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La DC Comics rilancia la linea Vertigo

  • Pubblicato in News

Dopo la sua chiusura avvenuta nel 2019, la DC Comics ha annunciato al New York Comic Con che rilancerà la sua linea editoriale Vertigo.

Il secondo ciclo di The Nice House on the Lake di James Tynion IV, passerà dall'essere un progetto DC Black Label all'essere il primo nuovo titolo Vertigo a rilanciare l'etichetta. 

Originariamente lanciata nel 1993, l'etichetta Vertigo è stata creata per pubblicare fumetti di proprietà degli autori con temi maturi che non rientravano nelle restrizioni della principale linea e nella continuity dei fumetti della DC.

Oltre alla notizia che la serie The Nice House on the Lake sarebbe passata alla linea Vertigo per il suo secondo ciclo, la DC ha anche annunciato l'ingresso delle serie del The Sandman Universe nel revival dell'etichetta.

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Lucifer 1 - Il Diavolo sulla soglia, recensione: il Demonio Ribelle di Mike Carey

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L’etichetta Vertigo, il marchio della DC Comics rivolto ad un pubblico più sofisticato e maturo di quello interessato solamente ai supereroi, ha lasciato una traccia indelebile nella storia del fumetto americano nonostante sia stata chiusa da qualche anno per scelta editoriale, venendo soppiantata dalla divisione Black Label.
Creata da Karen Berger, redattrice e figura fondamentale nella storia della DC Comics, la Vertigo è stata la casa degli esponenti principali della “British Invasion” come Neil Gaiman, Peter Milligan, Grant Morrison, Garth Ennis e, in generale, del fumetto di qualità.

Il grande successo di una serie come il Sandman di Gaiman portò al consolidamento dell’etichetta e all’arrivo di una successiva ondata di autori inglesi nella seconda metà degli anni ’90. Sceneggiatori come Mike Carey, proveniente dalla fucina britannica di 2000 A.D., che debuttò nel 1999 in DC/Vertigo con una miniserie di tre numeri (seguita da una serie regolare) dedicata a Lucifer, il diavolo androgino che era stato presentato proprio nei primissimi numeri di Sandman. Costretto a recarsi all’inferno per recuperare l’elmo facente parte dei suoi paramenti reali, Morfeo si era imbattuto in “Lucifer Morningstar”, immaginato da Gaiman e da Sam Kieth, autori della storia, con le fattezze di David Bowie, il “rebel” per eccellenza della cultura pop/rock britannica. Paradigma dell’autodeterminazione, Lucifero lascerà anche l’Inferno per seguire la propria strada. Che vuol dire, nel suo caso diventare il proprietario di un piano bar a Los Angeles. È in questa veste che lo ritroviamo all’inizio di Lucifer vol.1 – Il Diavolo sulla soglia, il primo di una serie di volumi brossurati con cui Panini Comics inizia la ristampa della serie culto dedicata a colui che era stato il più luminoso tra gli angeli, prima della sua caduta.

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Il volume è suddiviso in tre capitoli. Il primo corrisponde alla miniserie del 1999, in cui ritroviamo Lucifer alle prese con la sua nuova vita. Si è dimesso dall’inferno e gestisce un club a Los Angeles, situazione che ritroviamo anche nella serie tv che si ispira al fumetto solo superficialmente, senza mutuarne trame e spessore. Il Paradiso, nonostante gli antichi dissapori, lo contatta comunque per affidargli un incarico: rintracciare e fermare una pericolosa entità capace di realizzare qualsiasi desiderio concepito dagli esseri umani. Lo accompagnerà una giovane di origine indiana, Rachel, la cui vita è stata irrimediabilmente travolta da un desiderio esaudito e che scoprirà ben presto cosa voglia dire avere a che fare col Diavolo in persona. Il secondo capitolo coincide con l’inizio della serie regolare originale e vede Lucifer recarsi ad Amburgo e più precisamente nel quartiere di St. Pauli, culla del movimento punk tedesco, brulicante di vita, locali ma anche di naziskin e prostituzione. L’Astro del Mattino va alla ricerca di Meleos, un angelo che vive tra gli umani camuffandosi da libraio. Una vecchia conoscenza di Lucifer, esperto di divinazione e tarocchi. E il Diavolo vuole da Meleos proprio questo, una risposta su quali siano i piani del Paradiso e su cosa gli riservi il futuro. Nell’ultima storia del volume facciamo la conoscenza di Elaine Belloc, una bambina che ha la capacità di parlare con i defunti, che deve indagare sull’assassinio della sua amica Mona. L’incontro con Lucifer darà la svolta alla vicenda.

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Ponendosi sul solco tracciato da Neil Gaiman e dal suo Sandman, Mike Carey usa questi primi episodi per presentare i personaggi e gli elementi che costituiranno l’architrave del suo ciclo, un lavoro di worldbuilding efficace che ci trascina subito nel mood della serie. Come in molte storie a marchio Vertigo, entità ancestrali sostanzialmente indifferenti al destino degli uomini incrociano il cammino di un’umanità alla deriva. Un Inferno che gli uomini si costruiscono da soli e di cui Lucifero, ironicamente, non è responsabile, preso dal suo processo di emancipazione da un destino già tracciato. Un enigmatico osservatore delle miserie umane, che interviene solo quando il caos rischia di travolgere tutto e tutti. Carey delinea una figura misteriosa e insondabile, magnetica e carica di fascino ambiguo, che inizia qui il percorso di protagonista di una serie di settantaquattro numeri che sarà acclamata da pubblico e critica.

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Sul fronte grafico, si alternano tre artisti sinonimo di fumetto d’autore. Apre le danze Scott Hampton, che con i suoi acquarelli che trascina il lettore in atmosfere rarefatte ed evocative. Il segmento ambientato ad Amburgo, invece, si avvale delle matite di stampo realista dell’inglese Chris Weston, un nume tutelare della Vertigo di quegli anni che avremmo rivisto anche su alcuni numeri di Hellblazer e, soprattutto, su The Filth in coppia con Grant Morrison. Al contrario dei pennelli di Hampton, il tratto di Weston gioca su un nero molto marcato e amplificato dalle chine realizzate dello stesso autore in coppia con James Hodgkins, altro habitué dei fumetti Vertigo come il colorista Daniel Vozzo, che concorrono ad un risultato finale classico e di forte impatto. Il capitolo finale ci regala un altro cambio di registro, dovuto alla storia che Carey vuole raccontare, una vicenda di fantasmi per la quale il tratto stilizzato di Dean Ormston e Warren Pleece è perfetto nel trasmettere brividi e suggestioni.

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Y - L’Ultimo Uomo, Volume 1 e 2, recensione: cambia il mondo, ma non l’umanità

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La fantascienza è un genere straordinario, capace di intercettare paure, sentimenti, conflitti sociopolitici, tensioni culturali di un'epoca e restituirli in una forma narrativa capace di metaforizzarli e renderli moniti o spunti di riflessione sul proprio tempo.
Y – L’Ultimo Uomo di Brian K. Vaughan e Pia Guerra non fa eccezione. Sicuramente complice il suo adattamento seriale in live action - interrotto dopo la prima stagione - Panini Comics riporta in formato brossurato la storia di Yorick Brown e la sua scimmietta cappuccino Ampersand.

Improvvisamente, su tutto il pianeta Terra, qualunque mammifero con cromosoma Y muore, senza alcun preavviso. Ed è proprio a questo “gendercidio” che Yorick, giovane squattrinato illusionista, sopravvive. Questo lo rende, chiaramente, la persona più ricercata e importante del mondo. Per disparati motivi: per poterlo studiare e cercare una cura, come oggetto di appetiti sessuali, oppure come ultima minaccia da abbattere. Ma oltre ad essere l’ultimo uomo sul pianeta, Yorick è anche l’ultimo dei “romantici”: avvenuta l’ecatombe mondiale, il suo unico obiettivo è quello di andare dalla propria fidanzata rimasta bloccata in Australia.

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La serie ideata da Vaughan e Guerra, in ormai vent’anni dalla sua prima pubblicazione (2002) per l'ex etichetta Vertigo della DC Comics - ora Black Label -, rimane estremamente attuale nel suo sviluppo narrativo. Specialmente considerando che, una pandemia diversa ma ugualmente drammatica come quella del racconto, i lettori di oggi l’hanno davvero vissuta. Perché il punto di forza non è certo l’assunto distopico-fantascientifico, quanto – come ha fatto - in particolar modo all’inizio dell'avventura - Robert Kirkman con The Walking Dead – la reazione dei personaggi agli eventi. Persone normali gettate improvvisamente in un mondo anormale, in cui le regole assodate, improvvisamente, vengono sostituite da altre, fino ad ora sconosciute.

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L’affresco che Vaughan mette in campo nel mondo distrutto è del più vario: fanatismi, codardie e tradimenti, violenza e sopraffazione come strumento dei vili, stupidità e anti-scientificità usata come bandiera di un progressismo cieco. Ma, fortunatamente, l’autore lascia scorrere nel racconto – realisticamente – anche quell’umanità positiva, altruista, capace di sacrifico e coraggio. L'autore, però, non lo fa tipizzando i personaggi con un tratto distintivo, ma li struttura in maniera stratificata e complessa, facendoli reagire agli eventi in maniera, spesso, inaspettata. Dopotutto si può essere coraggiosi ma egoisti allo stesso tempo.

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I disegni di Pia Guerra si prestano nella loro essenzialità grafica a far affiorare tanto la personalità degli attori coinvolti nella storia, quanto gli ambienti di desolata civiltà perduta che il racconto fantascientifico necessita. Il mondo post-apocalittico di Y – L’ultimo uomo prende vita con poche, dosate e misurate linee che riescono a descrivere le scene senza sovrapporsi alla narrazione e men che meno senza predominare sulle scene. Dopotutto, il racconto di Vaughan è fantascientifico ma non quello per cui l’assunto stesso del genere fa da padrone. È un racconto sull’umanità vittima di se stessa e degli assunti sociali auto-imposti. Un’umanità incapace di adattarsi ai tempi e ai contesti che cambiamo. Un’umanità che, in fin dei conti, non riesce mai ad abbandonare la propria, primordiale, ferinità.
O quasi.

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The Sheriff of Babylon, recensione: la consacrazione di Tom King e Mitch Gerads

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Prima di diventare lo sceneggiatore di titoli di successo come Batman, Mister Miracle e The Vision, Tom King è stato un agente della CIA. Sull’onda del lutto nazionale e della reazione emotiva seguita alla tragedia dell’undici settembre, King si arruolò nell’agenzia di intelligence per poter offrire il suo contributo. Terminò il suo addestramento proprio mentre gli Stati Uniti stavano per entrare in guerra contro l’Iraq. Partì per Baghdad, dove rimase per pochi mesi prima di fare ritorno a casa. Successivamente, continuò ad operare come agente dell’antiterrorismo sia in patria che in giro per il mondo, fino alla nascita di suo figlio. Come ha lui stesso raccontato, questo evento lo spinse a riconsiderare le sue priorità, realizzando ben presto che non poteva essere contemporaneamente un agente e un buon padre. Ripiegò così sulla scrittura, una sua vecchia passione, con i risultati che ben conosciamo.

L’esperienza alla CIA era stata, però, una tappa fondamentale del suo percorso professionale ed umano così quando la Vertigo, defunta ma indimenticata etichetta dedicata ad un pubblico maturo della DC Comics, gli chiese di scrivere una serie, King pensò subito ai mesi trascorsi a Baghdad. Non potendo adattare quanto vissuto personalmente per ovvi motivi di opportunità, lo scrittore optò per un thriller poliziesco, un genere che ben si presta a descrivere la complessità di un luogo fotografato in un momento storico dominato dall’ambiguità e in cui nulla è come sembra. Nacque così The Sheriff of Babylon, frutto della collaborazione tra King e il disegnatore Mitch Gerads, che Panini Comics ripropone ai lettori italiani dopo la prima edizione pubblicata anni fa dal precedente licenziatario.
“Murder mistery” che mutua i canoni di classici generi americani come il noir o il western ma calandoli in un contesto bellico, The Sheriff of Babylon racconta due mesi nella vita di tre personaggi lontanissimi tra loro come formazione ed esperienze, ma le cui esistenze si intrecceranno in modo indissolubile con uno stile narrativo che ricorda molto quello usato da Alejandro González Iñárritu in pellicole come Babel e 21 Grammi, miscelato ad atmosfere che sembrano uscite da Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow.

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Christopher Henry è un poliziotto americano, arruolatosi nell’esercito per addestrare i cadetti della nuova polizia della Baghdad liberata. Quando era in servizio in America, ha avuto l’occasione di arrestare uno dei terroristi dell’11 settembre facendoselo scappare. Ora è in Iraq per fare ammenda, addestrando il nuovo corpo di polizia. Sofia è una giovane donna irachena che vive in America da quando era bambina, salvo rientrare in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Il nonno è stato tra i fondatori del partito Baath, lo stesso del dittatore, ed è stato fatto ammazzare da Saddam quando quest’ultimo ha cominciato a percepirlo come una minaccia al suo potere. Sofia (o Saffiya, il suo nome iracheno che ricomincia ad usare una volta rientrata in patria) è una donna che porta cicatrici tanto nell’anima quanto nel fisico, che non scalfiscono però la sua forza e la sua determinazione. Essendosi costruita sapientemente rapporti tanto con l’intelligence statunitense quanto con esponenti politici locali, si candida ad un ruolo importante nel futuro del suo paese. Nassir, invece, è un ex poliziotto del servizio personale di Saddam. In questo ruolo ha commesso azioni di cui non va fiero. Ha perso le sue tre figlie durante l’attacco americano a Baghdad. Vive con la moglie Fatima e non si aspetta più nulla dal futuro. Un giorno, uno dei cadetti addestrati da Chris viene ritrovato morto ai confini della zona verde, il settore della città controllato dagli americani. È la miccia che innescherà una trama fitta di mistero, in cui nulla è come sembra, che finirà ben presto per coinvolgere anche Nassir e Saffiya.

The Sheriff of Babylon contiene, tanto dal punto di vista stilistico quanto dei contenuti, tutti i tratti caratteristici di un tipico lavoro di Tom King. Per quanto la trama possa apparire quanto di più distante dalle storie di supereroi per le quali lo scrittore è diventato celebre, in realtà ci sono tutti i topoi tipici delle opere di King. Prima di tutto, la difficoltosa analisi di una realtà troppo ambigua e complessa per poterla decifrare con strumenti canonici. La Baghdad mostrataci da King è un limbo inintelligibile, un pantano in cui è impossibile comprendere le reali motivazioni dei personaggi che la popolano. Militari, agenti segreti, politici, terroristi, sembrano pedine di uno schema che non sembrano comprendere appieno, e noi con loro. D’altronde, come potremmo? Dalle pagine emerge tutta la complessità della storia di un paese diviso tra un passato recente relativamente stabile, seppur sotto il giogo di un dittatore, e l’improvvisa libertà ritrovata grazie all’intervento bellico a stelle e strisce. Una situazione politica e sociale del tutto nuova, che stenta però a stabilizzarsi, lasciando il passo ad un caos causato da rese di conti spesso sanguinarie tra partiti e gruppi di potere ancora vivi e vegeti, sebbene appartenenti a un’epoca che non può tornare. Il sentimento dominante è quello di uno spaesamento collettivo, percettivo e sensoriale, che se nelle opere a tema supereroistico firmate dall’autore rappresentavano una metafora dell’esistente, qui diventa caratteristica precipua dell’esistente stesso. Sullo sfondo, la malinconia per un passato mitico, per un’età dell’oro persa ormai nella nebbia della storia che ha visto l’Iraq come la culla della civiltà. Nostalgia evocata a più riprese dalle due straordinarie figure femminili, Saffiya e Fatima, e ben rappresentata dalla sequenza onirica che apre il quarto capitolo, con la narrazione della favola della principessa Saffiya, omonima della protagonista. Di nuovo torna, nel lavoro di King, l’evocazione di un passato glorioso e mitologico a cui fa da contraltare un presente incerto, se non fatto di rovine come in questo caso. Un tratto tipico delle opere dello scrittore che ha caratterizzato i momenti più lirici di opere come The Vision, Mister Miracle e Strange Adventures, ma che qui ovviamente assume una gravitas differente.

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Sheriff of Babylon è un campionario dell’arte in cui King eccelle, ovvero la gestione dei tempi narrativi e dell’approfondimento psicologico grazie a dialoghi efficaci e misurati sulla sinergia con l’artista che lo accompagna. In questa occasione venne inaugurata una collaborazione che avrebbe segnato opere future dello scrittore, come le sopra menzionate Mister Miracle e Strange Adventures, quella col disegnatore Mitch Gerads. All’epoca Gerads veniva da un’ottima sequenza sul Punisher della Marvel, dove aveva dimostrato di sentirsi a suo agio con le atmosfere di genere militaresco, ma non aveva dato ancora sfogo alla sua raffinata abilità di storyteller. L’occasione propizia si presentò proprio con Sheriff of Babylon, dove scattò un feeling artistico immediato con King. Il fumetto è un'arte visiva, e il modo in cui un testo viene tradotto in immagini è decisivo per la riuscita dell’opera. In questo caso, non è esagerato dire che Sheriff of Babylon non sarebbe potuto esistere senza l’arte di Mitch Gerads. La celebre affermazione di Andrè Bazin sulla capacità del montaggio cinematografico di produrre significato trova piena conferma nelle tavole sapientemente organizzate dell’artista. Il formato preferito è quello della griglia a nove vignette, reso celebre da Watchmen, soprattutto nelle scene di dialogo. La scelta compositiva è quella di un’inquadratura fissa, con piccole varianti di postura da una vignetta all’altra che suggeriscono il movimento, evitando un’eccessiva immobilità. I dialoghi di King hanno così tempo di fare breccia nel lettore, e le immagini ne sottolineano il valore introspettivo e psicologico, concedendogli il giusto tempo di fruizione.

Gerads varia la composizione delle sue tavole pagina dopo pagina, a seconda delle richieste che vengono dallo script: alle nove vignette si sostituiscono così quattro o cinque strisce orizzontali in formato panoramico con elementi che si spostano da destra a sinistra a dare la sensazione del movimento, come nella scena dell’attentato a Saffiya. Le scelte compositive non sono rigide e convivono nella stessa pagina, laddove il “montaggio” lo richieda. Possiamo godere così di una raffinata selezione di elementi del découpage classico, tra montaggi alternati, campi e controcampi, arricchiti di elementi tipicamente fumettistici come onomatopee e le splash page. Quest’ultime però non sono usate gratuitamente ma vengono centellinate, e il loro utilizzo sottolinea momenti solenni ampiamente preparati nelle pagine precedenti.

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Significativa da parte di Gerads è anche la scelta del colore, vero e proprio “commento” visivo alla vicenda. Domina il giallo ocra, colore della terra, che rende bene un setting opprimente tanto a livello climatico quanto a quello psicologico, salvo lasciare il campo a tonalità di verde e azzurro nelle scene notturne, veri momenti di calma prima della tempesta, che assumono una dimensione quasi onirica.

The Sheriff of Babylon viene proposto da Panini Comics in una confezione di altissima qualità, un cartonato di grandi dimensioni che esalta lo straordinario lavoro di Tom King e Mitch Gerads, un lavoro che sfrutta appieno la ricca grammatica loro concessa del medium fumetto.

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