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Lucifer 1 - Il Diavolo sulla soglia, recensione: il Demonio Ribelle di Mike Carey

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L’etichetta Vertigo, il marchio della DC Comics rivolto ad un pubblico più sofisticato e maturo di quello interessato solamente ai supereroi, ha lasciato una traccia indelebile nella storia del fumetto americano nonostante sia stata chiusa da qualche anno per scelta editoriale, venendo soppiantata dalla divisione Black Label.
Creata da Karen Berger, redattrice e figura fondamentale nella storia della DC Comics, la Vertigo è stata la casa degli esponenti principali della “British Invasion” come Neil Gaiman, Peter Milligan, Grant Morrison, Garth Ennis e, in generale, del fumetto di qualità.

Il grande successo di una serie come il Sandman di Gaiman portò al consolidamento dell’etichetta e all’arrivo di una successiva ondata di autori inglesi nella seconda metà degli anni ’90. Sceneggiatori come Mike Carey, proveniente dalla fucina britannica di 2000 A.D., che debuttò nel 1999 in DC/Vertigo con una miniserie di tre numeri (seguita da una serie regolare) dedicata a Lucifer, il diavolo androgino che era stato presentato proprio nei primissimi numeri di Sandman. Costretto a recarsi all’inferno per recuperare l’elmo facente parte dei suoi paramenti reali, Morfeo si era imbattuto in “Lucifer Morningstar”, immaginato da Gaiman e da Sam Kieth, autori della storia, con le fattezze di David Bowie, il “rebel” per eccellenza della cultura pop/rock britannica. Paradigma dell’autodeterminazione, Lucifero lascerà anche l’Inferno per seguire la propria strada. Che vuol dire, nel suo caso diventare il proprietario di un piano bar a Los Angeles. È in questa veste che lo ritroviamo all’inizio di Lucifer vol.1 – Il Diavolo sulla soglia, il primo di una serie di volumi brossurati con cui Panini Comics inizia la ristampa della serie culto dedicata a colui che era stato il più luminoso tra gli angeli, prima della sua caduta.

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Il volume è suddiviso in tre capitoli. Il primo corrisponde alla miniserie del 1999, in cui ritroviamo Lucifer alle prese con la sua nuova vita. Si è dimesso dall’inferno e gestisce un club a Los Angeles, situazione che ritroviamo anche nella serie tv che si ispira al fumetto solo superficialmente, senza mutuarne trame e spessore. Il Paradiso, nonostante gli antichi dissapori, lo contatta comunque per affidargli un incarico: rintracciare e fermare una pericolosa entità capace di realizzare qualsiasi desiderio concepito dagli esseri umani. Lo accompagnerà una giovane di origine indiana, Rachel, la cui vita è stata irrimediabilmente travolta da un desiderio esaudito e che scoprirà ben presto cosa voglia dire avere a che fare col Diavolo in persona. Il secondo capitolo coincide con l’inizio della serie regolare originale e vede Lucifer recarsi ad Amburgo e più precisamente nel quartiere di St. Pauli, culla del movimento punk tedesco, brulicante di vita, locali ma anche di naziskin e prostituzione. L’Astro del Mattino va alla ricerca di Meleos, un angelo che vive tra gli umani camuffandosi da libraio. Una vecchia conoscenza di Lucifer, esperto di divinazione e tarocchi. E il Diavolo vuole da Meleos proprio questo, una risposta su quali siano i piani del Paradiso e su cosa gli riservi il futuro. Nell’ultima storia del volume facciamo la conoscenza di Elaine Belloc, una bambina che ha la capacità di parlare con i defunti, che deve indagare sull’assassinio della sua amica Mona. L’incontro con Lucifer darà la svolta alla vicenda.

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Ponendosi sul solco tracciato da Neil Gaiman e dal suo Sandman, Mike Carey usa questi primi episodi per presentare i personaggi e gli elementi che costituiranno l’architrave del suo ciclo, un lavoro di worldbuilding efficace che ci trascina subito nel mood della serie. Come in molte storie a marchio Vertigo, entità ancestrali sostanzialmente indifferenti al destino degli uomini incrociano il cammino di un’umanità alla deriva. Un Inferno che gli uomini si costruiscono da soli e di cui Lucifero, ironicamente, non è responsabile, preso dal suo processo di emancipazione da un destino già tracciato. Un enigmatico osservatore delle miserie umane, che interviene solo quando il caos rischia di travolgere tutto e tutti. Carey delinea una figura misteriosa e insondabile, magnetica e carica di fascino ambiguo, che inizia qui il percorso di protagonista di una serie di settantaquattro numeri che sarà acclamata da pubblico e critica.

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Sul fronte grafico, si alternano tre artisti sinonimo di fumetto d’autore. Apre le danze Scott Hampton, che con i suoi acquarelli che trascina il lettore in atmosfere rarefatte ed evocative. Il segmento ambientato ad Amburgo, invece, si avvale delle matite di stampo realista dell’inglese Chris Weston, un nume tutelare della Vertigo di quegli anni che avremmo rivisto anche su alcuni numeri di Hellblazer e, soprattutto, su The Filth in coppia con Grant Morrison. Al contrario dei pennelli di Hampton, il tratto di Weston gioca su un nero molto marcato e amplificato dalle chine realizzate dello stesso autore in coppia con James Hodgkins, altro habitué dei fumetti Vertigo come il colorista Daniel Vozzo, che concorrono ad un risultato finale classico e di forte impatto. Il capitolo finale ci regala un altro cambio di registro, dovuto alla storia che Carey vuole raccontare, una vicenda di fantasmi per la quale il tratto stilizzato di Dean Ormston e Warren Pleece è perfetto nel trasmettere brividi e suggestioni.

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Black Hammer - L'Era del Terrore, recensione: la chiusura del ciclo

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Sapevamo da tempo che Jeff Lemire avesse deciso di chiudere l’arco narrativo principale dedicato agli eroi di Spiral City con la miniserie Black Hammer: Age of Doom (che Bao ha raccolto in due bei volumi cartonati, il secondo dei quali è arrivato in fumetteria qualche settimana fa). Eppure, sebbene l’universo creato dall’autore canadese continuerà a vivere attraverso nuovi protagonisti e svariate serie parallele, vedere compiersi il destino di personaggi entrati da subito nel cuore di molti lettori, ci ha lasciati un po’ disorientati. Non possiamo neanche permetterci di andare oltre questa affermazione un po’ sibillina, perché altrimenti rischieremmo di svelare troppo di un finale che, invece, merita di essere assaporato fino in fondo. Lo stesso finale che, tra l’altro, è anche una chiara conferma della linea seguita da Lemire per la sua opera fin dall’inizio: non una semplice celebrazione nostalgica della Golden e della Silver Age dei comics ma, piuttosto, una storia in cui i personaggi sono degli attori tridimensionali, la caratterizzazione dei quali va ben aldilà della semplice umanizzazione della figura del supereroe, a cui assistiamo periodicamente, anche se con sfumature diverse, fin dagli anni Ottanta. I poteri di Abraham Slam, Barbalien, Golden Gail e tutti gli altri non sono praticamente mai la forza motrice del racconto, che concede, invece, maggiore spazio ai sentimenti dei protagonisti, ai loro sogni, alle loro frustrazioni o, semplicemente, al desiderio di alcuni di condurre una vita normale. Il tutto, comunque, senza rinunciare a quell’ingenuità di fondo che ha caratterizzato il fumetto americano per gran parte del secolo scorso.

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È anche vero che, per apprezzare pienamente il lavoro del cartoonist canadese, occorrerebbe andarsi a rileggere non solo tutti gli episodi precedenti, ma anche i volumi dedicati agli spin-off della serie, dove i vari indizi disseminati da Lemire per anticipare la conclusione della storia, acquistano finalmente un senso. Ciò nonostante, aldilà di queste considerazioni di carattere generale, il contenuto della miniserie merita senz’altro un approfondimento maggiore, ma per fare questo è necessario ripartire dalle ultime pagine del secondo volume dell’edizione italiana, dove la giovane Lucy Weber, dopo aver impugnato il martello cosmico di suo padre, si era trasformata nella nuova Black Hammer, annunciando ad Abraham e al resto degli ex eroi di Spiral City di aver recuperato i ricordi, che gli erano stati sottratti da Madame Dragonfly al momento del suo arrivo a Rockwood. Un colpo di scena particolarmente efficace, che ha lasciato il pubblico americano con il fiato sospeso per diversi mesi, dato che negli USA quel finale ha coinciso anche con la chiusura della serie regolare dedicata ai personaggi. Una trovata un po’ insolita, che è servita a Lemire per prendere in giro Marvel e DC riguardo la loro politica editoriale degli ultimi anni, impostata sul periodico azzeramento della numerazione delle varie testate, con la scusa di eventi narrativi particolarmente significativi o di importanti cambi nel team creativo. Una strategia che, da tempo, sembra voler inseguire la serialità televisiva moderna, cercando di accomunare le “run” fumettistiche alle “season” del piccolo schermo, così da rendere il linguaggio dei comics più familiare ai giovani di oggi ma, nello stesso momento, difficilmente digeribile per chi, come il cartoonist canadese, è cresciuto con i ritmi compassati della Bronze e della Modern Age. Naturalmente, l’escamotage è servito anche per far tirare il fiato agli autori, soprattutto a Lemire, sempre impegnato in più di un progetto contemporaneamente. A ogni modo, i lettori italiani non si sono accorti praticamente di nulla, visto che la Bao ha giustamente raccolto Age of Doom nei volumi tre e quattro della sua collana dedicata ai paladini di Spiral City.

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I nuovi episodi si aprono con Madame Dragonfly che riesce, ancora una volta, a impedire a Lucy di raccontare la verità sulla fattoria, inviandola in quello che, almeno all’inizio, sembra una sorta di labirinto dimensionale. Da qui in poi, la narrazione di Lemire procede su due livelli separati: nel primo viene portata avanti in maniera classica la vicenda principale, nel secondo, invece, ci viene mostrato il tentativo di Lucy di tornare alla fattoria, attraverso un surreale viaggio su altri mondi, dove l’autore canadese non riesce neppure a resistere alla tentazione di citare sé stesso facendo comparire, in una vignetta, Gus, il protagonista di Sweet Tooth. In questi passaggi, Lemire comincia a giocare in maniera scoperta con le regole del medium, trascendendo la storia principale con citazioni più o meno nascoste di pietre miliari del fumetto (la dimensione di Storyland, per esempio, ricorda le atmosfere del Sandman di Neil Gaiman) e improbabili paradossi spazio-temporali (concentrati soprattutto nel personaggio di Jack Sabbath, che sarà uno dei protagonisti della cosiddetta Fase II del Black Hammer Universe). Questo processo raggiunge infine il suo apice in due episodi successivi dedicati quasi per intero al Colonnello Weird, dove, per accrescere lo straniamento causato dalla sovrapposizione tra realtà e fantasia, i disegni vengono affidati a Rich Tommaso, un autore dallo stile a metà tra l’underground e la linea chiara franco-belga, molto diverso da quello di Dean Ormston, l’artista titolare della serie. In questa lunga sequenza, Lemire si esibisce in un divertente delirio metafumettistico, con ulteriori omaggi ai diversi periodi che compongono la storia dei comics, utilizzati anche per anticipare quello che vedremo nelle storie future. Assistiamo persino alla parziale entrata in scena dell’autore stesso e, soprattutto, facciamo la conoscenza dei diversi scenari e dei tanti personaggi che avrebbero potuto far parte del complesso affresco di questo nuovo universo narrativo e che, invece, sono stati - per il momento - accantonati. Tra questi, meritano sicuramente una citazione i bizzarri superanimali, protagonisti di uno dei momenti più camp dell’intera storia, assolutamente improponibili al giorno d’oggi, ma molto popolari negli anni Cinquanta e Sessanta, quando rappresentavano la risposta del fumetto a star televisive come Rin Tin Tin o Furia.

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Per quanto queste lunghe digressioni possano apparire gustose e non prive di interesse, è innegabile che il pezzo forte dei due volumi sia costituito dagli eventi direttamente legati alla trama principale. Questa viene magistralmente portata a conclusione, attraverso una narrazione trascinante, dove l’avventura prettamente supereroistica si intreccia con le vicende dei vari personaggi, ognuna delle quali viene utilizzata da Lemire per far emergere altri temi: la persecuzione da parte dei suoi simili, di cui è oggetto Barbalien, per esempio, è una chiara condanna di ogni forma di discriminazione, tuttavia il messaggio che ne deriva è molto più diretto di quanto fatto per tanti anni dalla Marvel con gli X-Men. I sogni repressi e le frustrazioni di Lucy, invece, sono una sorta di rappresentazione di come i supereroi possano essere un modo per evadere dal grigiore della quotidianità, oppure, attraverso il personaggio di Golden Gail, per oltrepassare i limiti della vecchiaia (se non nel fisico, almeno nello spirito). Assolutamente da non dimenticare, infine, il parallelismo tra il desiderio umano di alcuni di preferire una vita di finzione, ma felice, a una desolante esistenza nel mondo reale, e il sacrificio di altri, pronti a fare il proprio dovere fino alle estreme conseguenze: due motivazioni opposte che permettono, però, di raggiungere uno scopo comune. In altre parole, la chiara manifestazione dell’essenza stessa del pensiero di Lemire a proposito degli eroi in calzamaglia.

Qualche commento sui disegni dei due volumi, prima delle battute finali: fino a questo momento, abbiamo accennato alla parte grafica, solo per descrivere brevemente i due capitoli realizzati da Tommaso ma, in realtà occorre spendere qualche parola in più per il lavoro di Ormston il cui stile, che all’inizio aveva destato qualche perplessità negli appassionati, si è progressivamente imposto come uno degli elementi portanti dell’opera. È sicuramente vero che la tendenza al grottesco dei suoi disegni, affinata durante la permanenza dell’autore inglese su vari titoli Vertigo, si apprezza maggiormente nei passaggi vagamente horror o nella rappresentazione di personaggi soprannaturali come Madame Dragonfly, ma l’apparente semplicità del tratto e un’indubbia capacità di saper raccontare per immagini, si sposano molto bene con quel misto di celebrazione e disincanto voluto da Lemire.

Sebbene, in pochissimi anni, l’universo di Black Hammer sia già riuscito a guadagnarsi un posto d’onore tra i classici contemporanei, l’autore di Essex County e Gideon Falls sembra avere parecchie altre cose da dire. Di sicuro, noi confidiamo nella sua grande inventiva e nella passione dimostrata per i personaggi, con la certezza che, negli anni a venire, sarà capace di farci emozionare molte altre volte ancora.

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SDCC19: le novità dell'universo Black Hammer

  • Pubblicato in News

Durante il San Diego Comic Con sono state annunciate le novità relative all'universo di Black Hammer, creativo del prolifico Jeff Lemire. Lo sceneggiatore, in coppia con Dean Ormston e l’ausilio delle matite di Tonci Zonjic, realizzerà una ulteriore serie in sei parti: Skulldigger + Skeleton Boy.

La serie è ambientata a Spiral City e segue la lotto al crimine del duo protagonista della serie.

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Visto l’enorme successo di Black Hammer, la Dark Horse editerà una nuova edizione di tutti i primi numeri delle varie serie di questo universo narrativo in un volume dal titolo dal titolo Black Hammer 3 contenente Black Hammer #1, Quantum Age #1 e Sherlock Frankenstein #1 al prezzo concorrenziale di 1 dollaro.

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Black Hammer 2, recensione: Il tempo perduto e ritrovato di Jeff Lemire

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“Quando mi guardo indietro ora
Quell’estate sembrava durare per sempre
E se avessi potuto scegliere
Si, avrei sempre voluto essere là
Quelli erano i giorni più belli della mia vita”

(Bryan Adams, Summer of ’69)

Vi capita mai, in questi tempi così incerti, di provare malinconia per il passato? Un passato che appare dorato e privo di imperfezioni, soprattutto se confrontato con un presente ritenuto largamente insoddisfacente, in confronto ai sogni e alle speranze di gioventù? Non fatevi illusioni: se siete persone dotate di questa sensibilità, siete fuori dal tempo come le audiocassette TDK. Nostalgicamente e orgogliosamente analogici in un mondo digitalizzato. Però potete consolarvi pensando ad una cosa: Jeff Lemire è sicuramente uno di voi. Abbiamo aperto questa recensione con la canzone di un compatriota di Lemire, il canadese Bryan Adams, che ci sembrava tematicamente ed emotivamente affine alla produzione dell’autore di Sweet Tooth e Descender. Lo stesso lirismo malinconico che permea opere come Essex County e Niente da perdere. Ma Jeff Lemire è uno di noi anche e soprattutto per un altro motivo: ama profondamente i supereroi. Una passione che lo ha portato a collaborare con le Big Two del settore, Marvel e DC, ma anche con la piccola Valiant, per la quale ha scritto una notevole sequenza di storie di Bloodshot. Finché la predilezione per gli eroi in costume lo ha portato a creare la propria serie a sfondo supereroistico, Black Hammer, di cui Bao Publishing ha da poco pubblicato il secondo volume.

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Ritroviamo il vecchio Abe e la sua strana “famiglia” esattamente dove li avevamo lasciati, alle prese con  la vita di tutti i giorni a Rockwood, il paesino di provincia dove si sono materializzati dieci anni prima, dopo aver sconfitto il malvagio Anti-Dio e aver salvato Spiral City. Si, perché in realtà Abe è Abraham Slam, flagello dei criminali e primo eroe della città, e la sua famiglia è costituita dagli altri eroi scomparsi sotto mentite spoglie: Golden Gail, nelle cui sembianze di adolescente dotata di superforza e volo è bloccata in realtà una donna ormai matura; il marziano Barbalien, l’esploratore Colonnello Weird e il suo robot, Talky Walky, la misteriosa maga Madame Dragonfly. Manca all’appello solo Black Hammer, il più grande campione della città, la cui scomparsa è avvolta nel mistero. Gli eroi avevano scoperto ben presto di non poter fuggire dalla contea, avvolta da una cupola di energia impossibile da superare. Per non sconvolgere la vita tranquilla di Rockwood con la loro presenza, non avevano avuto altra scelta che appendere al chiodo i loro costumi e mescolarsi agli abitanti della cittadina. Così dieci anni erano trascorsi in un battito di ciglia, anni in cui Abe, stanco della vita da supereroe, si era adattato benissimo alla sua nuova esistenza trovando anche l’amore. Agli altri, però, non era andata così bene a partire da Gail, frustrata per il fatto di dover recitare la parte di una ragazzina pur avendo le necessità di una donna matura. Il volume precedente si era chiuso con l’arrivo inaspettato di Lucy, la figlia di Black Hammer, alla fattoria che ospita la “famiglia disfunzionale”. La ragazza era riuscita a seguire la traccia energetica lasciata a Spiral City dopo la scomparsa degli eroi, riuscendo ad arrivare a Rockwood in cerca del padre. Al vecchio Abe non resta che raccontare alla ragazza la verità: Black Hammer era morto subito dopo che il gruppo si era materializzato davanti la fattoria che sarebbe diventata la loro casa, lanciandosi in volo e infrangendosi contro la misteriosa cupola di energia. Una tragedia che aveva ricondotto a più miti consigli il resto del gruppo, subito rassegnatosi circa le possibilità di poter tornare a casa. Ma Lucy non demorde e, da giornalista d’inchiesta quale è, decide di indagare sulla strana natura del luogo che li ospita. Nel frattempo, la vita rurale e provinciale di Abe e degli altri membri della “famiglia” prosegue, tra la frustrazione per l’impossibilità di adattarsi ad un posto che si odia, come nel caso di Gail, e il ricordo della vita che fu, mostrata da una serie di flashbacks che spezzano la narrazione principale.

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Black Hammer è stata subito inserita fin dal suo apparire nel filone del fumetto “decostruzionista”, e non a torto: Lemire ci mostra tutta la disillusione e il disincanto di eroi che dovrebbero incarnare il “sogno” per eccellenza, ponendosi sulla scia di classici del genere come Miracleman e Watchmen di Alan Moore. Campioni dell’umanità che dovrebbero guadagnarsi la fiducia della gente, quando neanche loro credono più in se stessi. Allo stesso modo, la serie si può inserire a ragione anche nel filone metatestuale, in cui il fumetto ragiona su se stesso, accanto ad opere come il Supreme dello stesso Moore e buona parte della produzione di Grant Morrison. Eppure, per quanto sia divertente spulciare le pagine di Black Hammer per trovare e catalogare tutte gli innumerevoli omaggi, citazioni e riferimenti a decenni di fumetto supereroistico inseriti da Lemire, non ci sembra questa un’operazione capace di cogliere pienamente il senso profondo dell’opera. Cosa ci raccontano le somiglianze tra Abraham Slam e Capitan America, con una spruzzata del Wildcat della Justice Society of America? O l’origine di Black Hammer, che affonda nella sintesi tra due diverse mitologie create dal “Re” Kirby, quella asgardiana del Thor della Marvel e la Saga del Quarto Mondo realizzata per la DC, con la sua corte di Nuovi Dei perennemente in lotta contro il tiranno Darkseid, modello di riferimento, insieme a Galactus, per il terribile Anti-Dio? Cosa ci suggerisce l’ombra di Shazam, il Capitan Marvel originale, nascosta dietro alla tormentata figura di Golden Gail? Il marziano Barbalien, simulacro più malinconico del Martian Manhunter della DC, o il Colonnello Weird, parente stretto di Adam Strange? Per non parlare della tradizione dei fumetti horror della EC Comics che si nasconde dietro le lugubri sembianze di Madame Dragonfly. Tutto questo ci dice che Jeff Lemire ha riavvolto il nastro della sua memoria di lettore, avviluppandoci tutti in un limbo fatto di ricordi di ore di letture giovanili. Possiamo avere sembianze da adulti, ormai, e condurre vite più o meno soddisfacenti, ma dentro siamo ancora i ragazzi che correvano a casa con un numero degli X-Men per divorarlo, avvitati nel nostro vacuum personale di ricordi che non ci lasciano mai, mentre la vita scorre. Un limbo come quello che imprigiona Abe e i suoi compagni, più o meno rassegnati ad una vita dove le giornate scorrono tutte uguali, mentre dentro vengono consumati dall’eco della gloria che fu. È questo il miracolo che Jeff Lemire compie con Black Hammer: scardinare lo scrigno dei ricordi per riconsegnarne il contenuto ai lettori, offrire la sua personale “Madeleine”, come un novello Proust, per restituire alla luce il tempo perduto ed ora ritrovato delle nostre antiche letture in tutta la sua struggente e malinconica bellezza.

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Nonostante i livelli di lettura che le sue opere sono capaci di offrire, Lemire resta un autore fieramente popolare, tanto da potersi permettere un gustoso omaggio a Dan Jurgens e alla sua iconica copertina realizzata per La Morte di Superman, nonché al sempre deriso e sbeffeggiato Rob Liefeld, col quale condivide un amore sincero e fanciullesco verso il fumetto di supereroi, per quanto declinato in maniera più dozzinale dall’autore di Youngblood.

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La riuscita di Black Hammer non potrebbe dirsi completa senza l’apporto di Dean Ormston, che firma le matite anche in questo secondo volume. Autore di scuola “Vertigo” che non aveva mai lavorato prima ad una serie supereroistica pura, Ormston dona alle sue tavole una sensibilità tipicamente indie con uno stile volutamente dimesso, riuscendo a catturare alla perfezione i sentimenti di malinconia e rimpianto che permeano l’opera. Un vero commento per immagini alla sceneggiatura ispirata di Lemire, intervallato solo dalla presenza come guest-star di David Rubín nell’episodio dedicato al Colonnello Weird. Il tratto cartoonistico di Rubín spezza con efficacia l’unità stilistica dell’opera, in una sequenza ambientata nel passato che vuole celebrare l’ingenuità della science-fiction della Silver Age. Da non dimenticare l’apporto prezioso della palette cromatica di Dave Stewart, che oscilla tra i colori spenti del presente rurale e i toni accesi e vivaci di un passato glorioso e sfolgorante.

Bao Publishing prosegue con successo il suo rapporto privilegiato con Jeff Lemire, di cui ha portato in Italia alcuni dei lavori più significativi, proponendo Black Hammer in una serie di pregevoli volumi cartonati che non possono mancare nella libreria di ogni appassionato.

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