Ritorno al Noir, la recensione di Tyler Cross 1: Black rock
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Il noir è un genere sempre molto difficile forse perché necessita, nel suo sviluppo, di elementi stabili, ben definiti, archetipali, dai quali non si può esimere: detective hard boiled, la femme fatale bionda, il gangster pericoloso, le ombre, l’oscurità, la metropoli peccaminosa. Frank Miller, ad esempio, ha saputo esplorarlo, nel fumetto, alla perfezione.
Non sono da meno Fabian Nury e Brüno che, giocando con questi elementi, e spesso ribaltandoli, sono riusciti a creare un grande noir.
Negli USA degli anni ‘50, Tyler Cross è un gangster al soldo di chi paga meglio e, come tale, accetta un incarico pericoloso che ha a che fare con un grosso carico di eroina: rubare la droga al figlioccio irrispettoso del suo attuale datore di lavoro, un vecchio boss mafioso che non vuole andare in pensione. Ma come ogni noir che si rispetti, le cose non andranno per il verso giusto e Tyler si ritroverà in un piccolo paese del Texas a fare i conti con la famiglia Pragg che tiene sotto controllo l’intera comunità. Se il politically correct vuole che il protagonista si ravvedi e salvi la situazione, Nury e Brüno scelgono la via più decadente.
Tutta l’aria che si respira è da noir: puzza di sigarette, odore di polvere da sparo, primi piani, dettagli, lame di luce che tagliano le ombre. Nury sceglie, rispettandone comunque le direttive narrative, di sovvertire i “luoghi comuni” del genere. Alla metropoli, lo sceneggiatore, sceglie il deserto che con il suo caldo e la sua sabbia bloccano i personaggi e appesantiscono l’atmosfera, tanto quanto farebbero i vicoli sporchi e maleodoranti di una città. Al posto del Detective, il gangster Cross, riesce a catturare la curiosità e condurre il lettore attraverso la trama, senza che quest’ultimo giudichi il suo operato: dopotutto è un criminale. Alla femme fatale bionda e prosperosa pronta a sedurre chiunque posi gli occhi sulle sue curve, troviamo Stella, ragazza in attesa di essere salvata, anche da se stessa. Nury costruisce personaggi senza abbellimenti: non ci sono eroi positivi, ognuno a modo suo – su tutti, i membri della famiglia Pragg, senza possibilità alcuna di riscatto – colpevole di aver fatto troppo o troppo poco.
La solida sceneggiatura non poteva che trovare espressione grafica migliore nel disegno di Brüno: sintetico, caricaturale, cromaticamente piatto – che ricorda le operazioni stilistiche di Tim Sale e Bruce Timm – che con una straordinaria frammentazione della tavola conferisce un ritmo perfetto al racconto. Ed è proprio sull’utilizzo sapiente delle vignette che Nury e Brüno riescono a catturare il lettore: dettagli, numerosi, di mani, sguardi, pistole, dune e nubi di fumo ci immergono nelle scene, rendendoci parte integrante della storia, destinatari unici della visione complessiva dell’azione. Il tratto grafico indugia sul sangue, sui corpi, sul sudore e la polvere creando un cortocircuito tra la rappresentazione spregiudicatamente sintetica e contenuto drammaticamente realistico.
L’incursione narrativa e visiva nel western strizza l’occhio a Sergio Leone, con una ipotetica fusione tra Il buono, il brutto e il cattivo e C’era una volta in America: la criminalità organizzata della metropoli si scontra con banditi dell’America rurale del sud. Ma i riferimenti al noir in tutte le sue espressioni mediali sono numerose: le strisce di Dick Tracy nella deformazione caricaturale dei personaggi, i romanzi di Raymond Chandler nella prosa evocativa della voce fuori campo e il cinema di Howard Haws nel black humor di cui è intrisa la storia.
Tyler Cross riesce dunque a porsi come ponte tra il grande noir “classico” e la sua declinazione moderna, a testimonianza che il genere, forse troppo spesso dichiaratamente dimenticato ma fin troppo spesso utilizzato, riesce ancora a trovare spazio nel cuore del lettore.