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Antonio Ausilio

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Doomsday Clock, recensione: l'opera di Johns e Franks fra seguito di Watchmen e futuro della DC

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È arrivata finalmente a conclusione anche da noi Doomsday Clock, la maxiserie di dodici numeri con cui Geoff Johns e Gary Frank hanno trasportato all’interno del multiverso DC i personaggi di Watchmen, il capolavoro con cui, a metà degli agli anni Ottanta, Alan Moore e Dave Gibbons hanno contribuito in maniera determinante a rivoluzionare il genere supereroistico. E sebbene le traversie dell’edizione italiana abbiano messo a dura prova la pazienza dei lettori, occorre ricordare che anche negli USA le cose non sono andate meglio, dato che, dopo l’uscita del primo numero nel novembre del 2017, gli appassionati d’oltreoceano hanno dovuto aspettare fino al dicembre del 2019 per poter sfogliare le ultime pagine dell’opera. A questo proposito, permetteteci una breve digressione per rendere il giusto merito alla Panini, che, prima di mandare in libreria il volume che raccoglie la serie per intero, ha pubblicato i quattro capitoli finali nello stesso formato adottato dalla Lion, la quale, come sappiamo, è stata costretta a interrompere le pubblicazioni di Doomsday Clock con il numero otto, a seguito del passaggio dei diritti dei personaggi DC all’editore modenese. Non solo, gli episodi mancanti sono usciti a cadenza regolare e persino a un prezzo sensibilmente più basso rispetto a quello precedente (ogni albetto spillato della Lion costava 4,50 €, contro i 3,00 € di quelli della Panini. Escludendo, naturalmente, l’ultimo numero, che avendo una foliazione maggiore è stato proposto a 5,00 €). Di recente criticati - non sempre a torto - per alcune scelte editoriali un po’ controverse, in questo caso Marco Marcello Lupoi e il suo staff hanno, invece, dimostrato di essere vicini alle esigenze dei propri lettori.

Tornando ai contrattempi di Doomsday Clock, saremmo quasi tentati di credere che a causarli sia stato qualche strano sortilegio ideato da Moore (di cui è nota la passione per magia ed esoterismo) per colpire la dirigenza DC, colpevole di aver messo in cantiere un progetto del genere. Battute a parte, sebbene sulla contrarietà del bardo di Northampton non ci siano dubbi, il suo progressivo allontanamento dai fumetti potrebbe, in realtà, aver ingenerato in lui un totale disinteresse verso il destino delle sue creazioni. A meno di improbabili ripensamenti, infatti, La Tempesta, ultimo capitolo de La Lega degli Straordinari Gentlemen - che prima o poi la Bao Publishing porterà anche in Italia - dovrebbe segnare il suo addio definitivo alla Nona Arte. È molto più verosimile, al contrario, che Johns e Frank, desiderosi di arrivare nel miglior modo possibile all’inevitabile confronto con la serie originale, abbiano deciso di mettere da parte il rispetto delle scadenze, per essere sicuri di riuscire a realizzare un’opera di altissimo livello ed evitare, così, la brutta figura paventata (per non dire augurata) da molti.

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In effetti, da quando, qualche anno fa, lo scrittore di Detroit ha deciso di tirare in ballo il Dottor Manhattan per giustificare il repentino ritorno del multiverso DC alla continuity pre-Flashpoint, parte del fandom ha vissuto un momento di smarrimento, temendo che la brillante trovata di Johns si riducesse a una mera operazione di marketing, necessaria solo a nascondere il fallimento dell’iniziativa The New 52. Poi ci si sono messi gli stessi vertici DC a gettare benzina sul fuoco, annunciando che Doomsday Clock sarebbe stato il seguito ufficiale di Watchmen. Il cartoonist americano, tuttavia, forse timoroso di aver fatto il passo più lungo della gamba, si è affrettato presto a chiarire che l’utilizzo di Ozymandias e soci dovesse essere visto esclusivamente come un escamotage utile a dare una spiegazione logica e definitiva a tutte le “crisi” spazio-temporali, impiegate periodicamente dalla casa editrice newyorkese per fare ordine nella sua storia pluridecennale, e non come un proseguimento della vicenda immaginata da Moore e Gibbons. È pur vero, però, che già la grafica delle copertine degli albi (praticamente identica a quella della serie dei due autori inglesi), così come l’utilizzo di pagine di approfondimento nel finale di ogni capitolo (una delle caratteristiche più note dell’opera originale) sembrerebbero smentire le affermazioni di Johns. Non solo, lo scenario in cui veniamo catapultati fin dalle prime pagine è proprio quello di Watchmen, sebbene a qualche anno di distanza dal finale della serie degli anni Ottanta.

Siamo nel 1992 e il piano ideato da Adrian Veidt per porre fine all’escalation militare, che avrebbe presto condotto Stati Uniti e Unione Sovietica ad annientarsi a vicenda, è stato portato alla luce, con la conseguenza di risvegliare rivalità tra nazioni mai sopite e di avvicinare pericolosamente l’umanità all’olocausto nucleare. Nel frattempo, facciamo la conoscenza di un nuovo Rorschach, arruolato da Veidt per far evadere Mimo e Marionetta, due criminali apparentemente necessari a convincere il Dottor Manhattan a salvare il mondo. Solo nelle ultime pagine cominciano a far capolino i classici personaggi DC, con Clark Kent che in sogno rivive la morte dei propri genitori, avvenuta quando frequentava il liceo di Smallville. Anche il secondo capitolo sembra iniziare come il primo, con una lunga sequenza dedicata di nuovo a Rorschach e Ozymandias. Presto, però, l’intreccio comincia a seguire una strada diversa e la vera natura della serie inizia a prendere forma. Inoltre, l’attesa per vedere il fatidico incontro tra i personaggi DC e quelli di Watchmen è molto breve, e cosa ancora più sorprendente, quando questo avviene, tutti i protagonisti coinvolti sembrano realmente fare parte dello stesso universo fumettistico. Merito senz’altro di Johns, finalmente tornato ai livelli della sua lunga gestione di Lanterna Verde, che mostra sia un’insospettabile capacità nel saper amalgamare supereroi narrativamente agli antipodi, che una maturità dei testi a cui non era arrivato neppure nei suoi lavori più riusciti. Due qualità utili a garantirgli quello che probabilmente era il suo obiettivo principale: scrivere una storia più mainstream, provando a non tradire fino in fondo l’opera di Moore e Gibbons. Per fare questo, il cartoonist americano adotta uno stile di scrittura diverso rispetto al passato, con molti elementi che ricordano la prosa dell’autore di V for Vendetta e From Hell. Ciò è vero soprattutto all’inizio, quando, come detto, i protagonisti della vicenda sono Rorschach e compagni. Ma, man mano che la storia procede, si ha una lenta inversione di tendenza, che arriva a completarsi nell’episodio conclusivo, dove tutto il pessimismo (o quantomeno il cinismo) insito nella serie degli anni Ottanta, lascia definitivamente il passo a quella visione più idealistica del genere supereroistico, che, almeno fino a questo momento, ha sempre contraddistinto tutti i lavori di Johns (anche se presto potremmo essere smentiti dal recente Tre Joker, di cui è iniziata da poco la pubblicazione in Italia e che si preannuncia decisamente più oscura). Pertanto, non è un caso che sia Superman (emblema della positività per antonomasia) a diventare centrale nel finale della storia, così come non dobbiamo sorprenderci se in questo processo anche un personaggio che trascende la moralità come il Dottor Manhattan venga in parte snaturato e, analogamente, che il destino di Ozymandias si compia nella maniera più prevedibile. E a proposito dell’alter-ego di Adrian Veidt, il parallelismo con Lex Luthor è un vero tocco di classe da parte dello scrittore di Detroit, perché le similitudini tra i due personaggi sono effettivamente parecchie, anche mantenendo una rappresentazione del primo molto vicina a quella che ne aveva dato Moore.

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Sono, invece, gli eroi DC più importanti a conservare quasi inalterate le loro caratteristiche, sebbene vengano coinvolti in un intrigo internazionale dove l’accostamento all’attualità del nostro mondo è più che tangibile. Proprio per questo, abituati a immaginare Superman & Co. in città fittizie come Metropolis e Gotham City, vederli contrapposti a personaggi reali come Vladimir Putin crea un’innegabile sensazione di straniamento. Si tratta, però, di un ulteriore tentativo di Johns di avvicinarsi a Watchmen, con il risultato che alcuni character secondari, di cui mai avremmo pensato male, si rivelano improvvisamente ambigui, opachi, o anche semplicemente stravolti rispetto a come ci erano stati presentati finora. Una conseguenza non da poco, dato che Doomsday Clock è una saga progettata per fare parte a pieno titolo della continuity DC (sebbene mostri avvenimenti futuri), per cui quanto è stato rivelato in essa, porterà a sicure ripercussioni negli anni a venire. Assieme a questo, il cartoonist americano riesce effettivamente a chiarire in maniera definitiva la natura del multiverso DC e a rimuovere gli ultimi paletti piantati durante l’evento Flashpoint (da lui stesso concepito), dimostrandosi anche capace di omaggiare ripetutamente la serie di Moore e Gibbons. Riguardo a quest’ultimo punto, oltre agli esempi già citati, vanno almeno ricordati la sottotrama con protagonista Carver Colman, che, pur con importanti differenze, sembra essere una versione aggiornata della storia di pirati presente nelle pagine di Watchmen, e l’utilizzo di personaggi ispirati a quelli che la DC ha ereditato dalla defunta Charlton Comics. Mimo e Marionetta, infatti, sono una rivisitazione di Punch e Jewelee, così come Capitan Atom e The Question, per esempio, erano stati il modello a cui si era ispirato Moore per il Dottor Manhattan e Rorschach. Ora, però, che tutti questi personaggi convivono nello stesso universo, si è venuta a creare una situazione un po’ paradossale, con cui Johns si diverte a giocare, dato che, a un certo punto, sono proprio Capitan Atom e il Dottor Manhattan ad arrivare allo scontro. Per come vanno le cose durante il resto della storia, tuttavia, difficilmente si vedranno in futuro altre bizzarrie di questo tipo. Tranne che per un’importante eccezione. Non tutti, in effetti, rammentano che Ozymandias nasce come reinterpretazione di Peter Cannon, alias Thunderbolt, unico personaggio ex-Charlton a non essere finito in mano all’editore newyorkese (i diritti appartengono alla Dynamite, che, di recente, ha dedicato all’eroe una nuova miniserie, acclamata dalla critica – ma ancora inedita in Italia - scritta da Kieron Gillen), pertanto è probabile che il megalomane Adrian Veidt torni presto a far danni in casa DC.
 
Passando ai bellissimi disegni di Frank, abbiamo scritto così tanto dei testi di Johns, che qualcuno potrebbe sentirsi autorizzato a ritenerli un aspetto secondario dell’opera. E sarebbe davvero un grave errore, perché l’autore britannico, per nulla intimorito dalla gabbia a nove vignette di gran parte delle tavole (ennesimo omaggio alla serie di Moore e Gibbons), conferma di essere non solo nel pieno della sua maturità artistica, ma anche uno dei migliori disegnatori in circolazione. Ogni pagina dei dodici capitoli che compongono la serie - dove non va sottovalutato neppure l’ottimo lavoro di Brad Anderson ai colori - sono un’autentica gioia per gli occhi ed è veramente difficile scorgere in esse un dettaglio fuori posto: le anatomie sfiorano la perfezione e l’espressività dei protagonisti è tale da rendere quasi inutili balloon e didascalie. Solo nelle splash page dell’episodio finale si nota qualche piccola incertezza, probabilmente causata dall’elevatissimo numero di personaggi presenti.
Capofila di coloro che preferiscono la classicità alla novità, Frank può essere considerato una sorta di moderno Alex Raymond o un erede di Neal Adams e, soprattutto, uno dei pochissimi di cui il solo nome è già sinonimo di qualità.

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Alla fine, quindi, Doomsday Clock è un’opera che vale la pena leggere? Sicuramente sì, ma con un avvertimento: se siete tra coloro che si attendevano seriamente un seguito di Watchmen, allora è meglio che lasciate perdere. Si sarà ormai capito, infatti, che, a dispetto delle sequenze iniziali, tutte dedicate alla serie originale, Johns e Frank hanno realizzato in realtà una classica storia di supereroi. Più moderna e più raffinata quanto si vuole, ma pur sempre un racconto che, in definitiva, celebra ancora una volta la vittoria dei buoni sui cattivi. D’altra parte, era lecito aspettarsi qualcosa di diverso? Secondo noi no e quando ci si trova di fronte a una trama appassionante e perfettamente coerente dal punto di vista narrativo - oltreché illustrata magnificamente - ogni passaggio autoriale, se presente, diventa persino superfluo. Doomsday Clock è intrattenimento puro, al massimo del suo potenziale. E tanto basta.

 

Blueberry: Vendetta Apache, recensione: la visione di Joan Sfar e Christophe Blain

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Fino a poco tempo fa sembrava che a Blueberry fosse riservato un destino simile a quello di Tintin, le cui avventure non sono più riprese dopo la morte del suo creatore Hergé. Infatti, a parte qualche volume della collana spin-off dedicata alla giovinezza del personaggio, che però viene gestita da François Corteggiani fin dal 1989 (quando morì improvvisamente Jean-Michel Charlier, uno dei due autori della serie originale), è dal 2007 che non veniva pubblicato un nuovo capitolo della saga. Scomparso, poi, nel 2012 anche Jean Giraud (l’altro papà di Blueberry, più noto con lo pseudonimo di Moebius), che, tolta la breve parentesi di Marshal Blueberry, dal 1989 aveva portato avanti da solo la serie principale, nessuno sembrava intenzionato a confrontarsi con questa autentica icona del fumetto franco-belga. Difficile pensare, tuttavia, che un editore come Dargaud potesse accontentarsi dei pur cospicui introiti garantiti dalle ristampe della collana. E così, nel 2018,, è arrivato l’annuncio che sarebbero stati Joan Sfar e Christophe Blain a raccontare una nuova avventura del personaggio, in una storia divisa in due parti.

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I due fumettisti d’oltralpe, tra i più importanti rappresentanti della bande dessinée contemporanea, avevano già collaborato in passato su alcuni albi della monumentale serie La fortezza (che Sfar ha ideato assieme a Lewis Trondheim) e su Socrate il semicane, opere, però, piuttosto distanti dai classici transalpini a cui appartiene anche il fumetto di Charlier e Giraud. Per questa ragione, pur essendo uno degli albi più attesi dello scorso anno, molti fan di Blueberry hanno temuto che l’operazione potesse in parte deludere le aspettative, come già successo con L’ultimo faraone, l’avventura di Blake e Mortimer disegnata da François Schuiten. Sfar e Blain, infatti, negli anni si sono distinti come portavoce di un profondo rinnovamento stilistico della bande dessinée, una sorta di “nouvelle vague” della Nona Arte che negli anni Novanta ha cercato di portare, in terra francese, nuova linfa a un medium mai realmente allontanatosi dalla tradizione o, al massimo, ancora debitore della rivoluzione operata negli anni Settanta proprio da Moebius, assieme ai suoi colleghi de Les Humanoïdes Associés. E invece, un po’ a sorpresa, i due autori hanno deciso di riportare Blueberry alle sue origini, mantenendo, di fatto, quelle caratteristiche che hanno reso celebri le storie del personaggio, almeno finché a scriverle è rimasto Charlier.

Esemplare, in proposito, il nome scelto per questa miniserie di due volumi, Une aventure du lieutenant Blueberry, che sancisce in maniera definitiva l’intenzione di autori ed editore di inserire la nuova saga nel periodo più amato dai lettori, lo stesso delle storie che cominciarono ad apparire sulle pagine della leggendaria rivista Pilote nel 1963. Non sorprende, pertanto, che anche la trama imbastita da Sfar e Blain richiami apertamente le tematiche dei primi anni del personaggio: Rancore Apache (preferiamo la traduzione adottata da Alessandro Editore per il titolo del volume, più vicina all’originale Amertume Apache, rispetto alla più libera Vendetta Apache, con cui la storia è stata pubblicata a puntate su Linus all’inizio dell’anno) vede, infatti, Blueberry ancora alle dipendenze del governo degli Stati Uniti, impegnato come tenente dell’esercito in pieno territorio apache. Nelle prime pagine, suo malgrado, assiste all’omicidio di due donne apache da parte di tre ragazzi bianchi e per cercare di mantenere la pace appena raggiunta con la tribù delle vittime, promette al capovillaggio di assicurare i colpevoli alla giustizia. Le due donne, però, erano la moglie e la figlia del guerriero Rancore, che, pur consapevole del rischio di un nuovo scontro con l’esercito, decide di andare alla ricerca dei tre giovani per ucciderli. A partire da questa premessa, tutt’altro che inedita, il racconto prosegue rimanendo fedelmente ancorato alla tradizione del fumetto western, con gli indiani che lasciano una scia di sangue sulla loro strada e Blueberry intento a scongiurare una nuova guerra tra governo e pellerossa. Nel mentre, gli eventi principali sono inframmezzati da vicende di vario tipo, dal tono più leggero, dove non manca neppure il ripescaggio di Jimmy McClure, spalla del protagonista in tante avventure.

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Per quanto riguarda i disegni, Blain fa il possibile per contenere la sua naturale propensione a deformare le anatomie dei personaggi, riuscendo ad avvicinarsi parecchio allo stile che Giraud utilizzava nei primi capitoli della serie, e che mantenne più o meno inalterato fino alla morte di Charlier (che non aveva mai amato fino in fondo l’evoluzione artistica del collega) per poi mutarlo progressivamente fino a renderlo molto simile a quello del suo alter-ego Moebius. Anche la costruzione delle tavole è quella tipica dei primi episodi, con largo spazio alla rappresentazione di canyon e vallate, e un forte richiamo alle inquadrature dei grandi classici hollywoodiani di John Ford e Howard Hawks. È questa probabilmente la concessione principale che Blain fa al fumetto di Charlier e Giraud, una differenza che stride sensibilmente con i suoi lavori precedenti, dove le vignette presentano quasi sempre sfondi appena abbozzati e poveri di dettagli, se non quelli necessari a creare quell’atmosfera surreale, tipica delle sue opere. Il cartoonist francese si lascia andare anche a un paio di omaggi cinematografici, uno evidente dedicato a Sergio Leone, vista la somiglianza del personaggio di Ruth con la Claudia Cardinale di C’era una volta il West, l’altro più nascosto, date le poche apparizioni della Sig.ra McIntosh, che potrebbero non essere sufficienti a scorgere in lei le fattezze di Brigitte Bardot.

Ciò nondimeno, a dispetto di tutte queste considerazioni, non si può negare che Rancore Apache sia anche un fumetto di Sfar e Blain. L’impronta stilistica di quest’ultimo, infatti, non viene snaturata del tutto e rimane abbastanza riconoscibile, soprattutto nei volti di alcuni character secondari, tratteggiati in maniera meno realistica e un po’ più grottesca. I passaggi notturni e gli interni, inoltre, spesso caratterizzati da un uso molto esteso del nero e da giochi di ombre molto suggestivi, sono due elementi molto distanti sia dall’estetica del Giraud giovane, che dal tratto più moebiusiano (e luminoso) del Giraud anziano. Le scene in cui viene mostrato lo scontro tra esercito e indiani, infine, sono insolitamente cruente e ancora più lontane da quanto visto finora nelle storie classiche del personaggio. Lo stesso si può dire per i testi, dove i due autori non mancano di far trasparire un’interpretazione del Far West più al passo con i tempi, chiaramente visibile nella descrizione degli apache, non più rappresentati come semplici vittime dell’egoismo e dell’arroganza dei bianchi (aspetto che, comunque, è tutt’altro che assente), ma per quello che erano veramente: fieri guerrieri pronti a vendicarsi in maniera spietata di un torto subito. Anche il linguaggio dei vari personaggi è più crudo e realistico e molto spesso le sottotrame di contorno, oltreché a servire come alleggerimento delle fasi più drammatiche della vicenda, vengono utilizzate per conferire maggior spessore e umanità ad alcuni dei protagonisti (si pensi, per esempio, ai problemi coniugali tra il comandante del forte e sua moglie). In verità, questi appena elencati potrebbero essere anche solo dei semplici tentativi di Sfar e Blain di modernizzare la serie, mentre sarebbe più corretto cercare le suggestioni, con cui i due autori amano arricchire le loro opere, nei pochi intermezzi vagamente onirici del racconto o negli stravaganti passaggi dedicati agli automi posseduti da uno dei personaggi secondari.

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Alla fine, il risultato è abbastanza eterogeneo, anche se per nulla sgradevole e l’essere riusciti a trovare un compromesso in grado di accontentare tanto gli affezionati al Blueberry più classico, quanto i lettori maggiormente in sintonia con un approccio più contemporaneo, conferma il profondo rispetto di Sfar e Blain per la saga originale.
Speriamo solo che quanto visto di buono in questa prima parte della storia non vada perduto nel secondo capitolo, anche se l’esperienza maturata dai due cartoonist francesi nella loro più che ventennale carriera dovrebbe metterci al riparo da una simile eventualità. 

Chiudiamo con una piccola nota riguardante l’ottima edizione italiana del volume, che conferma ancora una volta l’eleganza con cui la Alessandro Editore è solita confezionare le proprie uscite in libreria, con in più la piacevole sorpresa di un prezzo alla portata di tutti.

 

The New Mutants: la recensione del film

  • Pubblicato in Screen

Dopo che in molti avevano pensato che il Covid-19 avesse segnato in maniera definitiva il destino di The New Mutants, ecco che, un po’ a sorpresa, il film è arrivato nei cinema qualche giorno fa, a più di due anni di distanza da quel 13 aprile 2018, che in origine doveva essere la data di uscita della pellicola nelle sale americane. Da allora è successo di tutto e, pandemia a parte, il lungometraggio di Josh Boone sembrava ormai sempre più vicino a un mesto dirottamento sulla piattaforma Disney+. In pochi, probabilmente, conoscono la singolare storia produttiva del film, tanto vale, quindi, riassumerla brevemente, anche per supportare il nostro giudizio successivo.

Tutto inizia tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, quando Boone, reduce dal successo di Colpa delle Stelle, propone a Simon Kinberg (autore e produttore degli ultimi capitoli cinematografici dedicati agli X-Men) la sua idea per una pellicola con protagonisti i Nuovi Mutanti, i cui fumetti erano stati una delle letture preferite del regista americano da ragazzino. Boone ha già in mente di realizzare un’opera dai toni dark, perché desideroso di rendere omaggio al ciclo di storie di Cannonball e soci che aveva amato di più, quello disegnato da Bill Sienkiewicz. Nel 1984, infatti, l’artista statunitense sostituì Bob McLeod e Sal Buscema, gli autori che si erano occupati della parte grafica della collana fino a quel momento, e ne approfittò per perdere definitivamente le influenze adamsiane dei suoi primi lavori, facendo evolvere il suo stile in una direzione spiccatamente più espressionista, che solo pochi anni più tardi gli avrebbe permesso di assurgere a star del fumetto mondiale con la realizzazione di capolavori come Elektra: Assassin e Daredevil: Love and War, in coppia con Frank Miller. Le tavole di Sienkiewicz si discostavano parecchio da quelle decisamente più classiche dei suoi predecessori e rappresentavano un’autentica rivoluzione per l’epoca: anatomie distorte, tratti somatici accentuati in maniera grottesca, sfondi appena abbozzati, frequente uso della psichedelia. Insomma, tanti elementi che convinsero anche Chris Claremont (papà dei personaggi, assieme a McLeod) a imprimere un’atmosfera più sinistra alle storie dei giovani eroi. È facile, quindi, immaginare un Boone adolescente rapito da trame che fondevano sapientemente teen drama, supereroismo e horror.

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Arriviamo al 2016, quando la 20th Century Fox, sull’onda dell’inaspettato successo del film di Deadpool, annuncia che lo studio sta già lavorando a una trasposizione delle serie The New Mutants per il grande schermo, ma che la pellicola, esattamente come quella dedicata all’alter-ego di Wade Wilson, si sarebbe in parte discostata dal genere supereroistico. A metà del 2017 cominciano le riprese, sulla base di uno script elaborato da Boone assieme al suo amico d’infanzia Knate Lee, alla fine delle quali, tuttavia, il regista si dichiara parzialmente insoddisfatto del risultato, per la decisione dei vertici della Fox di attenuare i passaggi eccessivamente paurosi. Nel frattempo, però, la calorosa accoglienza riservata al primo, inquietante, trailer del film e il sorprendente risultato al botteghino del remake di It, diretto da Andy Muschietti (senza trascurare il timore dello studio di andare incontro a un altro disastro, dopo il clamoroso flop de I Fantastici Quattro di Josh Trank e il deludente incasso nordamericano di X-Men: Apocalisse) fanno cambiare di nuovo idea ai produttori, che chiedono a Boone di tornare alla sua versione originale. Una decisione che costringe il regista a rigirare alcune parti della pellicola, con la conseguenza di far slittare l’uscita della stessa per diverse volte. Infine, ci si mette di mezzo la Disney, che nello stesso periodo perfeziona l’acquisizione della Fox e non sapendo bene cosa fare di quello che ormai è a tutti gli effetti un oggetto misterioso, prima impone a Boone di eliminare ogni riferimento ai film degli X-Men, pensando così di poter inserire subito i personaggi nel Marvel Cinematic Universe, per poi pentirsi della scelta poco dopo, a seguito dei nuovi piani di Kevin Feige per l’ingresso dei mutanti nella continuity cinematografica della Casa delle Idee. Tutta questa confusione, altri malintesi con la nuova proprietà e intoppi vari portano la data di rilascio del film all’aprile del 2020. Dopodiché, come è noto, l’uragano Coronavirus costringe la Disney e le altre major a riprogrammare il proprio listino, fino ad arrivare all’uscita di The New Mutants di fine agosto, a cui nessuno credeva più (anche se Boone, di recente, ha affermato che la pellicola, per motivi contrattuali, doveva necessariamente essere proiettata al cinema, prima di finire in TV).

Con una lavorazione tanto travagliata è difficile capire se quello che abbiamo visto sia frutto dei numerosi rimaneggiamenti o determinato da reali limiti di Boone e compagnia. Sta di fatto che, senza usare troppi giri di parole, la qualità del film è piuttosto bassa. Tanto per cominciare, dopo tutti i proclami della produzione, ci saremmo aspettati molto di più sul versante horror. Di momenti realmente spaventosi, però, non c’è quasi traccia e anche la semplice suspense è ridotta ai minimi termini. Per di più, i ripetuti omaggi a Buffy l’ammazzavampiri, visibili in varie scene, fanno pensare che, aldilà delle imposizioni di Fox e Disney, il reale obiettivo del regista americano fosse proprio una riproposizione delle atmosfere della serie di Joss Whedon, non il terrore instillato dal Nightmare di Wes Craven, spesso evocato come termine di paragone dagli autori (e comunque citato a più riprese nel corso della pellicola).

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A Boone bisogna tuttavia riconoscere di non aver appiattito la trama su una semplice trasposizione live di una particolare saga fumettistica, ma di averne ripreso solo i tratti essenziali, per poi farli evolvere in qualcosa di diverso. Un esempio è il personaggio di Cecilia Reyes che, a prima vista, potrebbe sembrare solo un’efficace rivisitazione della sua controparte cartacea, e che, invece, diventa, nel corso della vicenda, la protagonista dell’unico colpo di scena degno di nota architettato dagli autori. Tutto sommato, anche la storia in sé non è male, soprattutto all’inizio, quando il ritmo più lento garantisce una crescita progressiva ma inesorabile della tensione, acuita dal claustrofobico e cupo ospedale dove sono in cura i giovani protagonisti, dalla totale assenza di altro personale sanitario, oltre alla già citata dottoressa Reyes, e dal misterioso materializzarsi dei loro incubi peggiori (in realtà misterioso solo per chi non ha famigliarità con il fumetto originale). Boone, infine, è molto bravo a inserire piccoli richiami al ciclo di Claremont e Sienkiewicz senza sgradevoli forzature. Su tutti, citiamo il draghetto alieno Lockheed, generalmente associato a Kitty Pryde, ma presente nel film come spalla di Illyana Rasputin. Pochi ricordano, tuttavia, che all’epoca di quelle storie la sorella di Colosso e Kitty erano compagne di stanza e proprio per questo il piccolo animaletto sputafuoco strinse un forte legame anche con la bionda mutante russa. Da apprezzare anche il modo sottile in cui la pellicola viene legata all’universo cinematografico della Fox. Nel finale, infatti, viene nominata la Essex Corporation, già apparsa in maniera sibillina nei titoli di coda di X-Men: Apocalisse, la quale, oltre a dare un senso logico alla trama del film, avrebbe dovuto contribuire a consolidare la continuity mutante su grande schermo (tra l’altro, pare che il malvagio genetista Nathaniel Essex, alias Sinistro, sarebbe dovuto comparire in una scena post-credit).

Purtroppo, l’elenco delle cose da salvare dell’opera di Boone si esaurisce qui e, soprattutto, non è sufficiente a compensare i numerosi difetti della pellicola che, oltre a quelli già descritti, ne contiene parecchi altri. Per esempio, nonostante la coralità che sarebbe stato logico attendersi, lo spazio dedicato ai vari personaggi è completamente sbilanciato a favore di quelli di sesso femminile, tanto che la vera protagonista della vicenda sembra Danielle Moonstar, con Illyana e Rahne Sinclair a fare da cast di supporto. Sam Guthrie e Roberto da Costa, infatti, sono quasi del tutto irrilevanti, con il primo che è addirittura poco più che una comparsa. A farne le spese sono anche gli attori, perché se per le varie Blu Hunt (Danielle), Maisie Williams (Rahne), Anya Taylor-Joy (Illyana) e Alice Braga (dott.ssa Reyes) potremmo anche provare ad azzardare un giudizio di merito, l’impresa diventa praticamente impossibile per i due interpreti maschili. Poco comprensibile, inoltre, la quasi totale assenza di scene in cui i giovani mutanti utilizzano i loro poteri, in un film che, sconfinamenti orrorifici a parte, appartiene pur sempre al genere supereroistico. Forse il budget della pellicola (ufficialmente compreso tra i 67 e gli 80 milioni di dollari) è servito soprattutto a coprire i costi dei vari rimaneggiamenti, ciò nonostante vedere Boone barcamenarsi in maldestri trucchi registici per far intuire le abilità dei protagonisti senza mostrarle veramente, è un chiaro segnale che, forse, neppure la Fox credeva veramente nel progetto.

Potremmo andare avanti ancora a lungo con l’elenco delle magagne, ma basti aggiungere che dopo il promettente inizio, di cui abbiamo già detto, la narrazione accelera in maniera scomposta, diversi passaggi sono a dir poco frettolosi e i momenti più intimi, necessari a completare la caratterizzazione dei personaggi, sono davvero troppo pochi. Sono queste le parti del film che, probabilmente, soffrono di più degli inopportuni interventi della produzione, i quali confermano anche il desiderio della Disney di chiudere il prima possibile un capitolo che ormai appartiene all’archeologia cinematografica (incredibile a dirsi, visti i pochissimi anni trascorsi, ma è così). Inutile negare, infatti, che, con tutti i ritardi accumulati, la pellicola sia arrivata largamente fuori tempo massimo e senza una reale ragione di esistere (molto più di X-Men: Dark Phoenix, che già soffriva dello stesso problema), se non per soddisfare la curiosità dei fan o per capire cosa poteva essere e, invece, non sarà più.

Fondazione Futuro, recensione: l'entertainment "minore" della Marvel

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Se siete dei veri Marvel fan, ecco una piccola chicca che non dovreste assolutamente lasciarvi sfuggire. Stiamo parlando di Fondazione Futuro, recente miniserie dedicata al gruppo di giovani eroi assemblato da Reed Richards diversi anni fa, rimasto per qualche tempo in una sorta di limbo editoriale, dopo il ritorno dei Fantastici Quattro sulla Terra, visto nei primi numeri della nuova collana dedicata a Mr. Fantastic e soci scritta da Dan Slott. Il team è una delle tante novità che Jonathan Hickman introdusse durante la sua lunga gestione del Quartetto e che, per breve tempo, prese addirittura il posto dei Fab Four, dopo l’apparente morte della Torcia Umana.

Simbolo di speranza per le nuove generazioni, il gruppo ha raccolto, fin dall’inizio, alcune delle giovani menti più brillanti del pianeta, pronti a unirsi senza esitazione al loro mentore anche nella ricostruzione del multiverso, seguita agli eventi raccontati - sempre a opera di Hickman - in Secret Wars. È lì che li ritroviamo all’inizio di questa nuova avventura, impegnati a recuperare i frammenti di Molecola sparsi nelle varie dimensioni, dopo la sua distruzione a opera dell’entità cosmica Funerea, avvenuta sempre nei primi numeri dei Fantastici Quattro di Slott. L’impresa, però, si rivela tutt’altro che facile, soprattutto quando a mettere i bastoni tra le ruote alla Fondazione arriva un nemico temibile come il Creatore, il Reed Richards malvagio proveniente dall’universo Ultimate.

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Fondazione Futuro è una miniserie di puro entertainment, senza nessuna ambizione autoriale, ma in essa si respira un po’ la stessa freschezza narrativa che sta caratterizzando un'altra collana dedicata a un team di giovani eroi, quella dei Runaways, di cui lo sceneggiatore Jeremy Whitley (fin qui noto solo per la miniserie Marvel The Unstoppable Wasp e per qualche titolo della IDW destinato a bambini e teenager) riprende i testi frizzanti e leggeri, aggiungendo anche una buona dose di umorismo. Direttamente dalle pagine dei Runaways, poi, arriva uno dei nuovi protagonisti, la scoppiettante Julie Power, che depressa per aver interrotto la sua relazione amorosa con l’aliena Karolina Dean (membro del suddetto gruppo), riesce a trovare di nuovo la serenità quando viene improvvisamente trasportata nello spazio da suo fratello Alex, attuale leader della Fondazione.

Il trentaseienne scrittore californiano, oltre ai testi pieni di brio a cui abbiamo appena accennato (che perdono smalto solo nella parte centrale della miniserie, quando la vicenda si appiattisce sull’inevitabile scontro tra i giovani eroi e il Creatore), mostra di saper utilizzare con assoluta naturalezza molti trucchi narrativi, grazie ai quali riesce a mantenere sempre viva l’attenzione del lettore. Pertanto, aldilà dell’avventura fantascientifica vera e propria, ecco anche divertenti battibecchi tra i protagonisti, flirt di vario tipo e maldestri approcci romantici, che vedono quasi sempre coinvolto il povero Bentley-23 (il clone adolescente del villain Wizard). Insomma, un po’ tutto l’armamentario tipico del fumetto per adolescenti (evidente target della serie).

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Whitley, inoltre, non nasconde di essere lui stesso un Marvel fan all’ultimo stadio, non solo valorizzando un cast di personaggi in gran parte ripescati dall’affollato sottobosco della Casa delle Idee, ma riuscendo anche a ridare lustro a due eroine affascinanti, che, dopo un breve periodo di gloria vissuto più di vent’anni fa, non hanno mai più svolto un ruolo importante all’interno dell’Universo Marvel: ci riferiamo a Rikki Barnes, la versione femminile di Bucky Barnes, creata da Jeph Loeb e Rob Liefeld durante l’evento Heroes Reborn e poi sporadicamente ripresa in saghe di poco conto, e a Lyja, l’ex moglie skrull di Johnny Storm, praticamente - e inspiegabilmente – ignorata (se si escludono una fugace apparizione durante il crossover Secret Invasion e la sua versione alternativa nell’universo MC2) da tutti gli autori che hanno seguito Tom De Falco nella gestione dei Fantastici Quattro. Assieme a Julie Power, i due personaggi sono serviti al cartoonist americano per dare un po’ più di spessore al corpo principale della Fondazione, che altrimenti, persi Franklin e Valeria Richards (tornati sulla Terra assieme al resto della famiglia), avrebbe potuto contare solo sulla wakandiana Onome e sui già citati Alex Power e Bentley-23. Nonostante la sua abilità, infatti, sarebbe stato difficile anche per Whitley riuscire a mantenere l’interesse dei lettori con quattro talpoidi evoluti, due discendenti di un’antica razza atlantidea, l’androide Dragon Man e i due bambini mutanti Artie e Pulce (che sono tutto tranne che due campioni di loquacità ed espressività).

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Per quanto riguarda i disegni, sui cinque numeri della miniserie si alternano ben tre autori: Will Robson, che, a dispetto degli annunci che lo indicavano come l’artista titolare della collana, firma solo il primo episodio (più il breve prologo all’inizio del volume, apparso in appendice a Fantastic Four 12), per poi essere affiancato da Paco Diaz nei due successivi, entrambi infine sostituiti da Alti Firmansyah negli ultimi due. Lo stile di tutti e tre richiama apertamente quello dei manga che, se da un lato rappresenta un modo ulteriore per attrarre i giovani lettori (un trend che, ormai, riguarda un po’ tutte le testate per teenager di Marvel e DC e da cui non è del tutto esente neppure la serie dei Runaways), dall’altro aiuta ad accrescere l’umorismo dei testi di Whitley. Dei tre disegnatori, tuttavia, noi abbiamo preferito l’indonesiana Firmansiah, che nonostante l’estetica “filo-nipponica” del suo tratto, non eccede con strampalati omaggi ai fumetti giapponesi. Cosa che, invece, capita più spesso a Robson (il quale, non a caso, in alcune interviste ha ammesso di essersi ispirato per questo lavoro ad Akira Toriyama, il papà di Dragon Ball e Arale), con il risultato di rendere troppo cartooneschi, e praticamente irriconoscibili, personaggi di ben altre caratteristiche come il Creatore. Diaz, al contrario, ci è sembrato quello meno in sintonia con il clima generale della serie: le sue tavole poco dinamiche, infatti, tradiscono l’evidente difficoltà ad adattare il suo stile più realistico a quello dei suoi due colleghi.

Fondazione Futuro non è sicuramente un volume da tramandare ai posteri, né un tassello imprescindibile della pluridecennale storia della Marvel, ma rappresenta l’ennesima dimostrazione che, quando le idee sono valide, è possibile realizzare una buona storia anche senza ricorrere ai big della casa editrice.

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