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Rocketeer - Il carico maledetto, recensione: Mark Waid e Chris Samnee raccolgono l'eredità di Dave Stevens

Rocketeer Vol2 Carico maledetto

Non sono in molti a conoscere la singolare storia editoriale di Rocketeer, eppure stiamo parlando di un personaggio, che all’inizio degli anni Ottanta, quando il circuito delle fumetterie cominciò a consolidarsi su tutto il territorio statunitense, determinando la nascita di diverse piccole case editrici, slegate da Marvel e DC, divenne uno dei più grandi successi del fumetto indipendente americano. Fu, infatti, la Pacific Comics a pubblicare nel 1982, in appendice a due numeri dello Starslayer di Mike Grell, le brevi storie di Rocketeer. Il personaggio era stato ideato, quasi per hobby, da Dave Stevens, un talentuoso disegnatore che si era fatto le ossa come inchiostratore del grande Russ Manning sulle strisce di Tarzan e come realizzatore di storyboard per cinema e televisione, ed era un omaggio a vari eroi delle matinée domenicali americane degli anni Cinquanta.

Stevens, il cui tratto morbido e parzialmente caricaturale mostrava chiare influenze frazettiane (ma erano piuttosto evidenti anche somiglianze con i lavori di Will Eisner e Lou Fine), per rendere ancora più esplicita la sua passione per quelle trame semplici e avvincenti, decise di dare alle storie una marcata impostazione da serial pulp degli anni Trenta. Protagonista della vicenda era il pilota acrobatico Cliff Secord che, a pochi mesi dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale, trova - nascosto nel suo hangar - un misterioso jet pack. Per diventare famoso e per impressionare la sua fidanzata Betty, decide di usare quel marchingegno per volare senza aeroplano, in un nuovo numero del suo spettacolo. Ben presto, però, Cliff scopre di essere finito in un intrigo che coinvolge spie naziste e magnati americani sotto mentite spoglie.

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Sebbene del Rocketeer di Stevens non esistano che una manciata di storie, i suoi bellissimi disegni, uniti a una narrazione appassionante che fondeva, sapientemente, comicità e avventura (oltre a una buona dose di malizioso voyeurismo), resero il personaggio così popolare, da convincere la Disney a trarne addirittura un lungometraggio. Il film, non così facile da reperire in Italia, se non in un’edizione estera, arrivò nei cinema nel 1991 e fu un clamoroso flop commerciale, ma, uscito a soli due anni di distanza dal Batman di Tim Burton, è da considerare uno dei primi esempi di cinecomic dell’era contemporanea. Invece di dedicarsi a tempo pieno alla sua creatura, Stevens preferì impiegare le sue notevoli capacità nella più remunerativa attività di illustratore. Sfortunatamente, però, la vita aveva in serbo per lui un tragico epilogo: ammalatosi improvvisamente di una rara forma di leucemia, il disegnatore morirà nel 2008, a soli 52 anni. Appena un anno dopo, tuttavia, la IDW Publishing (una casa editrice nota soprattutto per i suoi fumetti su licenza, come Star Trek o Transformers, ma anche per le sue riedizioni di grandi classici delle strisce sindacate) decise di riportare in auge il personaggio che lo aveva reso famoso, cominciando con il ristampare le sue, ormai classiche, storie, per poi proseguire con la pubblicazione di nuove avventure, affidate a diversi talenti del fumetto americano contemporaneo. Il carico maledetto (Cargo of Doom in originale), opera di Mark Waid e Chris Samnee, è la prima miniserie con una trama a lungo respiro dedicata a Rocketeer, prodotta dalla IDW.

Uscita negli USA nel 2013, e valsa a Samnee un Eisner Award (un riconoscimento ottenuto anche grazie al suo lavoro - sempre in coppia con Waid - per un celebrato ciclo di Daredevil, pubblicato nello stesso periodo), arriva, ora, in Italia per Saldapress (in un’edizione, al solito, elegantissima), che da qualche anno ha iniziato a riproporre nel nostro paese le avventure del personaggio di Stevens (prima dell’editore emiliano, Rocketeer era stato pubblicato dalla Comic Art di Rinaldo Traini).
La storia narrata da Waid e Samnee parte nel 1940, cioè due anni dopo il periodo in cui erano ambientate quelle originali, e Cliff Secord gestisce ancora, assieme al vecchio Peevy, una piccola azienda di aviazione civile a Los Angeles. Mentre i due devono vedersela con gli ispettori del governo, una nave attracca al porto della città, portando con sé un pericoloso carico proveniente dalla misteriosa Skull Island (sì, proprio quella Skull Island!). Ma, indossato, di nuovo, l’elmo di Rocketeer, Cliff dovrà vedersela pure con nuovi avversari, desiderosi di impossessarsi del suo prezioso jet pack.

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Così come il suo predecessore, e per continuità di stile, anche Waid decide di ricorrere a tutti i trucchi tipici della letteratura pulp, senza rinunciare, però, agli elementi caratteristici della sua scrittura: la trama è veloce e leggera, i buoni, con quel misto di ingenuità, incoscienza e buoni sentimenti, e i cattivi, contraddistinti da una malvagità fredda e calcolatrice, sembrano proprio usciti da uno di quei popolari romanzi o da uno di quei seguitissimi show radiofonici, che appassionavano i giovani americani durante gli anni del New Deal. Ecco quindi che, come da copione, a riempire la vicenda arrivano scorribande tra i cieli (inevitabili, viste le abilità del protagonista), mostri tra le strade della città, cliffhanger continui, nemici nell’ombra e, naturalmente, qualche scaramuccia amorosa tra i protagonisti. Waid, inoltre, non si lascia scappare l’occasione per piazzare anche qualche omaggio ad alcune icone dell’immaginario popolare del periodo (su tutte, come già accennato, quella evidentissima a King Kong) o di ripescare alcuni personaggi minori delle storie di Stevens (per esempio, la spia nazista Werner Guptmann), due scelte narrative utili ad accrescere ancora di più l’effetto nostalgia per l’eroe volante o per l’epoca delle sue avventure. Peccato solo che lo scrittore americano cerchi di mantenere alta l’attenzione del lettore, mettendo troppa carne al fuoco, con la conseguenza di rendere alcuni passaggi troppo rapidi e confusi, e di rappresentare qualche protagonista della storia in maniera un po’ superficiale.

Per quanto riguarda Samnee, invece, i suoi bellissimi disegni, caratterizzati da un tratto pulito e lineare, ma capaci di infondere nei personaggi un’ampia gamma espressiva, si sposano alla perfezione ai testi di Waid (come già era capitato con le storie di Daredevil e di Capitan America), contribuendo anche a ricreare quell’atmosfera retro di inizio anni Quaranta, che era sicuramente nelle intenzioni dello sceneggiatore. Bisogna dire, però, che lo stile di Samnee differisce molto da quello di Stevens, il che potrebbe far storcere il naso a qualche ammiratore dell’autore californiano. I dinosauri che appaiono nella trama, per esempio, sono troppo pupazzeschi e mal si conciliano con l’estremo realismo con cui il creatore di Rocketeer era solito rappresentare persone o animali. Questa differenza si nota ancora di più con Betty, la fidanzata di Cliff: modellata da Stevens sulle generose forme della nota pin-up degli anni Cinquanta Bettie Page (di cui il disegnatore era ammiratore e amico), nelle prime storie di Rocketeer, la dolce metà del protagonista appare come un’avvenente giovane donna in cerca di fortuna a Hollywood, spesso ritratta senza veli, in pose ammiccanti e sensuali. La Betty di Samnee, invece, è esattamente l’opposto e non ci sorprenderebbe scoprire che Waid abbia deciso di introdurre nella trama la giovane Sally (un personaggio sicuramente più nelle corde del disegnatore originario di St. Louis) proprio perché consapevole del limite del suo partner. D’altra parte, però, le qualità di Samnee vanno ricercate altrove, e non sarebbe giusto aspettarsi da lui un completo snaturamento del suo stile, solo per onorare il suo predecessore.

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Pur con i piccoli difetti che abbiamo descritto, la lettura di questo nuovo inizio editoriale di Rocketeer è più che piacevole: non possiamo, certo, metterlo allo stesso livello di altri lavori della coppia Waid/Samnee, ma è sicuramente un buon rilancio per il personaggio, in attesa di vedere se i prossimi volumi, che Saldapress ha già messo in cantiere per il 2020, confermeranno il nostro giudizio.

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Desolation club 1: Nuovo Mondo Antico, recensione: Gioventù in fuga

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In un futuro distopico lontano cinquecento anni da ora, un evento catastrofico tanto imprevedibile quanto implacabile ha decimato la razza umana, rendendo la Terra un luogo inospitale. All’improvviso, infatti, la gravità terrestre è venuta meno, uccidendo gran parte della popolazione e costringendo i sopravvissuti a vivere in comunità sotterranee, nelle quali l’ordine sociale pre-catastrofe ha preso i contorni di una distopia oppressiva. Altra differenza rispetto al passato, l’inevitabile mutazione genetica causata da cinque secoli di vita sottoterra: la popolazione è infatti costituita esclusivamente da albini.

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Ibu, Vikt, Waka e Bek sono quattro amici che passano le loro giornate tra scuola e bravate, tra cui lo spaccio del dysert, la droga più in voga tra i giovani. La loro è incoscienza dettata da voglia di ribellione, la stessa provata da Pwa, ragazza di diversa estrazione sociale che soffre la gabbia dorata in cui i suoi due padri la costringono a vivere. Il ferimento accidentale di una ragazza, durante una delle loro spacconate, costringerà i quattro amici alla fuga dalle autorità e all’incontro con Pwa. Il desiderio comune di evasione, unito alla necessità contingente, spingerà l’atipico quintetto a fuggire dalla loro comunità verso le terre aride e desolate che una volta corrispondevano all’Europa.

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Presentato in anteprima al Lucca Comics & Games dello scorso anno, Desolation Club mette in luce il talento eclettico di Lorenzo Palloni, lanciatissimo sceneggiatore del fumetto nostrano. Reduce dal grande successo del noir La Lupa, per il quale ha vinto il premio Gran Guinigi al Lucca Comics del 2018, con Desolation Club Palloni cambia completamente registro, planando sul terreno della fantascienza più pura. Supportato dal talento visionario di Vittoria Macioci, Nuovo Mondo Antico, primo volume della succitata serie edita da Saldapress in collaborazione con l’editore francese Sarbacane, è una generosa jam session grafico-narrativa che suscita comunque alcune perplessità. Se lo sforzo di Palloni nel caratterizzare il “mondo” di Desolation Club è apprezzabile ed evidente, dotandolo anche di un linguaggio proprio, è altresì vero che la scelta di un gruppo di adolescenti ribelli come protagonisti, in un momento in cui la “fiction” di ogni genere straborda di soluzioni di questo tipo, non può non fornire al lettore un prevedibile senso di dejà-vu, per quanto stemperato dalle contaminazioni di genere fantascientifico-distopico. Lascia interdetti anche il ritmo impresso alla narrazione, un susseguirsi di eventi troppo repentino e farcito di situazioni improbabili che non favoriscono tanto l’approfondimento psicologico dei protagonisti quanto l’immedesimazione dei lettori, rendendo necessaria e indispensabile una rilettura.

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Certamente non ha giovato al bilancio finale anche la scelta dell’editore di dividere la storia in due capitoli (di cui il secondo di prossima uscita), troncando la narrazione sul più bello e rendendo di fatto Nuovo Mondo Antico nient’altro che un lungo prologo a quanto vedremo nel prossimo volume. Anche la pur buona prova di Vittoria Macioci ai disegni non è esente da criticità. La disegnatrice romana, dotata di un piacevole stile "cartoony" che testimonia la sua esperienza nel campo dell’animazione, propone una costruzione della tavola assolutamente fresca e originale; interessanti sono scelte compositive come il ricorso a splash-pagese inserimenti di riquadri irregolari, oltre ad una efficace colorazione fluo stesa con larghe campiture. Lascia invece perplessi la caratterizzazione grafica dei protagonisti, che si confondono talmente con i personaggi di contorno che si fatica a metterli a fuoco, suscitando non poca confusione nel lettore.
Un primo capitolo, quello di Desolation Club, che scorre via tra luci e ombre, in attesa di scoprire se l’uscita del secondo volume potrà cancellare le perplessità suscitate da Nuovo Mondo Antico.

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Charlie Adlard ha vinto il Romics D'Oro

  • Pubblicato in News

Riceviamo e pubblichiamo:

"A CHARLIE ADLARD IL ROMICS D’ORO DELLA XXVII EDIZIONE UN PREMIO ALLA CARRIERA PER IL FUMETTISTA INGLESE, MAESTRO DI ATMOSFERE ZOMBIE E HORROR DA THE WALKING DEAD A VAMPIRE STATE BUILDING

Charlie Adlard riceverà il Romics d’Oro alla carriera nella XXVII edizione di Romics (2/5 aprile 2020), presentando in anteprima Vampire State Building, in uscita per saldaPress.

Nato in Inghilterra nel 1966, Charles Adlard inizia a lavorare come disegnatore di fumetti all’inizio degli anni ’90. Ha collaborato con le principali case editrici di fumetti del mondo, tra cui Marvel Comics, DC Comics, Image Comics, Soleil e Delcourt.

Verso la fine degli anni’ 90 conosce durante un convegno Robert Kirkman che lo coinvolge nel progetto di The Walking Dead, uno dei principali successi mondiali del fumetto contemporaneo, divenuto anche una fortunatissima serie tv. Dal numero 7 Charlie Adlard diventa il disegnatore della serie fino alla sua chiusura, avvenuta lo scorso anno con l’albo numero 193 e a Romics verrà presentato in anteprima anche il volume conclusivo della saga in formato compendium, cioè The Walking Dead – Compendium vol.4. Il successo di The Walking Dead consacra l’importanza di Adlard che diventa così una vera superstar del fumetto mondiale. Il suo tratto, insieme al deciso uso dei neri e delle ombre, hanno impresso una svolta decisiva all’estetica horror e in particolare a quella zombie. In un mercato come quello del fumetto, dominato dagli albi a colori, la tecnica e i tratti di Adlard sono inconfondibili e fanno scuola. “Non ho mai disegnato espressamente per il colore, né per la stampa in bianco e nero. Non l’ho mai fatto consapevolmente, almeno. Sono un disegnatore che normalmente utilizza moltissimo nero e quindi quando togli il colore (dai lavori colorati) non sembra una gran perdita. Penso che disegnare espressamente per il colore sia un talento e apprezzo chi lo sa fare ma non è il mio modo di lavorare. Per questo penso che per chi deve, colorare i miei disegni sia una specie di sfida.” (da un’intervista di Ettore Gabrielli su Fumettologica).

Con la fine di The Walking Dead Adlard si è dedicato a diversi progetti, allontanandosi dal territorio familiare degli zombie. Deciso a misurarsi con progetti nuovi, il fumettista inglese si è lasciato conquistare dal mercato francese, rifiutando alcune proposte provenienti da Marvel e DC. Nasce così Vampire State Building, scritto da Ange, Patrick Renault e Sebastien Gerard:un divertente horror inchiostrato in digitale, una tecnica differente rispetto a quella utilizzata per The Walking Dead.

Attualmente Adlard è impegnato su Heretic, progetto nato dalla collaborazione con lo scrittore Robbie Morrison (con il quale aveva già lavorato per Guerra Bianca, fumetto, ambientato in Trentino durante la Grande Guerra). Il protagonista è Cornelius Agrippa, un personaggio realmente esistito durante l’inquisizione spagnola, immerso in un contesto sovrannaturale.

La partecipazione di Charlie Adlard si è realizzata grazie alla collaborazione con saldaPress.

Nel catalogo saldaPress, oltre alla serie The Walking Dead, sono presenti i volumi L’arte di Charlie Adlard, La maledizione del Wendigo, Come una pietra,Guerra Bianca e Vampire State Building, disponibile in anteprima a Romics."

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Outer Darkness: Dentro la tenebra 1, recensione: Spazio, ultima frontiera

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"Spazio, ultima frontiera" è l’incipit di una famosissima serie tv di fantascienza, ma potrebbe benissimo anticipare le storie di questo Outer Darkness, scritto da John Layman (Chew) e disegnato da Afu Chan (The Immortal Iron Fist). Magari seguito da una frase da sermone sulle fiamme dell’inferno e sui diavoli che le abitano, tipo «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt. 25,41) (e, in effetti, ci va molto vicino). Disorientati? È più che normale: quello di Outer Darkness è un universo in cui magia e scienza sono mescolate, rimescolate ed intrecciate con esiti nuovi e intriganti.

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La serie, pubblicata in Italia da Saldapress, segue le vicende dello scontroso capitano Joshua Rigg che, al comando della nave spaziale Caronte, fa rotta nella tenebra profonda (outer darkness) per salvare un misterioso obiettivo. Ad accompagnarlo ci sono i suoi ufficiali, Agwe, prete voodoo, Soreena Prakash, l’amministratrice di bordo, il primo ufficiale Alastor Satalis e il navigatore Elox e numerosi altri sottoposti.
La somiglianza con Star Trek è evidente, di cui condivide alcune dinamiche, come le conflittualità (qui più violente e sboccata, fra gli ufficiali), l’elemento picaresco e la tendenza a far vittime fra le anonime redshirts (con qualche eccezione che non vi spoileriamo). Niente di nuovo, dunque, se non che molti di questi elementi tipicamente sci-fi sono riletti in chiave magico-orrorifica: lo spazio cosmico (outer space) ha tratti tipici dell’aldilà (outer darkness, citazione da Mt, 8,11 «E il servo inutile gettatelo nella tenebra; là sarà pianto e stridore di denti») ed è infestato da demoni e anime erranti che minacciano gli incauti esploratori. Ogni nave deve quindi contare nel suo equipaggio esorcisti e oracoli che combattano i demoni pronti ad assalire e possedere gli uomini a bordo. I singoli elementi, ripetiamo, non hanno nulla di innovativo; il principale merito di Layman e Chan è stato l’aver realizzato un universo coerente e affascinante.

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La trama di questo primo volume di Outer Darkness, che raccoglie i primi sei numeri della serie Skybound/Image Comic, si dipana abbastanza lentamente: sebbene non manchino le sequenze d’azione (anzi), la serie si struttura per storie quasi autoconclusive (arrivo sul pianeta-missione-partenza alla volta di un altro) legate da una continuity all’inizio blanda e via via più sostanziosa fino alla conclusione del volume. Fra le motivazioni di questa scelta dobbiamo considerare tanto la necessità di introdurre le dinamiche dell’universo fantastico/fantascientifico del capitano Riggs quanto quello di caratterizzare a fondo i numerosi personaggi (chi sono? da dove vengono? cosa vogliono?). Nonostante l’avvio lento, l’operazione è portata avanti con successo: la trama avanza senza grosse forzature grazie alle azioni dei personaggi, e l’universo narrativo che emerge diventa sempre più corposo. Peccato solo che l’albo si interrompa quando la trama orizzontale sta decollando.

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Se l’operazione di world-building di Outer Darkness è da considerarsi riuscita, il merito va anche al suo lavoro sul versante artistico: il tratto semplice, quasi cartoonesco, di Afu Chan funziona estremamente bene nella caratterizzazione dei personaggi e delle creature mostruose che infestano lo spazio, oltre che nella resa delle espressioni facciali. Funziona meno bene, invece, nelle splash-page e in particolare in tutte le scene nello spazio aperto, in cui l’assenza di dettagli (specie nell’astronave) non valorizza a pieno questa soluzione (che spesso dovrebbe costituire un picco nella narrazione). Nemmeno il lieve tratteggio che costella tutti i disegni vi riesce a supplire. Si tratta tuttavia di un difetto marginale che non occorre frequentemente: la tavola, una 5x1 con variazioni, è infatti divisa in fasce orizzontali di uguale altezza e piuttosto strette; è nelle vignette più piccole, a nostro avviso, che il tratto semplice di Chan dà il meglio di sé.
Un discorso a parte, infine, merita l’uso dei colori, sempre ad opera di Chan. Al tratto semplice dei disegni fa da contraltare un’ottima gestione della palette, tutta giocata sui contrasti caldo/freddo utilizzati volta a volta per distinguere i personaggi dallo sfondo (e quindi per dare tridimensionalità), per rendere l’illuminazione di neon e monitor nelle scene di interni e, infine, per sottolineare le sequenze narrative più importanti.

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