Robocop: L'ultima difesa
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Alla fine degli anni ’80 Frank Miller è la punta di diamante del movimento fumettistico americano e il decennio che si sta chiudendo è stato segnato dal successo dei suoi Daredevil, Elektra: Assassin, Batman: The Dark Knight Returns. Cresciuto a pane e cinema americano classico, polizieschi e noir soprattutto, Miller sogna di sbarcare ad Hollywood in veste di sceneggiatore: d’altronde l’influenza cinematografica nella composizione delle sue tavole è evidente già dai suoi primissimi lavori. L’occasione gli si prospetta quando la Orion Pictures, piccola ma agguerrita casa di produzione, gli offre la chance di scrivere la sceneggiatura di Robocop 2, sequel del film di culto diretto da Paul Verhoeven nel 1987. Verhoeven, di nazionalità olandese, aveva portato con Robocop una sensibilità tipicamente europea nel cinema di fantascienza mainstream a stelle e strisce, immaginando un futuro distopico dove il liberismo sfrenato, che proprio in quegli anni toccava l'apice grazie alle politiche economiche di Reagan e Thatcher, aveva contribuito ad instaurare un regime morbido basato sul controllo sistematico dei mezzi di informazione e la vittoria dell’interesse privato su quello pubblico. Temi che in quegli anni non erano estranei alle opere di Miller, soprattutto nel Dark Knight. Il cartoonist del Vermont si mise al lavoro con entusiasmo sul secondo capitolo delle avventure del cyberpoliziotto di Detroit, diretto dal veterano Irvin Kershner, ma il risultato finale si discostò di molto dallo script originale di Miller. La Orion giudicò il lavoro di Miller troppo violento e la satira politica eccessiva per un film che nelle intenzioni dei produttori avrebbe dovuto raggiungere il più vasto pubblico possibile. Robocop 2, uscito nel 1990, fu un fiasco colossale, un ibrido mal riuscito tra le intenzioni iniziali di Miller e i rimaneggiamenti imposti dalla produzione. Ciò non impedì alla Orion di chiedere la collaborazione di Miller anche per il terzo capitolo, Robocop 3 del 1993, stavolta nella doppia veste di regista/sceneggiatore: ma anche questa volta le cose andarono male, col buon Frank sostituito alla regia dal mestierante Fred Dekker e il suo script nuovamente rimaneggiato ed edulcorato. Furioso, Miller giurò che non avrebbe più messo piede ad Hollywood, e avremmo rivisto il suo nome su un manifesto di un film solo nel 2004, per l’uscita dell’adattamento cinematografico del suo Sin City.
Salvo il cross-over del 1992 Robocop Vs Terminator (di cui abbiamo già parlato), scritto da Miller per i disegni di Walter Simonson, il nome dell’autore di 300 e quello di Robocop non sono stati più associati fino al 2003 quando la Avatar Press, casa editrice indie, lo contattò per conoscere la sua disponibilità circa un eventuale adattamento delle sue sceneggiature originali in serie a fumetti. Miller, entusiasta del poter finalmente presentare quelle storie così come le aveva concepite, accettò, pur limitando il suo ruolo a quello di supervisore dell’intero progetto e copertinista a causa dei troppi impegni.
Il compito di curare i testi, direttamente dallo screenplay originale di Miller, toccò a Steven Grant, vecchio leone della Marvel degli anni ’70 e ’80, celebre per la prima storia del Punisher dell’era moderna, Circle of Blood. La Avatar fece in tempo a pubblicare solo il primo adattamento delle storie di Miller, relativo a Robocop 2; in seguito i diritti del personaggio passarono a Dynamite Entertainment e alla fine ai BOOM! Studios, che hanno dato alle stampe l’adattamento a fumetti della sceneggiatura originale realizzata da Miller per il terzo capitolo della serie cinematografica, ribattezzandolo Robocop - L’Ultima Difesa, di cui Magic Press cura ora l’edizione italiana.
La sincerità impone di confessare che ci siamo avvicinati a quest’opera con un po' di diffidenza, sicuri che il nome di Frank Miller ben evidenziato fosse poco più di uno specchietto per le allodole per vendere qualche copia in più, considerato il mero ruolo di supervisore del celebre cartoonist: ci siamo trovati invece davanti ad un buon prodotto di intrattenimento, piacevole come un action movie degli anni ’80 ma non privo di molteplici chiavi di lettura.
La storia ci mostra il confronto finale tra Robocop e la OCP, la multinazionale decisa a impadronirsi della città di Detroit prima e del resto degli Stati Uniti poi. La politica di conquista della OCP non si realizza tramite l’uso delle armi, ma privatizzando i servizi essenziali per il cittadino, come la polizia ormai asservita ai meri interessi della multinazionale. Essenziale per poter mettere definitivamente le mani su Detroit è la costruzione di un quartiere di lusso, al posto di uno slum degradato di nome Cadillac Heights, abitato da povera gente ai margini della società che la polizia cerca di allontanare dalle proprie case con ogni mezzo, anche non lecito. Robocop, ormai ribellatosi ai suoi ex creatori della OCP, interverrà in difesa della popolazione, contando sull’aiuto di un gruppo di cittadini coraggiosi e di una esperta di computer, Marie, che forse prova per lui qualcosa in più della semplice ammirazione.
Lettura sorprendentemente interessante che si presta a numerosi spunti di riflessione, Robocop – L’Ultima Difesa porta a compimento il discorso iniziato da Paul Verhoeven nel film del 1987, la denuncia di un mondo dove l’interesse privato e il predominio della finanza sulla politica stanno portando l’umanità verso un cupio dissolvi basato sull’arricchimento di pochi e l’annullamento dei diritti basilari dei cittadini. Il predominio delle multinazionali sugli stati sovrani poteva essere materia da fantascienza distopica nel 1987, ma nel 2016 stiamo parlando purtroppo di strettissima attualità. La storia di Miller si inserisce brillantemente nel solco tracciato da Verhoeven, suggerendo, come in The Dark Knight Returns, che il popolo ha il potere e che un regime corrotto va rovesciato. Probabilmente un maggior coinvolgimento di Miller nell’adattamento di questa sua sceneggiatura perduta avrebbe potuto portare Robocop – L’Ultima Difesa verso altre vette di eccellenza, ma il risultato finale è comunque degno di attenzione. Steven Grant compie un ottimo lavoro nell’adattare lo script di un nume tutelare come Miller, conferendo alla storia un ritmo frenetico con testi al fulmicotone, e si fanno notare i disegni sporchi e funzionalmente underground di Korkut Öztekin, quanto mai adatti ad illustrare ghetti urbani degradati e squallori futuristici. Un tuffo in atmosfere anni ’80 e ’90 ma corredate da spunti di riflessione che sono tutti del nostro tempo.