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Ritorno in Russia per Fabien Nury e Thierry Robin, la recensione di Morte allo Zar

Ritorno in Russia per Fabien Nury e Thierry Robin: dopo l'affascinante La morte di Stalin (Historica 48), il duo francese completa un'ideale dittico dedicato alla storia del colosso slavo nel XX secolo con il volume Morte allo Zar, che si concentra sui disordini e i fermenti rivoluzionari di inizio '900, vere e proprie prove generali per la Rivoluzione di Ottobre e per i cambiamenti cruciali che investiranno da lì a poco l'Europa e il mondo.
Anche in questa occasione Nury si dimostra accurato nella ricostruzione storiografica di ambienti, contesto e soprattutto atmosfera: la città di Mosca nel 1905 è teatro di storie di uomini segnati dal passo pesante della Storia e dalla presenza della Morte - temuta, minacciata, cercata – come fili ideali che legano fra di loro i personaggi, qui presentati in un suggestivo racconto in due parti complementari fra loro.

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Nella prima, Il Governatore, ispirata in gran parte all'omonimo romanzo di Leonid Nikolaevič Andreev, si raccontano gli ultimi giorni di vita del governatore moscovita Sergej Aleksandrovič Romanov, zio dello Zar: ritenuto responsabile della strage del 17 settembre 1904 quando i soldati spararono sulla folla inerme, per questo fu “condannato a morte” dai socialisti rivoluzionari, che allora agivano in clandestinità. Fin dalle prime pagine l'alternanza di vignette panoramiche e dettagli spiega tutto in poche, efficaci tavole che richiamano molto le scene di massa dei film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn: il governatore dovrà morire, e lo sa. È a questo punto, di fronte ad una vicenda storica già nota, che entra in gioco l'approccio di Nury: sposa il punto di vista inusuale, suggerisce un fraintendimento alla base del massacro (incrementandone quindi l'aspetto drammatico), propone una figura di uomo di potere tragica, a metà strada fra i personaggi dostojevskiani e quelli di Edgar Allan Poe. Il governatore è pavido, tormentato e represso; le frequenti tavole con inquadrature dall'alto e lo stile espressionista e caricaturale di Robin lo riducono un uomo piccolo e solo nelle sale immense dal suo palazzo, come se il destino minaccioso incombesse sempre su di lui. L'alternanza e l'uso dei colori da parte di Claire Champion rifiniscono il paesaggio emotivo del protagonista: i blu scuri e grigi degli uffici ne disegnano paure e paranoie, i rassicuranti gialli e arancioni sono riservati ai pochi momenti sereni con la figlia amatissima, il rosso sottolinea le parti più drammatiche in cui è in gioco la vita. Sergej Aleksandrovič è un uomo che va più lento dei tempi in cui vive e non se ne accorge; nonostante sia rappresentante sconfitto di una spietata e arretrata aristocrazia, lo sguardo a cui ci costringono gli autori è paradossalmente solidale, quasi misericordioso con la sua vicende. La lettura, anche se si sa già come va a finire, ne guadagna in gusto e profondità.

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Ulteriore prova di intelligenza di Nury è il ribaltamento del punto di vista nella seconda parte del volume, intitolata Il Terrorista: stessa vicenda, raccontata però dalla parte del carnefice, il terrorista rivoluzionario Boris Aznikov, figura ispirata a Boris Savinkov, autore del misconosciuto Cavallo Pallido, diario autobiografico sull'organizzazione dell'attentato in questione. Anche qui il riferimento principale è il thriller psicologico, che si tinge però ulteriormente di elementi gotici: se in precedenza Sergej era dominato dalle situazione, qui Boris ne è fautore e deus ex machina, spinge il proprio tempo in avanti, non attende ma anticipa e lotta per ottenere ciò che vuole: domina le tavole, ne è spesso al centro, incombe su di esse con la sua presenza. Se per il governatore era la sua fragilità a condannarlo al disumano, qui è la volontà del terrorista a renderlo un personaggio freddo, capace di sacrificare amore e amicizie in funzione del proprio obiettivo: un'altra volta la morte, una volta in più, liberatoria e simbolica. Un antieroe che affascina proprio per il suo rigore e la sua irriducibilità distruttiva. Due personaggi opposti, eppure un destino così simile.

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Sul piano della narrazione in questa seconda parte viene lasciato molto più spazio all'azione, incastonata in tavole dalle griglie molto classiche, quasi fosse elemento necessario e scontato, come è di fatto per i rivoluzionari: anche qui sappiamo tutto quello che deve succedere, ma questo non toglie suspense e ritmo. A prevalere sono, sul piano grafico, i chiaroscuri, il gioco di ombre e l'uso del nero, che sottendono alla clandestinità scelta dal protagonista e dagli altri personaggi come territorio ambiguo fra menzogne e verità. I disegni di Robin mostrano un equilibrio formidabile di accuratezza ed espressività.

Morte allo Zar è l'ennesima grande dimostrazione, da parte di Nury e Robin, di come si possa coniugare l'erudizione con una narrazione agile e moderna, l'approfondimento psicologico con l'intrattenimento, la Storia con le storie.
A questo punto, avendo raccontato qui il prima e con La Morte di Stalin il dopo, manca un capitolo specificamente dedicato ai “giorni che sconvolsero il mondo” della Rivoluzione d'Ottobre. Chissà...

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Ritorno al Noir, la recensione di Tyler Cross 1: Black rock

Il noir è un genere sempre molto difficile forse perché necessita, nel suo sviluppo, di elementi stabili, ben definiti, archetipali, dai quali non si può esimere: detective hard boiled, la femme fatale bionda, il gangster pericoloso, le ombre, l’oscurità, la metropoli peccaminosa. Frank Miller, ad esempio, ha saputo esplorarlo, nel fumetto, alla perfezione.
Non sono da meno Fabian Nury e Brüno che, giocando con questi elementi, e spesso ribaltandoli, sono riusciti a creare un grande noir.

Negli USA degli anni ‘50, Tyler Cross è un gangster al soldo di chi paga meglio e, come tale, accetta un incarico pericoloso che ha a che fare con un grosso carico di eroina: rubare la droga al figlioccio irrispettoso del suo attuale datore di lavoro, un vecchio boss mafioso che non vuole andare in pensione. Ma come ogni noir che si rispetti, le cose non andranno per il verso giusto e Tyler si ritroverà in un piccolo paese del Texas a fare i conti con la famiglia Pragg che tiene sotto controllo l’intera comunità. Se il politically correct vuole che il protagonista si ravvedi e salvi la situazione, Nury e Brüno scelgono la via più decadente.

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Tutta l’aria che si respira è da noir: puzza di sigarette, odore di polvere da sparo, primi piani, dettagli, lame di luce che tagliano le ombre. Nury sceglie, rispettandone comunque le direttive narrative, di sovvertire i “luoghi comuni” del genere. Alla metropoli, lo sceneggiatore, sceglie il deserto che con il suo caldo e la sua sabbia bloccano i personaggi e appesantiscono l’atmosfera, tanto quanto farebbero i vicoli sporchi e maleodoranti di una città. Al posto del Detective, il gangster Cross, riesce a catturare la curiosità e condurre il lettore attraverso la trama, senza che quest’ultimo giudichi il suo operato: dopotutto è un criminale. Alla femme fatale bionda e prosperosa pronta a sedurre chiunque posi gli occhi sulle sue curve, troviamo Stella, ragazza in attesa di essere salvata, anche da se stessa. Nury costruisce personaggi senza abbellimenti: non ci sono eroi positivi, ognuno a modo suo – su tutti, i membri della famiglia Pragg, senza possibilità alcuna di riscatto – colpevole di aver fatto troppo o troppo poco.

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La solida sceneggiatura non poteva che trovare espressione grafica migliore nel disegno di Brüno: sintetico, caricaturale, cromaticamente piatto – che ricorda le operazioni stilistiche di Tim Sale e Bruce Timm – che con una straordinaria frammentazione della tavola conferisce un ritmo perfetto al racconto. Ed è proprio sull’utilizzo sapiente delle vignette che Nury e Brüno riescono a catturare il lettore: dettagli, numerosi, di mani, sguardi, pistole, dune e nubi di fumo ci immergono nelle scene, rendendoci parte integrante della storia, destinatari unici della visione complessiva dell’azione. Il tratto grafico indugia sul sangue, sui corpi, sul sudore e la polvere creando un cortocircuito tra la rappresentazione spregiudicatamente sintetica e contenuto drammaticamente realistico.

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L’incursione narrativa e visiva nel western strizza l’occhio a Sergio Leone, con una ipotetica fusione tra Il buono, il brutto e il cattivo e C’era una volta in America: la criminalità organizzata della metropoli si scontra con banditi dell’America rurale del sud. Ma i riferimenti al noir in tutte le sue espressioni mediali sono numerose: le strisce di Dick Tracy nella deformazione caricaturale dei personaggi, i romanzi di Raymond Chandler nella prosa evocativa della voce fuori campo e il cinema di Howard Haws nel black humor di cui è intrisa la storia.
Tyler Cross riesce dunque a porsi come ponte tra il grande noir “classico” e la sua declinazione moderna, a testimonianza che il genere, forse troppo spesso dichiaratamente dimenticato ma fin troppo spesso utilizzato, riesce ancora a trovare spazio nel cuore del lettore.

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