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Vivo e Morto, recensione: Le tragicomiche pene di un amore finito

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La fine di un amore è da sempre uno dei momenti di maggior tensione emotiva. C’è chi sta male ma reagisce, chi si chiude a riccio per giorni, settimane e forse anche anni, infine c’è chi invece non riesce a superare la cosa. Vivo e morto, opera di Jeff Hautat e David Prudhomme, ripercorre questo topos.

La storia inizia con le vicende di Flip, operaio di una fabbrica di chiavette per apriscatole, appena mollato dall’amore della sua vita. Nulla ha più senso per lui. Inizia così la sua parabola discendente: non ha più forze e quando è sul bus per andare sul posto di lavoro, non scende. Finge il suo suicidio a Patricia, la ragazza che l’ha mollato, e inizia ad incamminarsi senza alcuna destinazione, fino ad incontrare un automobilista un po’ suonato e suonatore di djembe, che lo carica per un viaggio senza apparente meta. L’altro lato della narrazione invece vede le vicende del proprietario della fabbrica che, dopo aver chiuso i battenti senza alcun preavviso, scappa a casa per recuperare tutti i soldi posseduti e fuggir via, lasciando così sulla strada i dipendenti. La trama si dipana così in due storyline che si intrecciano e si slegano in maniera onirica e cruda.

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La sceneggiatura di Jeff Hautat è solida e ben strutturata tranne in alcuni punti. Gli intrecci sono regolati da stacchi ben calibrati e da scene particolarmente evocative. La condizione dello spirito afflitto è tratteggiata egregiamente: tutti possiamo essere Flip o uno di quegli operai che cercano spiegazioni al loro direttore. Tutti temiamo di ritrovarci senza un futuro dall'oggi al domani. La caratterizzazione dei personaggi riesce quasi sempre a convincere tranne in alcuni snodi dove alcune scelte nei dialoghi rendono l’accaduto un po’ troppo sopra le righe. Ci si riferisce fondamentalmente alla vicenda dei dipendenti: troppo forzati alcuni passaggi e troppo caricati all’inverosimile. Questa gestione fa perdere pathos anche se, paradossalmente, mette in evidenza le vicende di Flip e del suo amore perduto. Degni di nota le sequenze dei deliri paranoici del protagonista. La convinzione estrema di essere morto è una delizia per impostazione e grafica. L’autore ha una precisione chirurgica nel descrivere il dolore, svilendolo nei momenti sarcastici e amplificandolo nelle scene di solitudine di Flip.

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Il tratto caricaturale di Prudhomme è efficace e diretto. Una tragicomica narrazione aveva bisogno di uno stile come il suo per avere l’effetto desiderato. L’interpretazione di Flip come ombra, un nessuno, è spettacolare. La scelta di raffigurarlo in questo modo, come una qualunque persona, funziona, e tanto. In base allo stato d’animo la sua figura si trasforma, si ammorbidisce o diventa più spigolosa. La scelta delle griglie è molto interessante. Nelle prime tavole può risultare problematica e di difficile lettura. Alcune pagine hanno una struttura di 24 vignette, divise per 6 righe e 4 colonne. Fin qui tutto ok, si potrebbe dire. La particolarità sta nella gestione intricata di esse. Diverse tavole son divise da piccolissimi spazi in nero che formano una splash onirica a mo di puzzle. Vignette che singolarmente hanno una loro indipendenza della scena ma tengono il ritmo nell'insieme, formando appunto un’unica immensa immagine. La maestria con cui Prudhomme tratteggia le notti buie e senza minima luce riesce a trasmettere l’angoscia del personaggio. Così come i capogiri dati dagli strapiombi del Massif Central mentre il compagno di viaggio guida in maniera del tutto spericolata.

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La cura editoriale è altrettanto di alta qualità. Oblomov infatti utilizza con ingegno la cartotecnica, soprattutto per esaltare la quarta di copertina. Un foro che focalizza e coincide col momento di svolta della vicenda personale del protagonista, rende omaggio alla scelta stilistica dei due autori.

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