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Andrea Fiamma

Andrea Fiamma

Star Wars VII, aggiornamenti sul cast

  • Pubblicato in Screen

Continua la tempesta di nomi e indiscrezioni sulla composizione del cast di Star Wars VII. L'Hollywood Reporter riporta che Lupita Nyong’o, fresca di Oscar per il suo ruolo d'esordio in 12 anni schiavo, ha incontrato il regista J.J. Abrams. La rivista ipotizza che l'attrice potrebbe vestire i panni della discendente di Obi-Wan Kenobi, il cui ruolo è stato descritto come "non caucasico".

Sull'altro versante, Ray Fisher, Matthew James Thomas, Ed Speleers (Downton Abbey), John Boyega (Attack the Block) sono i nomi aggiunti alla lista degli attori papabili per il ruolo da protagonista del film. In cima a questa lista, però, figura Jesse Plemons (Breaking Bad), che sembrerebbe il più vicino alla parte.

40 anni di Lupo Alberto: intervista a Moreno Burattini

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la Moreno BurattiniPluripremiato sceneggiatore, Moreno Burattini ha prestato servizio come autore di Lupo Alberto negli anni novanta, realizzandone diverse storie. Ma l'impegno preso con la Bonelli per supervisionare la produzione di Zagor, personaggio di cui tuttora elabora le avventure, lo ha allontanato dai McKenzie.

Anche saggista, ha continuato a occuparsi del Lupo analizzandolo in pezzi come Al lupo! Al lupo!, sulla storia editoriale del personaggio, e Nella vecchia fattoria, sull'aspetto corale della testata, oltre a saggi su Tex, Zagor e Diabolik.

A Comicus Burattini ha raccontato la sua amicizia con Silver e il rapporto con quel suo personaggio dal pelo ceruleo.

Dei quarant'anni di storia editoriale di Lupo Alberto quanti ne hai passati in compagnia dei McKenzie?
Come lettore, tutti e quaranta. Come autore, sono stato attivo dal 1992 al 1998, realizzando una quarantina di storie. La prima si intitola La dimora degli dei (Lupo Alberto n°80); l’ultima, Talpamara il farmacista (Lupo Alberto n°157). Oltre a sceneggiare storie “ordinarie”, ho anche ideato tre serie: Le maialate di Enrico La Talpa (ogni volta Enrico escogitava un metodo diverso per cercare di sedurre Silvietta), McKenzie Memories (ogni personaggio della fattoria rievoca un suo antenato) e Vita da talpa (scenette coniugali tra Enrico e Cesira). Durante i sei anni di collaborazione ho anche scritto articoli per le rubriche della rivista e dei supplementi.

Come è avvenuto l'incontro con Silver?
Mi ero proposto come sceneggiatore per le riviste Splatter e Mostri che, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, venivano pubblicate dalla ACME di Roma. Non sapevo che tra i soci della Casa Editrice, insieme a Francesco Coniglio, ci fosse anche Silver. Lo scoprii subito perché proprio mentre le mie prime storie venivano accettate, la ACME mandò in edicola due testate dedicate a Cattivik e Lupo Alberto. Chiesi se servissero storie per quest’ultimo personaggio, che trovavo più congeniale alle mie corde, ritenendo il Lupo molto più legato alla sensibilità e al tocco autoriale di Silver. Dopo un po’ di tempo trascorso a scrivere sceneggiature per il Genio del Male, fu Silver stesso a chiedermi di provare anche con la fattoria McKenzie.

Dunque inizi a collaborare con Silver tramite Cattivik. Come ti sei trovato?
Mi sono divertito un sacco. Ho sempre pensato di essere istintivamente portato per il fumetto umoristico, e lo dimostra la ventina di albi di Cico (la spalla comica di Zagor) scritti per la Bonelli. Se fosse stato possibile, non avrei mai smesso di cattivikkeggiare. Per la testata mi inventai anche uno pseudonimo, quello di Professor Gustavo La Fogna, con cui rispondevo alle missive dei lettori e curavo rubriche come “Il dizionario degli insulti” o quella degli scherzi.

Da Cattivik sei poi passato a Lupo Alberto, a cosa è stato dovuto lo spostamento?
Fu una proposta di Silver che mi chiese se me la sentivo. Mi sentii promosso. Poi la collaborazione si interruppe perché da una parte la MCK, la nuova casa editrice del Lupo dopo Acme e Macchia Nera, aveva cominciato a mettere su uno staff di sceneggiatori più assidui di me, che ero a mezzo servizio, dall’altra io stesso ero talmente assorbito dal mio lavoro in Bonelli da non avere più tempo per il Lupo. Non c’è stato mai un momento in cui io e Silver ci siamo detti addio, ma io ho smesso di inviare proposte e lui ha smesso di chiedermele. Ma quando ci vediamo non manchiamo mai di ricordare i bei tempi trascorsi insieme.

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Oltre all'universo McK hai preso parte a un'altra grande realtà tutta italiana, la Bonelli, curando dal 1989 Zagor e scrivendone le avventure più importanti (tra cui il numero 600, il primo romanzo). Come sei approdato al personaggio?
La data del 1989 è quella in cui ho cominciato, in ottobre, a scrivere la mia prima storia di Zagor, uscita poi nel maggio del 1991. Da quel momento non ho mai smesso di sceneggiare storie dello Spirito con la Scure, ma fino al 2001 l’ho fatto stando a casa mia, in Toscana. Poi, la Casa editrice mi ha chiesto di trasferirmi a Milano per lavorare in redazione e io ho accettato, facendo da braccio destro al curatore della testata dell’epoca, Mauro Boselli. Della cura di Zagor vera e propria, tutta affidata a me, ho cominciato ad avere la responsabilità dal 2007. Allo Spirito con la Scure sono approdato avendone letto le avventure da quando ero bambino, avendo sognato di scriverne io le storie sull’esempio di uno sceneggiatore che adoravo, Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli, creatore del personaggio), e infine presentando delle proposte in Via Buonarroti, là dove si “fabbricava” il personaggio. Naturalmente non subito venni accettato e ci fu tutto un percorso di maturazione e di apprendistato da fare prima di arrivare a vedere realizzato il mio sogno. Oggi sono lo sceneggiatore che ha scritto più pagine di Zagor di chiunque altro, Nolitta compreso (che resta però imbattibile per qualità, e a cui io cerco sempre di ispirarmi).

Lupo Alberto si è imposto come uno dei personaggi più iconici del fumetto italiano. Secondo te dov'è la sua forza?
Ho scritto molti articoli sul Lupo, e sempre ho sottolineato l’importanza della “coralità” nelle sue strisce e nelle sue storie. Alberto non è l’unico mattatore, ma uno dei tanti personaggi sulla scena. La fattoria è un microcosmo affollato e tutti riconosciamo in qualcuno degli animali un nostro amico o un nostro parente, se noi stessi. Il garbo con cui Silver, poi, raffigura la realtà psicologica della vita di tutti noi rende il suo fumetto qualcosa di più di una “semplice” strip comica.

40 anni di Lupo Alberto: intervista a Bruno Cannucciari

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la bcan 0Romano, classe 1964, Bruno Cannucciari fa il musicista. Ma sopratutto fa il mestiere - nel più sincero dei sensi, come dice lui - dei fumetti. Esordisce giovane, arrivando nei primi posti del celebre concorso per fumetti di Prato, collabora con Comic Art e Italia oggi, per poi incontrare nella sua strada Lupo Alberto. Da allora i due non si sono più lasciati, superando la gavetta, le critiche e qualche scappatella - Cannucciari ha recentemente prestato le sue chine alla serie Panini Nirvana.

In occasione del quarantennale del personaggio, l'autore ha raccontato a Comicus i propri esordi, il passato e il futuro del suo lavoro. E quella volta che si spacciò per Hugo Pratt.

Partiamo dall’inizio. Com’è che ti sei ritrovato a fare il fumettista?
È, molto banalmente, quello che avrei voluto fare fin da piccolo. È una questione di imprinting. Se a 8/10 anni, in casa, hai la possibilità di leggere contemporaneamente Topolino e Valentina di Crepax, Peanuts e Silver Surfer, Lupo Alberto e Corto Maltese e Toppi e Doonesbury assimili universi diversissimi tra loro e soprattutto ti convinci che i fumetti NON SONO una minchiata per bambini come senti in giro. Analogamente, se a 12/13 anni ascolti abitualmente De Andrè, Area, Gaber difficilmente ti convinceranno che Sanremo e Canzonissima sono LA MUSICA. Quando, negli anni del liceo artistico, ho iniziato a realizzare lavori “tecnicamente decenti” era il tempo delle riviste contenitore tipo Metal Hurlant, Orient Express, Alter Alter e io stravedevo per Pazienza, ai miei occhi il più figo di tutti perché A) aveva sdoganato i pennarelli e B) utilizzava stili diversi nella stessa tavola: la quadratura del cerchio! Con questi lavori liceali approdai alla Comic Art di Traini che vide, apprezzò e mi mise a restaurare fumetti d’epoca (ovviamente diversissimi tra loro). Una gran bella palestra. E di lì a un paio d’anni pubblicai sul primo numero della rivista Comic Art la mia prima storia. Nella quale, manco a dirlo, convivevano stili diversi.

Come avviene il tuo incontro con Silver e la sua creatura?
Pubblicavo un mio personaggio, Winny, sulle pagine del Corriere del Pollaio (l’inserto redazionale del mensile di Lupo Alberto). Silver a quel tempo – fine anni ’80 – cercava collaboratori da affiancare a Giac. Colsi al volo l’occasione, anche perché il Lupo lo conoscevo bene, fin dalla prima striscia; e mi era sempre piaciuto perché lo trovavo assolutamente competitivo con le strisce americane che leggevo: possedeva una sua specifica “italianità” senza essere provinciale, pidocchiale.
Disegnai una sua storia natalizia pensando, nel mentre, di aver colto “l’intima essenza del suo codice segnico”. A pubblicazione avvenuta mi accorsi di quanto facesse schifo: avevo colto solo la buccia (per la polpa ci sarebbero volute un’altra decina di storie). Ma Silver, magnanimo, apprezzò, e di questo – lo dico sempre – non lo ringrazierò mai abbastanza. E di un’altra cosa lo ringrazio: nei rapporti interpersonali non ha mai frapposto la sua fama. Professionalmente lo considero tuttora il mio maestro, ma ci siamo sempre relazionati alla pari.

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Con le tavole autoconclusive dai sfogo a una voce che è inconfondibilmente tua, con testi quasi ipertrofici. All’inizio, invece, eri molto più vicino al modello. Come sei riuscito a imporre il tuo stile all’interno dell’universo dei McKenzie?
È avvenuto tutto in modo molto naturale. Del resto, Silver pone pochissimi paletti: quello che gli proponi non deve snaturare i suoi personaggi, non deve contenere volgarità gratuite, elementi offensivi o razzisti. E soprattutto lo deve far ridere.
Nelle tavole autoconclusive volevo – e voglio – dedicarmi ai personaggi “minori”, cercare strade laterali, allontanarmi dai tormentoni (magari poi finisco per crearne altri), utilizzare l’espediente di fantomatici parenti/amici/vicini per raccontare storie a carattere sociale che i personaggi della McKenzie, per natura o per ruolo, non possono vivere. Allargare il campo, insomma, magari utilizzando la formula del racconto breve. Fermi restando i paletti di cui sopra, ovviamente. Tutto questo presuppone un linguaggio e una costruzione leggermente diversa, e spesso più parole (in poco spazio!). E qui voglio dire una cosa rispetto ai “testi ipertrofici”. A me piace moltissimo scrivere i dialoghi, mi piace una recitazione nevrotica, affabulatoria, mi piace il “dialogo brillante” (quando scrivo immagino, come nei film di Woody Allen, uno swing o un be-bop di sottofondo). Che poi mi riesca bene è un altro paio di maniche, ma insomma questo è l’intento. E ammetto, in certi periodi, di aver esagerato. Se questo è avvenuto è perché mi identificavo completamente in quel che facevo. Ero ciò che facevo. Esistevo nel perimetro della tavola, non nella vita reale. Questo è un grosso guaio, e non dovrebbe capitare mai. Nessuno è, o dovrebbe essere, solo ciò che fa. Magari verrai ricordato, ma avrai pochissimo da ricordare. Ora, grazie al cielo e a chi so io, vivo molto di più (e sono molto meno ipertrofico); posso guardare il mio mestiere con sano distacco, considerarlo per quello che è: un mestiere, nel senso più nobile del termine.

Oltre a occuparti dei disegni per il merchandising, a metà degli anni novanta hai preso parte alle realizzazione della serie tv del Lupo, disegnando i modelli per gli animatori - coadiuvato poi da Michelon. Che esperienza è stata?
È stata un’esperienza esaltante! Al di là degli esiti (la seconda serie è sicuramente più pimpante e dinamica della prima). Amo il lavoro di squadra, e non solo perché si sommano creatività diverse: è perché bisogna essere precisi, non lasciare nulla al caso, avere rispetto assoluto per chi viene prima e dopo di te. Disegnare i modelli è stata una grande responsabilità: devi far capire a disegnatori sconosciuti – che normalmente animano tutt’altro -come “funziona” un personaggio, e prima di tutto lo devi capire tu. Devi dimenticare la bidimensionalità, devi immaginarlo nelle angolazioni e posizioni più assurde. Attraverso gli inspiration sketch devi spiegare cosa è Lupo Alberto e cosa non lo è. Suggerire un sapore. È stato bellissimo vedere la versione animata di storie che avevo scritto e disegnato. E’ stato meraviglioso sostituire di tanto in tanto Silver nelle sessioni di doppiaggio e capire in quanti modi si può porgere una battuta, ascoltare Lella Costa, Francesco Salvi e tutti gli altri mattacchioni che tiravano fuori le voci più improbabili. È stata una gran fatica, di quelle belle che rifaresti un anno sì e uno no.

Tra le tante attività extra-lupesche va per forza citato il tuo lavoro a metà degli anni ottanta su Comic Art, in collaborazione con Franco Fossati (brevi affondi sull’allora 20esima edizione di Lucca, il rapporto tra fumetti e pubblicità). Come sei arrivato a pubblicare sulla testata di Traini?
Come dicevo all’inizio, alla Comic Art ero di casa. Facevo di tutto: restauri, pellicole, impaginazioni, grafica, lettering, maschere-colore, disegni per pubblicità, caricature, qualche firma tarocca di Hugo Pratt (quando si dimenticava di firmare Gesuita Joe). Pubblicare fumetti su quelle pagine è stato “naturale”. Devo ringraziare Traini per un mucchio di cose: una è sicuramente l’avermi portato a Lucca da pischellissimo, permettendomi così di frequentare per giorni e giorni un luogo mitico e autori strepitosi; un’altra è, appunto, avermi fatto conoscere Franco Fossati. Persona splendida, finissimo umorista, gran conoscitore del mondo del fumetto e dei suoi retroscena. Mi ci son fatto grasse risate. Ho abitato un anno e mezzo a casa sua, ai tempi di Italia Oggi; le storie per Comic Art sono nate lì, da conversazioni serali davanti a una busta di salame (eravamo entrambi totalmente all’oscuro di qualunque nozione di cucina). E anche un paio di episodi di Winny.

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Anche le vignette satiriche apparse su Italia oggi costituiscono una delle esperienze più consistenti della tua carriera. È un tipo di umorismo diverso, che qualcuno ha recuperato, ma secondo te non rischia di diluirsi in un umorismo più generico, a maglia larghe?
Del mio lavoro su Italia Oggi preferisco ricordare le illustrazioni piuttosto che le vignette satiriche. Era un giornale timorosissimo, come parametro satirico aveva Forattini (che a me faceva ribrezzo), erano gli anni di Craxi e De Mita – poco prima che pernacchie e monetine li seppellissero. E poi ero molto giovane, e secondo me per fare della buona satira bisogna avere qualche annetto sulle spalle, inchiodare i propri bersagli ad atti e parole dimenticati dai più, collezionare le loro nefandezze. Leggere un lancio d’agenzia e commentarlo con una frase a effetto finisce per essere molto spesso un puro esercizio di stile; un’attitudine da copywriter, da titolista dell’Espresso (con tutto il rispetto per queste categorie umane). Non so, a me la satira politica comunemente intesa ora fa un po’ tristezza. Salvo Altan e pochissime altre cose sparse. L’umorismo satirico, invece, mi piace molto, anche se sconfina nell’umorismo più generico. E’ più umano, meno didascalico ma non necessariamente meno feroce.

Recentemente hai anche prestato servizio come inchiostratore alla serie Nirvana. Come è nata la collaborazione?
Avevo conosciuto i Paguri qualche anno fa, e ci eravamo piaciuti; ci riconoscevamo una certa “lateralità” rispetto al giro del fumetto italiano. Panini gli aveva chiesto una seconda stagione di Nirvana, Daniele era pieno fin qui di impegni bonelliani ma non voleva rinunciare a questa opportunità e, d’accordo con Emiliano, mi ha chiesto se volevo occuparmi delle chine. Ho accettato volentieri perché Nirvana mi piace MOLTO, lo considero un prodotto intelligente e di grande qualità che meriterebbe un ben più vasto seguito. Ho fatto delle prove, decidendo da subito che di mio ci avrei messo l’esperienza e non lo stile. E credo siano andate bene proprio per questo. Io penso che le “matite” siano una partitura. La musica SCRITTA. Ci sono direttori d’orchestra, o arrangiatori, molto ego riferiti che hanno bisogno di marcare l’interpretazione fino (spesso) a stravolgerla; ce ne sono altri, come me, che si preoccupano di tirar fuori al meglio tutto ciò che la partitura dice o suggerisce. Non me ne faccio un vanto: è una modalità. Uso una metafora musicale perché, suonando, mi è capitato spesso di lavorare su brani composti da altri, e mi sono comportato nello stesso modo.
Nirvana è stato anche un gran bell’impegno: 276 tavole in un anno non sono uno scherzo, soprattutto se non sei strutturalmente capace di “tirar via”. Ma è stata una sfida interessante: sei nella condizione di non poterti gingillare su particolari infinitesimi, vai al sodo, badi al ritmo. E ogni tanto ti concedi qualche colpo di teatro, qualche bella tavola potente che galvanizza te prima ancora che il lettore. Replicheremo il prossimo anno, con una terza stagione!

In una tua intervista del 2006 hai parlato di una “Una lenta e progressiva disaffezione del pubblico” rispetto a un panorama fumettistico omogeneizzato. Rimani dello stesso parere? Come vedi adesso il settore?
A giudicare dai fiumi di carne umana che ho guadato nelle ultime due edizioni di Lucca e al Comicon di Napoli, sono costretto a ricredermi. Oddio, il panorama fumettistico è ancora largamente omogeneizzato, ma qui e là si trovano sempre dei capolavori assoluti, come unastoria di Gipi o Povere nullità di Baru e Pierre Pélot. C’è moltissima fuffa ben confezionata, ma pure fenomeni come Zerocalcare o degnissime graphic novel che travalicano il perimetro del fumetto e diventano altro. Una dilatazione di campo, insomma. Che fa ben sperare. Non conosco dati di vendita di nessun fumetto, e me ne interesso anche poco, fondamentalmente perché non credo sia il parametro in base al quale giudicarne la bontà. Mi limito a cogliere una certa bella vitalità, che di questi tempi vaghissimi e di nulle certezze è quasi una bestemmia.

40 anni di Lupo Alberto: intervista a Casty

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la casty0Andrea Castellan, noto ai più con lo pseudonimo di Casty, è uno dei principali autori in forza nelle scuderie Disney, grazie al suo lavoro costante e puntuale sul personaggio di Topolino. Ma prima di Topolino, l'autore ha prestato penna e matita a un altro colosso del fumetto italiano, Lupo Alberto, che quest'anno festeggia il quarantennale.

Casty si è gentilmente prestato per parlare dell'influenza di Silver sulla sua carriera, del futuro del Lupo e dell'insostenibile leggerezza di sceneggiare delle icone.

Lupo Alberto compie 40 anni, tu ci hai fatto assieme un pezzetto di strada. Che ricordi hai di quell'esperienza?
Ho lavorato per il Lupo per più di sette anni, dal '99 al 2006, scrivendo in totale oltre quaranta storie. Conservo un bellissimo ricordo di quel periodo, perché fu prolifico e gratificante e mi diede modo di lavorare con continuità, assieme a colleghi bravissimi, su dei personaggi che amavo molto, Alberto soprattutto, in cui all'epoca (ero trentenne) mi ci ritrovavo caratterialmente: le beghe sentimentali, il perenne dilemma del "cosa fare della tua vita", il sentirsi un po' "estraneo" rispetto ai tuoi amici che fanno un lavoro normale.
Preferivo Alberto anche perché, un po' come accade con Topolino e Paperino, era perennemente afflitto da un comprimario strabordante come Enrico la Talpa, che gli rubava la scena nelle strisce e spesso anche nelle storie lunghe. Non che non adori anche Paperino e Enrico, eh… solo mi dispiace un po', quando la spalla mette in ombra il titolare della testata.
C'era inoltre in quel periodo la bellissima sensazione di lavorare in un team affiatato, senza egoismi e rivalità, e con la stima di editor e direzione: ricordo che pensavo "Ah, è davvero bello fare i fumetti!".

La tua carriera inizia con Cattivik, nel 1995, con la storia Il ladrobot. Come sei approdato al personaggio?
In realtà i primi approcci avvennero già nel '93. All'epoca ancora non sapevo quale sarebbe stata la mia strada: spedivo i miei lavori a vari editori, tra cui Bonelli, Il Giornalino ecc…
Quasi nessuno rispose (e nessuno positivamente), e fu quasi per caso che mi ritrovai con la proposta di provare a sceneggiare Cattivik, il cui mensile stava muovendo i primi passi e per il quale c'era un grande bisogno di sceneggiature inedite.
Così iniziai a studiare il personaggio e, trovandolo decisamente simpatico e affine al tipo di umorismo che mi piaceva in quegli anni, mandai uno storyboard alla redazione. Il primo non funzionò, mi fu fatto rifare un sacco di volte, tant'è che alla fine, dopo un anno di riscritture, lo abbandonai di mia sponte. I successivi invece piacquero tutti, a partire dal Ladrobot appunto, e partì quindi una collaborazione molto intensa che si protrasse per oltre dieci anni.

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Il passo successivo è stato appunto Lupo Alberto. È stata una tua scelta cambiare testata?
Non fu proprio un cambio, nel senso che comunque continuai a scrivere storie anche per Cattivik. Diciamo che intorno ai trent'anni era nato il desiderio di cimentarmi con qualcosa di più… impegnativo. Intendo: Cattivik è un personaggio bellissimo, per certi versi anche più "forte" del Lupo…. ed è però un po' sottovalutato nell'opinione generale. Ingiustamente, aggiungo, perché certe sue storie non hanno nulla da invidiare come genialità al Ratman di Ortolani, per fare un esempio.
Alberto però è nell'immaginario collettivo un personaggio più "nobile": lavorare con un personaggio già celebre, e già dotato di un contorno di comprimari ben caratterizzati negli anni, era per me una sorta di sfida personale, una prova per vedere cosa sapevo fare. Con Cattivik c'era un universo da creare, qui invece c'era un universo da portare avanti nel rispetto dei personaggi creati da Silver.
Mi sono molto divertito a lavorare sul Lupo, grazie anche al grande affiatamento con i colleghi e alla stima di Silver che ha sempre avuto una grossa fiducia in me.

Poi è arrivato Topolino. Come è avvenuta la transizione a territori così differenti?
Come dicevo prima, quando passi i trent'anni inizi a vedere le cose in modo diverso: mi accorgevo che l'umorismo dissacrante che utilizzavo con Cattivik non mi divertiva più come agli inizi, non mi veniva più così spontaneo. Mi nasceva la voglia di scrivere storie più complesse, che parlassero di avventura, di misteri, di viaggi, di fantascienza. Avevo anche iniziato a buttare giù dei soggetti, e dei personaggi miei, pur consapevole che sarebbe stato molto difficile trovare un editore interessato.
Fu in quel periodo, il 2002, che mi riavvicinai alla lettura del mio… primo amore che era, appunto, Topolino: ripresi ad acquistare il settimanale, dopo vent'anni. Rimasi subito abbastanza deluso nel constatare che Mickey era praticamente sparito dalle sue pagine, soverchiato dai Paperi: pensai quindi che poteva essere una cosa interessante proporre alla Disney qualcuno dei soggetti avventurosi che avevo nel cassetto, naturalmente adattati al mondo dei personaggi Disney.
Presentai sia storie di Topi che di Paperi e il caso volle che passassero solo le prime: anzi, inaspettatamente, mi fu chiesto di continuare a scrivere con Topolino piuttosto che con Paperino. Be', non chiedevo di meglio, e fu così che quello che doveva essere un tentativo senza grandi aspettative divenne l'inizio di una lunga collaborazione.
A posteriori posso dire che anche dal punto di vista del… mio portafoglio fu una ulteriore fortuna, visto che di lì a pochi anni il mensile di Cattivik andò incontro a una crisi di vendite, fino a chiudere.

Tra Cattivik, Lupo Alberto e Topolino il tono cambia di molto, cambiano gli strumenti narrativi. Eppure tu li hai sceneggiati tutti e tre. C'è un qualche minimo comun denominatore?
Be', uno sceneggiatore questo deve fare: adattare il proprio stile al personaggio su cui lavora, studiarlo bene e rispettarlo. Per questo occorre leggere con attenzione non tanto ciò che fanno i tuoi colleghi, bensì ciò che hanno fatto coloro che quei personaggi li hanno creati. E, partendo da questo, creare storie nuove, che siano conformi ai personaggi e che nel contempo siano attuali.
Il nero genio del mal', Alberto e Topolino hanno davvero poco in comune, se non il fatto che tutti e tre devono riuscire a strapparti un sorriso: e sta appunto alla perizia dell'autore trovare il modo di intrattenere il lettore dandogli il tipo di divertimento consono al personaggio. Per capirci, Cattivik può fare le puzzette, Topolino no. E neanche Pippo. O, se le fa, le fa quando non è inquadrato.

Topolino ha saputo reinventarsi, riposizionandosi sul mercato digitale, svecchiando i personaggi, dando uno scossone generale all'ambiente. Credi che il mensile del Lupo potrebbe ricorrere alle stesse modalità di rinnovamento per trovare un pubblico più ampio?
Come dicevo anche in un'altra intervista, più che un rinnovamento di personaggi, che sono sempre validissimi, servirebbe una maggiore visibilità. Che oggi ottieni solo essendo presente in video, sia esso in tv o su supporto digitale: bisogna accettare il fatto che ormai la comunicazione va in questa direzione. C'è un enorme archivio di strisce che potrebbero essere utilizzate come soggetti per dei corti (cortissimi, intendo: roba da 15/30 secondi), strisce che potrebbero essere animate e adattate al video senza enormi finanziamenti. Ecco, io credo che una efficace sinergia tra fumetto tradizionale e fumetto "animato" potrebbe funzionare.

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Una delle lezioni che Roberto Gagnor terrà per il corso di fumetti organizzato dalla Scuola Holden si intitolerà "I temi: no sex, no politics, no religion, no racism, la malattia e la morte". Tutti temi che Lupo Alberto ha sempre affrontato di petto. Trovi che Topolino non potrebbe affrontare queste tematiche, declinandole con il tatto giusto? Negli ultimi anni le storie si sono comunque aperte verso toni più duri (Double Duck per esempio, per gli standard Disney, contiene una buona dose di violenza).
C'è una differenza fondamentale tra il Lupo e Topolino: Alberto è un personaggio fruibile ANCHE dai bambini, ma non è un personaggio creato per i bambini. Prova ne è il fatto che lo abbiamo spesso visto impegnato anche in campagne sociali, ricordo ad esempio quella di Alberto testimonial sull'uso del preservativo. Spero si concordi sul fatto che vedere Pippo o Topolino che raccomandano l'uso del profilattico sarebbe alquanto fuori luogo. Topolino è infatti un personaggio per i bambini, fruibile ANCHE dagli adulti, almeno in buona parte dei casi.
Stando questo, è poi vero che entrambi i personaggi possono essere declinati a seconda del contesto: i cartoni animati del Lupo sono molto più edulcorati rispetto a certe strisce di Silver, così come "MMMM" è senza dubbio un prodotto molto più adulto rispetto al Topolino che si vede, per esempio, ne "La casa di Topolino".
Rimanendo nell'ambito del settimanale, sì, sono d'accordo sul fatto che anche su "Topolino" possano essere pubblicate storie dai toni più seri, anzi, ben vengano: il tatto giusto, o il "garbo", come lo chiamo io, è però indispensabile in questi casi. Non a caso DD è in mano ad autori disneyanamente molto esperti, che sanno dov'è la linea che non bisogna oltrepassare.
Topolino è un personaggio universale e non può permettersi di schierarsi dichiaratamente con questa o quell'altra parte politica, o sostenere questa o quell'altra causa, pur essendo magari palese che la causa per cui si batte è giusta. Può farsi paladino di certi valori, sicuramente, come l'onestà, la giustizia, ecc., ma non può portare una specifica bandiera.
Per quanto riguarda il sesso, poi, francamente non credo ci sia la necessità di parlarne su Topolino: l'amore sì, invece, poiché è un sentimento che è ben noto fin da piccoli.
Discorso un po'… conservatore? Può darsi, penso però che se uno vuole leggere di sesso, politica, religione e morte… fa prima a comprarsi un altro fumetto, piuttosto che aspettarsi queste cose da Mickey e co..
Per tutti coloro che bramano queste cose c'è tuttavia una soluzione: si fa una fan fiction, la si mette in rete e si aspettano gli applausi per il coraggio dimostrato nel rompere gli schemi.
Perché un fumetto si caratterizza sia per quello che fa vedere, sia per quello che NON fa vedere: altrimenti avremmo un unico genere, un unico stile, potremmo avere un Tex con le donne nude o un Dylan Dog disegnato in "manga-style". E fare lo sceneggiatore, o il disegnatore, sarebbe un mestiere molto, molto più semplice.

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