"Scusate il ritardo" titola Massimo Troisi il suo secondo film per farsi perdonare l'attesa. Questa recensione potrebbe avere lo stesso titolo. Le intenzioni erano buone, un articolo che seguisse a ruota l'uscita dell'ultima storia di Ken Parker. Solo che, una volta acquistato il volume, ho atteso un giorno per leggerlo. Non sono riuscito, emotivamente, a farlo prima. Una volta finita la lettura, poi, ho dovuto metabolizzare quanto letto. Nei giorni successivi ho iniziato a costruire la recensione nella mia testa e solo dopo qualche giorno ho buttato giù una prima bozza che, però, mi soddisfaceva poco. Così, la recensione è stata lì ancora per qualche giorno finché non ci ho rimesso le mani sopra. Perché faccio questa premessa? Perché in fondo non è tanto differente dalla vicenda editoriale (e narrativa) di Ken Parker. E forse è giusto così, dunque ritiro le scuse iniziali. Se avete atteso 17 anni per questa storia, cosa volete che siano pochi giorni per la sua recensione?
Chi ha seguito esclusivamente l'edizione Mondadori Comics, avrà goduto appieno la vicenda narrativa del buon Ken Parker, ma avrà perso quella editoriale legata, in fondo, a doppio filo con il personaggio e così determinante per il suo inizio, per la sua evoluzione, per la sua fine.
Era il 1977 quando, su suggerimento dello stesso Sergio Bonelli, il protagonista di "Lungo fucile" diventa titolare di una serie che, albo dopo albo, cambierà il destino del fumetto popolare italiano. Un personaggio importante, che con gli anni è cresciuto, maturato, cambiato. Ed è così, cambiato che lo ritroviamo nelle prime pagine di "Fin dove arriva il mattino", primo (e ultimo, purtroppo) inedito di Ken dal 1997 quando la saga si interruppe dopo vari stop e varie riprese. Unico inedito, escludendo le 12 tavole di Canto di Natale (rielaborate in questo episodio), naturalmente.
Parlavamo di cambiamenti, perché nella sua vita narrativa ne ha subiti tanti il buon Ken, da analfabeta a scrittore di romanzi western, ma sempre dalla parte dei deboli, della giustizia. E in fondo è così, anche nella sua ultima avventura. 20 anni di prigione, per aver ucciso un poliziotto nella celebre "Sciopero" del 1984, un agente che sparava su una folla di scioperanti. Uscito di prigione grazie a un indulto presidenziale, ritrova alcuni suoi ex compagni di galera e si unisce a loro dopo aver scoperto che quest'ultimi hanno ucciso un uomo e rapito sua moglie e sua figlia. Un Ken ormai 60enne, acciaccato, che con passività non muove un dito durante lo stupro delle due donne e che diventa complice di una rapina che finisce in tragedia. Un pugno allo stomaco del lettore, 20 anni di galera cambiano le persone "li rende fragili e spietati allo stesso tempo", afferma Parker, e vederlo così, osservare le sue azioni, ti spinge quasi a chiudere il volume in preda alla rabbia, all'angoscia. Ma la realtà è un'altra, e la vediamo sia nei flashback in galera che nella storia ambientata nel presente. Il fisico di Ken è invecchiato, ma il suo cuore è lo stesso di sempre ed è capace di commuoversi davanti a una bambina in fasce durante la sua prigionia e di unirsi a una banda di malviventi solo per salvare le due donne, seppur non più giovane e atletico. Non può intervenire subito, così si adatta alla situazione e attende il momento giusto, ma viene colpito da un colpo sparato dalla stessa ragazza che voleva salvare, innamoratasi del suo stupratore. Destino beffardo, ma d'altronde quest'ultimo con Lungo Fucile non è mai stato tenero.
In fondo è giusto così, la sua vicenda narrativa va di pari passo a quella editoriale, anzi ne è perfetta metafora. Perché è ovvio che se la saga fosse continuata 20 anni fa, o se gli autori avessero realizzato qualche episodio in più ora, sarebbe andata diversamente. È chiaro che, in particolare Giancarlo Berardi, avesse altre storie da narrare, altre cose da dire. Ma in fondo Ken è sempre stato figlio del suo tempo, e anche ora non è diverso. Perché dopo 20 anni "in prigione" Ken riassapora la libertà, certo, ma per poco. La correlazione fra vicenda narrativa e vicenda editoriale è perfetta. Berardi ci mette tutta la sua vena politica consegnandoci un Ken che forse ha fallito la sua missione, qualunque sia stata, ma che in fondo, anche alla fine, non rinuncia mai alla sua umanità. È una storia triste, amara, ma reale, illustrata da un Ivo Milazzo che, nonostante la sua estrema sintesi, riesce a far emergere appieno la recitazione dei personaggi in scena, il loro dramma, il loro dolore. Ma sopratutto, "Fin dove arriva il mattino" è una storia coraggiosa, dunque degna della sua saga. Perché gli autori rinunciano alla scelta più semplice che non sarebbe stata rappresentata tanto dall'happy ending, quanto dal fan service. Una storia che mostra un ulteriore cambiamento del suo protagonista, ce lo mostra vecchio, affaticato, con una cicatrice sul cuore. Difficile trovare qualcosa di simile nel fumetto popolare. Difficile trovare un altro Ken. E così, dopo un lungo viaggio, dopo tante difficoltà, ci godiamo anche noi l'alba che sorge attendendo la luce del mattino prima che giunga la parola fine.