Il mito della frontiera infranto, la recensione di Cheyenne
- Pubblicato in Recensioni
Forse è meglio cominciare dal Cinema, piuttosto che dalla Storia o dai Fumetti: il cinema americano all’inizio delle sue produzioni western mostrava, con una buona dose di soddisfazione, Pellerossa che assalivano la diligenza e Cowboy che li uccidevano con fierezza; gli “indiani” erano i cattivi, una presenza ostile, un ostacolo al “sogno americano”, tanto quanto la natura selvaggia o l’attacco di un animale. Venne, poi, il momento della presa di coscienza e del senso di colpa: il “bianco” era l’invasore, che stava costruendo una nazione a discapito di un altro popolo. Nascono capolavori come Piccolo grande uomo o Un uomo chiamato cavallo, capaci di raccontare da un lato l’accoglienza pellerossa verso quella occidentale e dall’altro, la brutalità con cui questo popolo è stato decimato.
Cheyenne, volume della collana Bonelli Romanzi a fumetti, firmato da Michele Masiero ai testi e Fabio Valdambrini ai disegni sceglie di operare lungo un confine molto sottile tra i due approcci narrativi e lo fa attraverso una domanda che, costantemente, si ripropone alla mente del lettore: i “cattivi” sono i bianchi o i pellerossa?
Il graphic novel racconta del rapimento, da parte degli “indiani”, di Colin, un bambino in fasce di una famiglia “yankee”. Anni dopo questi viene ritrovato dalla Colonna di Hazelwood, un plotone dell’esercito, che decide di riportarlo alla “civiltà” e da suo nonno, Ray Henderson. L’uomo, ex sceriffo ormai dedito all’alcool, ha cercato per anni il nipote rapito senza trovarne traccia e ora che questi è tornato, si ritrova costretto a rivedere la propria esistenza. Colin, in questi anni di assenza, si è formato nella tribù indiana, è diventato un cheyenne e cambiare le proprie abitudine, la propria vita, non sarà un percorso in discesa.
Il nucleo narrativo su cui è incentrato Cheyenne è la violenza in diverse sue declinazioni: nel mondo del “selvaggio west” sembra che la violenza sia l’unico motore di cambiamento. I genitori di Colin vengono trucidati e il neonato tolto alla sua comunità; quando questi viene recuperato dall’esercito, subisce un ulteriore brutalità poiché strappato alla vita che ha sempre conosciuto. Il popolo indiano viene ingannato e brutalizzato dai coloni che, a loro volta, subiscono gli attacchi dei pellerossa: un ciclo continuo in cui la violenza genera solo altra violenza. Non c’è molto spazio per l’amore o l’affetto, l’unico sentimento umano che riesce ad avere un peso nel racconto è quello, raro, del senso di colpa che rimane, però, solo un rammarico e non diventa strumento grazie al quale cambiare.
Non esiste dunque un “buono” o un “cattivo”, Masiero e Valdambrini non prendono una posizione, non parteggiano per l’una o l’altra fazione: chiunque, che sia per autodifesa o per attacco, agisce con violenza, e il “mito della frontiera”, il “sogno americano” si infrange contro il muro della storia. Dopotutto l’epica western, del povero colono che, contro tutto e tutti supera le difficoltà perché il suo diritto ad avere una terra è più forte di ogni altra cosa, non trova più spazio nelle riflessioni storico-sociali contemporanee, e i protagonisti di Cheyenne hanno la consapevolezza che l’ideale mitico con cui hanno iniziato a costruire la propria nazione non è altro che un’ipocrita messa in scena. Lo stesso vale per il concetto del “buon selvaggio” contaminato dalla presenza europeista degli americani: a tradire il proprio stesso popolo di nativi è lo stesso pellerossa che tenta l’accordo con l’uomo bianco a discapito di un’altra tribù.
A rafforzare il concetto del continuo ritorno e riciclo della violenza è la costruzione narrativa del graphic novel: Masiero non adotta una linearità storica per il proprio racconto, ma la costruisce attraverso tasselli diversi che incastrano temporalità diverse. Il fumetto inizia in medias res e gli eventi, la trama, il background dei personaggi, si disvela man mano, in una serrata successioni di rivelazioni che convergono verso l’ammiccante, citazionista e sorprendente finale.
Il disegno di Valdambrini evoca alla perfezione l’atmosfera cupa del racconto. I volti spigolosi segnati da cicatrici invisibili, sono la marca distintiva del tratto del disegnatore, capace di fermare il pensiero dei personaggi nell’istantanea della vignetta e rimandarlo ai lettori attraverso le espressioni. Il selvaggio West, con le sue contraddizioni, rivive nei paesaggi carichi di forza evocativa sia che riguardino le forme imprevedibili della natura ancora incontaminata dell’America di metà ‘800, sia nella ricostruzione degli ambienti, rigidi e geometrici della colonizzazione “civilizzata”.
Nonostante Cheyenne si attesti in un genere ben codificato come il western, gli autori riescono a non essere prevedibili senza discostarsi troppo dai canoni, ricostruendo la dolorosa epopea della famiglia Henderson e utilizzandola come pretesto narrativo per raccontare l’aspetto più drammatico della nascita di una nazione come gli Stati Uniti che, fin troppo spesso, hanno velato di romanticismo epicizzante le proprie origini.