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Antonio Ausilio

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Arrowsmith 1 e 2, recensione: la realtà alternativa di Busiek e Pacheco, fra fiaba e guerra

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Era il luglio del 2005 quando la Magic Press fece arrivare sugli scaffali delle nostre fumetterie Arrowsmith: il fascino della divisa, versione italiana del volume Arrowsmith: So Smart in Their Fine Uniforms, che raccoglieva la miniserie di sei numeri, uscita negli USA un paio d’anni prima, realizzata da due delle stelle più brillanti del fumetto americano del periodo, Kurt Busiek e Carlos Pacheco.
Lo sceneggiatore statunitense e l'artista spagnolo avevano già lavorato assieme nella memorabile maxiserie Avengers Forever, pubblicata dalla Marvel tra il 1998 e il 1999 e, forti del loro successo, decisero di collaborare di nuovo per un progetto creator-owned, bussando - dopo un tentativo andato a vuoto con la Gorilla Comics (alla cui fondazione aveva partecipato lo stesso Busiek) - alla porta della Wildstorm, la linea editoriale di Jim Lee, all’epoca ormai fuori dal consorzio Image. Per la precisione, Arrowsmith uscì sotto le insegne della Cliffhanger, l’imprint della Wildstorm che riuniva alcuni dei talenti emergenti d’oltreoceano di fine anni Novanta (tra i quali, Jason Scott Campbell, Humberto Ramos e Joe Madureira), un gruppo di cui, a pieno titolo, anche Busiek e Pacheco potevano sentirsi parte.

A quella miniserie, avrebbero dovuto seguirne diverse altre, in quanto Arrowsmith era stata concepita fin dall’inizio per non essere una collana regolare, in modo da permettere ai due autori di continuare a occuparsi di più progetti contemporaneamente. I troppi impegni, tuttavia, si dimostrarono un ostacolo insormontabile, in particolare per Pacheco il quale, probabilmente complici vari problemi di salute, che successivamente, si riveleranno più gravi del previsto, cominciò a diradare di molto le sue apparizioni sui comic book. Per iniziare a leggere Behind Enemy Lines, la seconda miniserie dedicata a Fletcher Arrowsmith – il giovane protagonista dell’opera, da cui, come è facile intuire, deriva il nome della stessa - si dovette aspettare addirittura il 2022, qualche mese prima della prematura scomparsa del grande cartoonist iberico, il quale nel settembre di quell’anno annunciò di essere affetto da SLA, la terribile malattia neurodegenerativa che di lì a poco lo avrebbe, purtroppo, condotto alla morte.

Non nascondiamo, quindi, di aver accolto con molta soddisfazione la decisione di Saldapress di riportare in Italia il fumetto di Busiek e Pacheco, che, perso uno dei suoi ideatori, sembrava destinato a un limbo editoriale senza via d’uscita. Oltretutto, pure lo scrittore di Boston un paio di anni fa ha cominciato ad accusare dei disturbi fisici (nello specifico, forti emicranie), che lo hanno costretto a fermarsi per un lungo periodo. Soltanto ora ritroveremo il suo nome su una nuova testata - Free Agents della Image - che Busiek sceneggerà assieme a Fabian Nicieza. Di conseguenza, vista l’evidente situazione di stallo, l’iniziativa dell’editore emiliano è apparsa ancora più meritevole, così come degna di nota, benché sia ormai diventata la norma per Saldapress, è la veste scelta per i volumi che raccolgono le due miniserie, di cui la seconda – è bene ricordarlo - finora inedita da noi. Il formato maggiorato, unito a una stampa di altissima qualità, non solo rendono giustizia ai bellissimi colori di Alex Sinclair e José Villarubia, ma permettono di ammirare le tavole di Pacheco in tutto il loro splendore.

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Fletcher Arrowsmith è un giovane abitante di Herbertsville, nel Connecticut, che, contrariamente alla volontà del padre, decide di arruolarsi per andare a combattere in Europa. La vicenda, infatti, inizia nel 1915, quando nel Vecchio Continente già imperversa la Grande Guerra. Il mondo di Fletcher, però, è diverso dal nostro. Innanzitutto, la storia ha preso altre direzioni, tanto che la sua città natale non si trova negli Stati Uniti d’America (che non sono mai stati fondati), bensì negli Stati Uniti di Columbia (i quali, a eccezione della Florida, includono, più o meno, tutti gli stati americani orientali a noi noti) e in Europa, le differenze sono persino maggiori: per esempio, la Francia ha mantenuto il suo nome originale di Gallia, l’Italia non ha raggiunto l’unità e invece dell’Austria abbiamo la Tirolia. Inoltre, a seguito di un patto stipulato nel Medioevo, tra Carlo Magno e i reami magici, gli uomini convivono assieme a creature fantastiche come fate, troll e draghi. Arrowsmith è, quindi, un curioso incrocio tra una tipica storia di guerra e un fantasy, che, sorprendentemente, a dispetto di questa bizzarria, dal punto di vista narrativo funziona benissimo. Merito soprattutto della consueta capacità di Busiek di rendere credibile l’inverosimile, una qualità già evidente in Marvels e Astro City, le due opere in cui il creatore dei Thunderbolts aveva mostrato come apparirebbe la nostra realtà se i supereroi esistessero davvero.

Ma, scenario semi-fiabesco a parte, utile perlopiù a esaltare le doti artistiche di Pacheco, la vicenda si incammina presto sui binari del classico racconto di formazione. Pertanto, la fascinazione di Fletcher per il corpo d’aviazione e la sua genuina voglia di combattere per una giusta causa, rimarranno tali solo fino ai primi scontri con il nemico. Dinanzi agli orrori della guerra, il protagonista perderà in poco tempo la sua innocenza, lasciando inevitabilmente spazio a disillusione e fatalismo. Ciononostante, per non correre il rischio che le tematiche soprannaturali comincino lentamente a stonare in un contesto bellico tradizionale, Busiek, pur sottolineando con forza gli aspetti più sgradevoli del conflitto (la perdita degli amici in battaglia, le carneficine insensate, il cinismo dei comandanti), fa in modo che questi non prendano il sopravvento sui passaggi puramente avventurosi della trama. D’altra parte, l’autore statunitense, sebbene non estraneo a esperimenti di decostruzione abbastanza significativi (ne è una dimostrazione la già citata Astro City), è sempre stato il portavoce di un rinnovamento soft del medium, maggiormente evidente nel linguaggio che nella forma, riuscendo a trasportare il fumetto americano nel nuovo millennio, senza scalfirne minimamente l’essenza. Non è un caso che ogni volta si presenti la necessità di fare una lista dei principali contributi di Busiek alla Nona Arte non ci si dimentichi mai del suo lungo ciclo degli Avengers di fine anni Novanta e primi anni Duemila, realizzato in gran parte con George Pérez, uno dei disegnatori che, assieme a John Byrne e pochi altri, per più di due decenni ha rappresentato il punto di riferimento artistico dei comic book, mostrandosi capace di difenderne i canoni estetici persino nel pieno della rivoluzione operata da Todd McFarlane, Jim Lee e soci, dalla fine degli anni Ottanta in poi.
Arrowsmith segue alla lettera gli stessi dettami e il buon Kurt, libero da vincoli di continuity, ne approfitta anche per dare spazio alle sue grandi abilità affabulatorie, di frequente valorizzate da quei testi freschi e moderni, che caratterizzano costantemente la sua scrittura.

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Come è facile presumere - almeno da chi ha familiarità con lo stile dell’autore andaluso – ritroviamo l’identico mix equilibrato di tradizione e innovazione pure nelle tavole di Pacheco. Quest’ultimo, dopo alcuni lavori iniziali, in cui aveva manifestato chiare influenze nipponiche (al pari di diversi suoi connazionali come Pasqual Ferry e Salvador Larroca, sbarcati negli Stati Uniti all’incirca nel medesimo periodo), ha rapidamente affinato il suo tratto, distinguendosi per eleganza, ricercatezza delle inquadrature - per sua stessa ammissione, di derivazione kirbyana - ricchezza nei dettagli e una definizione delle anatomie che, pur mantenendo una certa morbidezza nelle forme (più simile, però, a quella rintracciabile nei disegni di Alan Davis che al cartoonismo dei manga), lo hanno reso l’artista ideale per Arrowsmith.
Soprattutto nella prima miniserie, Pacheco ci regala parecchie pagine che sono un’autentica gioia per gli occhi, non solo per l’armonia perfetta tra storytelling e cura dei particolari, ma anche per i giochi di ombre, l’espressività dei volti e la scelta dei primi piani di ogni vignetta.

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Come detto, parte di questo si perde nel secondo arco narrativo, dove, in verità, pure il modo di raccontare di Busiek appare più convenzionale e poco propenso a sorprendere i lettori. Ciononostante, se per lo scrittore americano è lecito ipotizzare un normale appannamento, forse dovuto al troppo tempo intercorso tra una miniserie e l’altra, è difficile non pensare, invece, che la performance meno entusiasmante – benché sempre di notevole livello – di Pacheco non sia dipesa dall’avanzare della malattia.
Oltretutto, leggendo i corposi extra del primo volume, nei quali, grazie alla verve creativa dell’amico romanziere Lawrence Watt-Evans, Busiek ci propone la stravagante (e minuziosissima!) storia del mondo alternativa, a cui abbiamo brevemente accennato in precedenza, diventa inevitabile fantasticare sulle infinite meraviglie che il maestro spagnolo avrebbe potuto offrirci, messo di fronte alla possibilità di rappresentare altre epoche, di immaginare città leggendarie e di dare forma a tanti nuovi personaggi.
La speranza, ora, è che, se mai si deciderà di portare avanti le avventure di Arrowsmith, lo si faccia scegliendo un disegnatore all’altezza del suo illustre e sfortunato predecessore.

Friday 1-2, recensione: lo "young adult horror" di Ed Brubaker e Marcos Martin

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A volte ci viene il dubbio che scrivere un articolo su un nuovo fumetto di Ed Brubaker possa tramutarsi, alla fine, in un semplice esercizio di stile. Oppure che rappresenti una sorta di pausa da recensioni più impegnative, in cui lo sforzo per approfondire i vari aspetti di una pubblicazione o per metterne in luce pregi e difetti si dimostri sensibilmente maggiore. Questo perché, da quando l’autore di Criminal e Fatale (tra le altre cose, visto che la lista di opere da citare sarebbe lunghissima) si è allontanato da Marvel e DC, per dedicarsi a progetti creator owned, non ha praticamente mai sbagliato un colpo. Cosa aggiungere, quindi, che non sia già stato scritto, senza limitarsi a tessere le – pur meritatissime - lodi di colui che si contende, assieme a pochi altri, la palma di miglior sceneggiatore in attività del comicdom a stelle e strisce? Una domanda lecita, che, comunque, non ci ha impedito di mettere mano alla tastiera del PC ancora una volta, mossi dalla piacevolissima lettura offertaci dai primi due volumi di Friday, serie appena terminata negli USA, che lo scrittore del Maryland ha realizzato in coppia con il disegnatore Marcos Martin per Panel Syndicate, la piattaforma online fondata nel 2013 proprio dall’artista catalano.

Proposta in Italia nell’elegantissima veste con la quale Saldapress abbellisce molte delle sue nuove uscite, il fumetto prende il nome dalla protagonista della storia, Friday Fitzhugh, una studentessa di college dell’immaginaria cittadina di Kings Hill, nel New England, che, durante l’adolescenza, si dilettava a risolvere i misteri del luogo in compagnia del giovane Lancelot Jones. Con quest’ultimo, un ragazzo un po’ stravagante, ma dotato di una notevole intelligenza, formava un team apparentemente indissolubile, le cui scorribande diventavano, nella fantasia dei due, mirabolanti – e, a prima vista, inverosimili – avventure. Quando, però, Friday torna a casa per le vacanze natalizie, venendo subito trascinata dall’amico in un nuovo caso investigativo, cominciano inspiegabilmente a manifestarsi inquietanti fenomeni sovrannaturali, in qualche modo collegati a una visione che la ragazza aveva avuto poco prima di partire per il college.

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Nella postfazione al primo volume, Brubaker afferma di aver cercato di scrivere la storia di Friday fin dai suoi esordi da sceneggiatore, dopo essersi appassionato, proprio in quel periodo, ai romanzi di John Dennis Fitzgerald, Donald J. Sobol e, in particolare, Louise Fitzhugh (sfacciatamente omaggiata nel cognome della protagonista)  o, più in generale, a tutta la letteratura young adult (espressione in realtà un po’ vaga, che racchiude in sé molti sottogeneri, il cui unico punto in comune è l’avere come personaggi principali degli adolescenti, spesso coinvolti in vicende fuori dall’ordinario), ma di non essere mai andato oltre qualche timido tentativo a causa delle numerose scadenze da rispettare. Ciononostante, quando Martin lo contattò per chiedergli di lavorare assieme, si convinse che fosse finalmente arrivato il momento giusto. Un’opinione che, visto il risultato della loro collaborazione, non possiamo che condividere. Senza considerare, poi, quanto l’impossibilità del creatore del Soldato d’Inverno a dedicarsi prima a raccontare le vicissitudini della giovane investigatrice abbia contribuito alla qualità della serie, dato che solo uno scrittore ormai pienamente consapevole delle sue capacità – quale è attualmente il nostro Ed – avrebbe potuto imbastire una trama così avvincente, mostrandosi in grado non soltanto di ideare un’opera realmente ascrivibile al genere young adult (come da sua intenzione originale), ma anche di fare in modo che essa fosse perfettamente identificabile come un fumetto “alla Brubaker”. Quindi, quello che all’inizio sembra un comune teen mistery, assume in seguito i tratti di qualcosa di diverso, in cui l’autore riesce abilmente a inserire sia il torbidume dei suoi noir più famosi, che la sua passione per H.P. Lovecraft, ampiamente palesata in passato nella già citata Fatale, ma, in parte, pure nella successiva Kill or Be Killed. Inoltre, se c’è una dote che tutti riconoscono allo sceneggiatore statunitense è il saper caratterizzare i personaggi in maniera precisa e distintiva. Una qualità che in Friday viene esaltata ulteriormente dalla necessità di dover mostrare i protagonisti alle prese con il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Brubaker gestisce tali incertezze sentimentali (e i turbamenti interiori che ne derivano) con naturalezza e semplicità, impiegandoli inevitabilmente a mo’ di intermezzo tra i tanti momenti drammatici che scandiscono la vicenda principale (la quale, come detto, assume spesso venature di horror puro).

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Di tutto ciò, per ora, dato il colpo di scena con cui si chiude il terzo episodio, a beneficiarne è sostanzialmente il personaggio di Friday, sebbene sospettiamo che lo scrittore americano abbia in serbo per Lancelot ancora parecchie sorprese. La ragazza diventa in breve tempo la voce narrante della storia, garantendo a Brubaker la possibilità di ricorrere ai suoi amati dialoghi in terza persona. Una caratteristica della letteratura hard boiled, per la quale l’autore di Dissolvenza a nero ha sempre manifestato una particolare predilezione, tanto da utilizzarla anche in opere in cui il noir c’entra poco o nulla (la spionistica Velvet, per esempio). Mai come questa volta, però – fingendosi furbamente ossequioso alle regole del genere - Brubaker si diverte a giocare con i lettori, confondendoli ad arte per lunghi tratti, per poi stupirli con rivelazioni che appaiono ovvie solo a posteriori. Inutile sottolineare quanto, cadere in tali trappole narrative, piaccia ai lettori stessi, ben consapevoli di essere lontanissimi dal clima disperante e dalla feroce rappresentazione dell’animo umano dei lavori più celebri dell’autore. E benché i “cattivi” vengano volutamente raffigurati in una maniera maggiormente stereotipata rispetto ai disillusi e meschini protagonisti delle sue crime story, la scrittura raffinata di Brubaker evita costantemente che la trama scivoli nella banalità.

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Che dire, infine, dei disegni di Martin? Qualcuno forse sarebbe stato curioso di vedere Sean Phillips (l’artista che, in questi anni, con poche eccezioni, ha dato vita a ogni parto della fervida mente dello sceneggiatore del Maryland) all’opera su Friday, ma il cartoonist inglese molto difficilmente sarebbe stato in grado di raggiungere la stessa potenza visionaria del suo collega catalano, in special modo nei numerosi passaggi onirici della vicenda, nei quali, oltretutto, è evidente il fondamentale apporto alla serie dei bellissimi colori di Muntsa Vicente. Martin costruisce le sue tavole seguendo alla perfezione il ritmo imposto da Brubaker, partecipando attivamente allo storytelling attraverso una selezione precisa delle inquadrature e dei dettagli. Così facendo, la tensione non cala mai di intensità e il racconto rimane sempre avvolto da un’atmosfera surreale e tenebrosa, che trasmette nel lettore un forte senso di inquietudine.   

Per il momento, gli ultimi tre episodi della serie sono disponibili solo su Panel Syndicate, ma la Image ha già annunciato l’uscita del terzo e conclusivo volume per i primi di agosto. Speriamo, quindi, che Saldapress non ci faccia attendere troppo per l’edizione italiana. L’astinenza potrebbe diventare intollerabile. 

A caro prezzo. Bella Ciao 1-3, recensione: il memoir familiare sull’immigrazione italiana in Francia

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Strano destino quello di Hervé Barulea, in arte Baru. Colui che ora è un celebrato maestro della bande dessinée, insignito nel 2010 del prestigioso Grand Prix de la ville d’Angoulême (vinto, tra gli altri, da artisti del calibro di Enki Bilal, Moebius e Will Eisner), sembrava non ritenere il fumetto il mezzo d’espressione adeguato al genere di storie che aveva in mente di raccontare. Eppure, fu proprio la natura popolare delle Nona Arte – scoperta poco dopo i vent’anni, appassionandosi alle avventure di Tintin e Spirou - unita all’approccio più adulto con cui alcuni autori europei e sudamericani decisero di caratterizzare le proprie opere a cominciare dagli anni Settanta, che gli fecero cambiare idea, permettendogli di imporsi, nel tempo, come il cantore a fumetti delle periferie operaie francesi, soprattutto quelle contrassegnate da una folta rappresentanza di migranti. Una sorta di Ken Loach della letteratura disegnata, insomma, che già con il suo primo lavoro di un certo spessore, Quéquette Blues, apparso a episodi sulle pagine di Pilote a partire dal 1983, pose le basi per quella che sarebbe diventata la sua poetica, un misto di critica sociale, condanna della xenofobia ed esaltazione degli umili, dove commedia – di frequente declinata in forma di satira – e dramma si muovono ripetutamente a braccetto, dentro una narrazione libera da schemi precostituiti, che, tuttavia, non rinuncia a una messa in scena teatrale o all’utilizzo di personaggi curiosi e bizzarri, a dispetto di numerosi spunti autobiografici, che derivano dall’essere lui stesso – così come molti componenti della sua famiglia – parte di quel mondo.

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Tanti elementi che ritroviamo, al loro apice, in A caro prezzo, titolo con il quale Oblomov ha pubblicato in Italia (in maniera esemplare per stampa e confezione, come è consuetudine della casa editrice bolognese) l’opera in tre volumi Bella Ciao, uscita originariamente in Francia per Futuropolis tra il 2020 e il 2022. Il fumetto, frutto di un accurato lavoro di documentazione, durato parecchi anni, non si limita a riprendere ogni tema prediletto dall’autore transalpino, ma ne amplifica il sottotesto, incastonando una cronaca familiare multigenerazionale all’interno di una lunga epopea storica, che inizia con la rievocazione dei tragici eventi di Aigues-Mortes, un paesino nel sud della Francia, dell’agosto del 1893, quando alcuni abitanti del luogo massacrarono diversi immigrati italiani, che lavoravano nelle vicine saline di Fangouse. Un’introduzione brutale, raccontata con cruda essenzialità, la cui cupezza viene, però, presto ribaltata dall’allegria del banchetto per la Prima Comunione di Teo Martini, uno dei personaggi principali, oltreché, in vari passaggi, voce narrante dell’opera. Ambientata negli anni Sessanta del secolo scorso, la festa rappresenta non solo l’occasione per fare la conoscenza di molti dei protagonisti della vicenda, ma anche per tornare a respirare il forte spirito di fratellanza che unisce le comunità di stranieri, con cui Baru ha spesso caratterizzato i suoi lavori precedenti. In A caro prezzo questo legame diventa, esplicitamente, l’unico antidoto possibile per dimenticare le difficoltà a integrarsi fuori dalla propria terra d'origine, per riuscire a ignorare l’ostilità della popolazione locale, per mitigare l’irrefrenabile desiderio di fare ritorno in patria o, più semplicemente, per cercare di preservarne le tradizioni (che può significare anche solo tramandare le ricette di cucina apprese da nonni e genitori).

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Un’alternanza continua di flashback e di salti nel futuro, concepiti quasi come dei piccoli racconti autoconclusivi, ci mostrano poi le vicissitudini di vari personaggi, con la storia del Novecento sullo sfondo a inquadrarle in un’epoca precisa. E così, le brigate garibaldine accorse in difesa della Francia assediata dall’Impero austro-ungarico all’inizio della Prima Guerra Mondiale, lasciano rapidamente spazio all’aspro scontro tra comunisti e fascisti negli anni Trenta, fino ad arrivare agli anni Sessanta, dove giovani più interessati a ballare il rock and roll paiono non preoccuparsi della perdita di un’identità politica ben definita. Esistenze diverse e stili di vita agli antipodi che, tuttavia, trovano il loro elemento unificatore nell’enorme impianto siderurgico che sostiene l’intera comunità. Un ulteriore tema ricorrente per Baru, che questa volta dipinge il gigante metallico in maniera fortemente ambivalente: unica speranza di sfuggire alla miseria contadina, ma, nello stesso tempo, inesorabile condanna per chi non ha altre alternative.

L’imponenza della struttura viene rappresentata attraverso vignette a tutta pagina molto suggestive, in particolare la doppia tavola che ne mostra la demolizione, evento liberatorio e, insieme, doloroso, che funge anche da chiusura del cerchio per la vicenda nel suo complesso. Le parole usate da Teo Martini nel primo libro, rammentando la sua infanzia, vengono infatti riprese integralmente nell’epilogo, al fine di trasmettere nel lettore il profondo disagio provato dal personaggio nel vedere scomparire lo stabilimento in cui intere generazioni della sua famiglia hanno lavorato instancabilmente per assicurare a lui e ai suoi coetanei un futuro migliore. Un futuro che si concretizza subito dopo in modo alquanto surreale: gli ex macaronì (termine dispregiativo utilizzato oltralpe per indicare gli immigrati italiani) perdono gradualmente di colore e di consistenza, divenendo infine indistinguibili dal resto dei francesi. I sacrifici, le rinunce e le fatiche di chi parecchi anni prima aveva dovuto abbandonare il Bel Paese in cerca di un’occupazione risuonano come un ricordo lontano, percepibile soltanto in qualche sbiadita fotografia in bianco e nero, ma destinato a sparire a breve nelle nebbie del tempo. Una conclusione agrodolce che celebra la normalità delle persone comuni, da sempre ignorate dai libri di storia a dispetto del ruolo fondamentale da loro svolto nell’edificare l'identità di una nazione.

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Di fronte ad argomenti di così ampio respiro, Baru sceglie saggiamente di lasciare meno spazio agli eccessi grotteschi, all’umorismo nero e al linguaggio scorretto, tipici di gran parte delle sue opere precedenti e anche il suo caratteristico tratto sporco, irregolare e poco attento al rispetto delle anatomie, in qualche misura ispirato a quello del suo mentore José Muñoz, sembra quasi addolcirsi, per quanto costantemente pronto a riemergere a ogni esplosione di gioia o nelle ingenue manifestazioni di cialtroneria popolare.
Consapevole, inoltre, che questo suo monumentale lavoro di ricostruzione possa essere scambiato per un semplice racconto nostalgico, prima di congedarsi l’autore italo-francese decide di tornare all’eccidio di Aigues-Mortes, alludendo a quanto la superficialità, la mancanza di memoria storica e l’opportunismo politico spingano l’umanità a ripetere di continuo i propri errori. Un messaggio lucido e apparentemente incontestabile, ma che contrasta nettamente con la realtà e con l’ipocrita afflizione dei governi europei davanti a ogni conta dei morti, dopo l’ennesimo naufragio di migranti nel Mediterraneo.

A ulteriore certificazione del valore dell'opera, chiudiamo ricordando che, durante la recente edizione primaverile di Romics, il terzo volume di A caro prezzo si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria.

Ultimate Invasion, recensione: il ritorno della nuova Marvel

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Per quanto non possa ancora vantare nessun riconoscimento di particolare importanza (nella sua quasi ventennale carriera nei fumetti, non gli è mai stato assegnato un Eisner Award né altri premi minori), Jonathan Hickman è un autore di fama internazionale, il cui nome costituisce sempre un significativo richiamo per i lettori. E benché a causa di alcune sue opere passate, caratterizzate da trame troppo cervellotiche o dall’abuso di strumenti narrativi inusuali come le infografiche, una piccola parte della critica persevera a non considerarlo allo stesso livello di altri sceneggiatori, anche i suoi più strenui detrattori faticano a negarne la notevole ingegnosità, che lo rendono un world builder di prima grandezza, capace di rigenerare ogni character che gli viene affidato. Sono probabilmente queste le qualità che devono aver convinto la Marvel a chiedergli di riportare in vita l’universo Ultimate, sulla scorta dell’ottimo lavoro svolto qualche anno fa con il mondo mutante e, in precedenza, con i Fantastici Quattro (che dopo di lui non hanno più trovato uno scrittore degno di questo nome, sebbene siano passati sotto le mani di Matt Fraction, James Robinson e Dan Slott). Per non menzionare la sua gestione degli Avengers, con i quali ha portato avanti una lunga sottotrama, che ha fatto da preludio alla cataclismatica maxiserie Secret Wars, il megaevento fumettistico dipanatosi negli USA tra il 2015 e il 2016, in cui proprio l’universo Ultimate veniva cancellato assieme a gran parte del multiverso Marvel. Hickman stesso era stato il direttore d’orchestra di quel gigantesco crossover, quindi, che ora sia lui lo sceneggiatore incaricato di rilanciare la linea Ultimate, suona quasi come un paradosso.

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A ogni modo, l’autore di East of West e Decorum non delude le aspettative e fin da Ultimate Invasion, la miniserie preposta a introdurre il nuovo universo Ultimate, fa ripetutamente sfoggio di quella grande inventiva accennata all’inizio, non limitandosi a un semplice revival dei concetti elaborati più di vent’anni fa da Brian Michael Bendis e Mark Millar, per i protagonisti delle testate Ultimate di allora, ma realizzando, come sua abitudine, qualcosa di totalmente differente e, al tempo stesso, innovativo.
Personaggio centrale della trama è il Creatore, il Reed Richards del precedente universo Ultimate, sopravvissuto alla distruzione del suo mondo, per diventare un potente avversario degli eroi di Terra Prima, cioè l’ex Terra 616 (quella delle serie Marvel tradizionali) “rinata” alla fine di Secret Wars. Hickman aveva contribuito in maniera determinante a definirne il carattere e le motivazioni, dopo che, diverso tempo prima che il suo pianeta fosse annientato, il capo della versione Ultimate dei Fantastici Quattro aveva clamorosamente preso la via del male.
All’inizio della vicenda, vediamo il Creatore usare il suo genio perverso per fuggire da una prigione di massima sicurezza di Damage Control e, successivamente, impegnato a impossessarsi degli strumenti necessari a costruire un portale spazio-temporale. Raggiunto dagli Illuminati, il criminale si sottrae ad essi scomparendo verso un altro mondo, Terra 6160 (una sorta di combinazione di 616 e 1610, il numero con cui veniva indicata la Terra del “vecchio” universo Ultimate), dove comincia ad alterare vari avvenimenti del passato, allo scopo di diventarne il padrone assoluto.

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Di più non aggiungiamo, perché le tante idee messe in campo dallo scrittore del South Carolina meritano di essere assaporate dall’inizio alla fine. E sebbene Ultimate Invasion possieda solo in parte l’afflato epico di House of X e Powers of X (le miniserie con cui Hickman ha dato il via alla cosiddetta Era Krakoana dei mutanti Marvel, giunta al suo drammatico epilogo in queste ultime settimane), l’opera ha conservato molti degli aspetti positivi, che avevano portato al successo quei due fondamentali tasselli della storia recente degli Uomini X. Ci riferiamo, in particolare, a come la narrazione complessa e a lungo respiro, che da sempre contraddistingue le trame dell’autore statunitense, non si perda mai in divagazioni fini a se stesse, a dispetto di uno scorrere degli eventi articolato e discontinuo (persino nei passaggi in cui è l’azione a prendere il sopravvento), che, come da copione, trova coerenza e significato solo nelle pagine finali. Hickman, inoltre, non lesina i colpi di scena e le rivelazioni sorprendenti, potendo anche contare sul fatto che, a differenza di quanto accaduto con i mutanti, nel nuovo universo Ultimate non ci sono decenni di continuity da rispettare, sentendosi, pertanto, autorizzato a dare libero sfogo alla sua creatività e a lasciare che i richiami alle storie di Bendis e Millar si tramutino in niente più che semplici omaggi, con la precisa intenzione di non mantenere alcuna connessione con quelle saghe passate. In altre parole, una conferma ulteriore della volontà di non fossilizzarsi su uno sterile remake e del desiderio di esplorare strade sostanzialmente inedite, che possano stimolare sia l’interesse dei lettori che il lavoro degli autori. Ed è proprio sulla base di questo assunto che Hickman costruisce una versione totalmente divergente dall’universo Marvel canonico, che si discosta pure in maniera netta dal mondo reale. Una visione distopica della società umana, che rimaneggia abilmente un tema caro a molta fantascienza contemporanea (e che, con toni differenti, aveva già fatto capolino in alcune sue opere precedenti o, per citare un fumetto recente, in Lazarus di Greg Rucka e Michael Lark) dove, comunque, non mancano gli eroi pronti a combattere per sovvertire lo status quo. Oltretutto – e inevitabilmente – è su questi ultimi che si concentra la voglia di sbalordire dello sceneggiatore americano, presentando parecchi di essi in una veste che, per quanto inaspettata, risulterà alla fine assolutamente verosimile. Senza considerare i personaggi coinvolti in un ribaltamento di ruoli, che stupirà anche i lettori più smaliziati (vedi la reale identità di Kang o l’intrigante dualismo Reed Richards-Dottor Destino) e che preannuncia sviluppi futuri non meno affascinanti.

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Passando ai disegni, ci fa piacere segnalare che Bryan Hitch sembra aver quasi ritrovato lo smalto di un tempo. Il cartoonist britannico, famoso per il suo importantissimo contributo alla prima incarnazione dell’universo Ultimate, avendo dato vita in coppia con Mark Millar agli Ultimates, la versione alternativa degli Avengers (che, notoriamente, è stata la fonte di riferimento principale degli sceneggiatori del Marvel Cinematic Universe, per trasportare gli Eroi più Potenti della Terra sul grande schermo), in anni recenti pareva, infatti, aver subito un’involuzione nello stile, che si traduceva in volti poco definiti e anatomie sproporzionate. In Ultimate Invasion, pur non raggiungendo i livelli eccelsi di The Authority o, appunto, The Ultimates, la qualità delle sue tavole è migliorata in maniera consistente. Le vignette, in particolare, sono tornate a essere ricche di dettagli, a partire dalle cosiddette “widescreen page”, vero e proprio marchio di fabbrica di Hitch. Spettacolari splash-page - che non di rado arrivano a occupare due pagine per intero - stracolme di personaggi, spesso coinvolti in impressionanti scene d’azione. Ormai lontano dal tratto morbido, ispirato a quello di Alan Davis, con cui aveva caratterizzato i suoi lavori a inizio carriera, l’artista d’oltremanica non ha perso l’abitudine di utilizzare prospettive insolite e ardite che, unite a primi piani dei protagonisti scelti con molta cura e a inquadrature estremamente cinetiche, regalano al lettore un’esperienza quasi cinematografica.

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Tale exploit, tuttavia, è destinato a essere – a meno di futuri ripensamenti - una sorta di canto del cigno di Hitch sugli albi della Marvel, dato che l’autore ha pubblicamente dichiarato di non volersi più impegnare con personaggi di cui non detiene i diritti, entrando a far parte, assieme ad altri big del fumetto americano (Geoff Johns, Gary Frank e Ivan Reis, solo per citare i più famosi) del collettivo Ghost Machine, che svilupperà nuove serie per l’Image.
Non una bella notizia per la Casa delle Idee, che, a dispetto di decisioni discutibili, apparentemente indirizzate al semplice ritorno commerciale (tra i primi titoli annunciati abbiamo Ultimate Black Panther, nato evidentemente con l’intento di attrarre il folto pubblico afroamericano, e Ultimate X-Men, realizzato in toto da Peach Momoko, che, invece, vuole strizzare l’occhio agli appassionati di manga), sembra veramente interessata a rendere questa nuova linea Ultimate qualcosa di speciale. Una sensazione confermata non soltanto dal piacevolissimo Ultimate Universe, one shot che fa da collegamento tra Ultimate Invasion e le testate dedicate ai singoli character, ma soprattutto da Ultimate Spider-Man, che – a giudicare da quello che succede nell’albo d’esordio - oltre a essere illuminato dai disegni del nostro Marco Checchetto, può ancora vantare un Hickman per nulla restio a offrire altri imprevedibili risvolti nelle vite dei personaggi principali.

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