben congegnata, oltre che coinvolgente e decisamente intrigante. Una dimostrazione di come, nel tempo, Moore abbia notevolmente affinato le sue capacità di storyteller, riuscendo a eliminare quel modo di raccontare un po’ scontato e quelle incertezze che, talvolta, penalizzavano i primi episodi della serie. Quando, infatti, il torbido passato di Katchoo venne portato alla luce, in molti ritennero quella parte della storia la meno riuscita della serie. Quasi un riempitivo o un modo per tenere viva l’attenzione del lettore, in attesa che tutti i risvolti sentimentali arrivassero alla conclusione decisa dall’autore. D’altra parte, però, Moore ha dimostrato nei suoi lavori successivi di non volersi fossilizzare su un genere ben definito e, per quanto la parte sentimentale fosse sempre presente (soprattutto in Motor Girl, la sua serie più recente), erano altre le tematiche che il cartoonist texano aveva deciso di esplorare (la fantascienza, con abbondanti dosi di supereroismo, in Echo e l’horror in Rachel Rising). Quello che non è mai mancato, però, era il gusto per il mistero, il desiderio di scoprire le carte a poco a poco, in modo da tenere il lettore incollato all’albo fino all’ultima pagina. Ed è tale aspetto che caratterizza in maniera netta questo “finto” seguito, con una Katchoo che si trova improvvisamente invischiata in un complotto a metà tra il fantapolitico e il “fanta-archeologico” alla Indiana Jones (preferiamo non rivelare molto della trama per non rovinare la sorpresa ai lettori).

A rendere ancora più appassionante la vicenda, poi, contribuisce l’aperto utilizzo di molti personaggi comparsi nelle serie successive a Strangers in Paradise, che, sostanzialmente, rende ufficiale quello che Moore aveva finora solo suggerito in maniera più o meno scoperta in alcune brevi scene delle succitate serie, e cioè che tutte le sue creazioni condividono lo stesso universo narrativo (già ribattezzato “Terryverse”). Non solo, nella postfazione alla fine del volume, l’autore texano ammette chiaramente che questo nuovo capitolo di Strangers in Paradise sia effettivamente da considerare un preludio alla sua nuova serie Five Years, un autentico crossover dove tutti i personaggi partoriti dalla sua mente si uniranno per cercare di fermare la minaccia descritta in questo volume, che rischia di portare l’umanità verso l’olocausto nucleare.

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Un breve accenno ai disegni prima di chiudere, dove non si segnalano particolari novità rispetto a quanto visto nei lavori di Moore più recenti: il suo tratto ormai maturo è, pur nel suo minimalismo, più che sufficiente a descrivere l’intimità dei protagonisti, e il ricorrente uso dei primi piani garantisce quell’espressività che si perderebbe a seguito dello scarso dinamismo del suo segno (particolarmente evidente già a partire dalla staticissima sequenza di fuga delle prime pagine). Da segnalare, infine, il lento ma costante affrancamento da quelle piccole ascendenze schulziane (Moore è un fan dichiarato del papà dei Peanuts), che in passato contraddistinguevano distintamente le gag o i passaggi umoristici delle sue serie. Moore non rinuncia a queste sequenze, ma la deriva cartoonesca è sensibilmente ridotta rispetto ai suoi esordi.

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