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Luca Tomassini

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Ballata per un traditore, recensione: il noir all'italiana di Carlotto, Ruju e Ferracci

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Benché il noir sia un genere letterario nato negli Stati Uniti alla fine degli anni venti dello scorso secolo, nel corso dei decenni la sua popolarità si è estesa ben al di fuori dei confini a stelle e strisce. Se l’hard boiled viene codificato principalmente da scrittori americani come Dashiell Hammett, Raymond Chandler e Mickey Spillane, il noir conosce anche declinazioni estere, soprattutto europee, tanto nella letteratura quanto nel cinema. La specificità del noir, che vede come protagonisti anti-eroi e perdenti senza alcuna possibilità di vittoria, ben si presta ad essere esportato a diverse latitudini internazionali. Sono celebri i film noir francesi realizzati da Jean-Pierre Melville e il ciclo marsigliese scritto da Jean-Claude Izzo.

Anche il nostro paese ha la sua consolidata tradizione noir. Molti dei film cosiddetti “poliziotteschi” degli anni settanta sono ascrivibili al genere, a partire del celebre Milano Calibro 9 diretto da Ferdinando Di Leo, rivalutato dalla critica in anni recenti. Ispirato ad una serie di romanzi di Giorgio Scerbanenco, il film vede come protagonista Gastone Moschin nella parte di un criminale uscito di galera perseguitato dai suoi vecchi complici. La tradizione del noir all’italiana è stata portata avanti negli anni da una nutrita truppa di autori tra cui Massimo Carlotto, autore della serie di romanzi che hanno come protagonista “L’Alligatore” e di altri lavori di genere “nero” trasposti con successo sul grande schermo, come Arrivederci, amore ciao. Da qualche anno lo scrittore si è dedicato anche alla sceneggiatura di graphic novel, prestando i suoi testi alle matite di alcuni tra i migliori talenti del panorama italiano. Tra queste, la più recente è Ballata per un traditore, pubblicata da Feltrinelli Comics, di cui Carlotto ha scritto il soggetto, trasformato poi in sceneggiatura da Pasquale Ruju per i disegni di David Ferracci.

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La storia imbastita da Carlotto e Ruju propone gli stilemi tipici del noir e di quello all’italiana in particolare, ricordando tanto i romanzi dell’autore padovano quanto le pellicole crude di Di Leo, soprattutto per la nebbiosa atmosfera meneghina. Ci troviamo infatti a Milano dove, in una notte piovosa, il poliziotto in pensione Beppe Galli e l’informatore Nicola Bertini vengono freddati a colpi di pistola da un killer avvolto in un impermeabile. Le telecamere di sicurezza, che hanno registrato l’accaduto, non lasciano dubbi sull’identità dell’assassino: si tratta di Davide Valenti, vecchio collega di Galli, con il quale in passato aveva formato la punta di diamante della Squadra Anticrimine milanese agli ordini del Commissario  Angelo Lo Porto. Personaggio controverso, Lo Porto: poliziotto pluridecorato, ora in pensione, che quando era in attività agiva in realtà da garante di accordi tra le famiglie criminali milanesi e le istituzioni. Lo scopo non era solo quello di evitare spargimenti di sangue, come Lo Porto raccontava a se stesso per tacitare la coscienza. Il premio era una bella vita, condita da fiumi di denaro e prostitute, per se stesso e i suoi uomini. L’attività della squadra di Lo Porto era finita sotto l’occhio di ingrandimento della procura guidata dal magistrato Cosimo Santini, che per questo viene assassinato poco dopo. Stefania Rosati, duro ed affascinante commissario che ha preso il posto di Lo Porto, va a cercare il suo predecessore e gli chiede di aiutarlo a scoprire perché il suo vecchio sodale Valenti si è trasformato in un killer. L’indagine del vecchio poliziotto corrotto rischierà di far saltare vecchi equilibri consolidati, innescando una spirale di eventi che porterà inevitabilmente ad una violenta resa dei conti.

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Ballata per un traditore è un avvincente noir che immerge il lettore in una trama tanto coinvolgente da lasciare senza fiato, costellata da colpi di scena (clamoroso quello finale) che non anticipiamo per non rovinare il gusto della lettura. Come nella migliore tradizione del romanzo “nero” all’italiana (si pensi anche al Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo), Carlotto inserisce i tropi del noir classico in uno studio sociale del contesto a cui viene abbinato. Determinante, per lo svolgimento della trama, è l’analisi della corruzione della borghesia milanese. Istituzioni e professionisti, avvocati, commercialisti ed esponenti dell’alta società che sono la facciata rispettabile di un gotha sociale senza pudore, che non prova alcun imbarazzo nel venire a patti con la malavita per aumentare i propri privilegi. La sceneggiatura di Ruju dona alla storia un ritmo travolgente, che non lascia scampo al lettore, grazie anche ad una grande capacità di caratterizzare i personaggi e di delineare l’abisso morale nel quale sono precipitati.

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I disegni spigolosi di David Ferracci sono il necessario compendio artistico al lavoro di Carlotto e Ruju: lo storytelling serrato dell’artista conferisce alla vicenda un montaggio forsennato da poliziesco d’altri tempi (inutile dire che l’opera si presterebbe ad una trasposizione cinematografica), mentre il sapiente uso di neri e grigi (questi ultimi usati nei flashback) fotografano alla perfezione la crisi di valori etici e morali sui quali è imperniata la vicenda.

Ballata per un traditore è pubblicato da Feltrinelli Comics nella sua consolidata linea di brossurati da libreria, tra i quali si segnala sicuramente come una delle migliori opere proposte dall’editore negli ultimi mesi.

Daphne Byrne: La prescelta, recensione: gli incubi vittoriani firmati Marks e Jones

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Tra tutte le decisioni prese a seguito della ristrutturazione aziendale che ha coinvolto negli ultimi anni la DC Comics, sicuramente quella più controversa e dolorosa per i lettori è stata la chiusura dell’etichetta Vertigo. Diretta per quasi trent’anni da Karen Berger, la Vertigo ha avuto il merito di rinnovare profondamente il fumetto americano, pubblicando i lavori di esponenti della British Invasion come Neil Gaiman, Jamie Delano, Garth Ennis e Peter Milligan e facendo uscire il fumetto di qualità dai confini angusti della dimensione “indie” per proporlo ad un pubblico più ampio. Il testimone dell’indimenticabile linea editoriale è stato raccolto dall’etichetta Black Label, che propone al suo interno tanto nuove iterazioni delle collane storiche Vertigo come Hellblazer quanto proposte di tipo supereroistico dal taglio più autoriale rispetto alle testate regolari del DC Universe. Un mix interessante a cui mancava un ingrediente importante, il fumetto horror, che in DC vanta una tradizione significativa fin dai tempi di classici anni ’70 come House of Secrets e House of Mistery. A colmare la lacuna è arrivata la creazione di una sotto-etichetta della Black Label, la Hill House, coordinata da Joe Hill, figlio del leggendario Stephen King e creatore della serie di successo Locke & Key, ispiratrice dell’omonimo serial Netflix.

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La linea diretta dal figlio d’arte ha già dato alle stampe una serie di prodotti varia ed interessante, che va dallo slasher di Basketful of Heads all’horror gotico di Daphne Byrne, miniserie di sei numeri scritta dalla drammaturga ed autrice televisiva Laura Marks e disegnata da un rinomato illustratore di incubi come Kelley Jones. La Marks ha al suo attivo episodi di serie tv come The Exorcist e Ray Donovan oltre che premiate pieces teatrali, mentre Jones è un’istituzione del fumetto horror, erede del maestro Bernie Wrightson, celebre per le sua versione di personaggi DC classici come Deadman e Batman, di cui ha sottolineato gli aspetti più gotici. Non si poteva scegliere team creativo migliore per raccontare questa vicenda che affonda le sue radici nella tradizione delle novelle horror di epoca vittoriana.

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Ci troviamo nella New York di fine ‘800 e Daphne Byrne è un’adolescente introversa, segnata dal trauma della scomparsa del padre, a cui era molto legata. La ragazza ha un animo solitario e inquieto, ed è bersaglio delle prese in giro delle compagne di classe, da cui è costantemente derisa. Anche la situazione economica della famiglia non è delle migliori: il padre le ha lasciate piene di debiti e la madre non vede altra soluzione che quella di risposarsi. Le due donne vivono un rapporto conflittuale: la Sig.ra Byrne si rivolge ad una medium per tentare di contattare il marito defunto (il misticismo era molto in voga in quel periodo storico) ma Daphne è contraria e, senza successo, cerca di far capire alla madre che si sta facendo raggirare da una ciarlatana. In seguito ad una seduta spiritica a cui partecipa su insistenza della madre, Daphne comincia a sperimentare visioni orrorifiche ed angoscianti, oltre ad accorgersi della presenza di un ragazzo misterioso che sembra seguirla ovunque, e di cui avverte i pensieri nella sua mente. Da questo in momento in poi, la situazione di Daphne si complica ulteriormente, e realtà e sogno si intrecciano. Quello che i suoi occhi vedono esiste realmente? La vecchia medium ha risvegliato qualcosa di oscuro sopito dentro di lei? O si tratta di allucinazioni dovute al difficile periodo che sta attraversando, tra i cambiamenti – anche fisici – dovuti alla crescita e il dolore mai superato per la perdita del padre?

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Daphne Byrne è un raffinato racconto horror di formazione, pregevole sotto il profilo tanto della scrittura quanto del disegno. Laura Marks delinea un’eroina dall’interessante profilo psicologico, e la mette al centro di un metaforico percorso di crescita che la vede sbocciare come donna, tanto intellettualmente quanto fisicamente. Il senso di colpa dovuto ai primi richiami della sessualità che si manifesta sotto forma di incubi sono un classico di una certa letteratura di stampo vittoriano, come Il Giro di vite di Henry James, dove l’orrore è più suggerito che mostrato grazie ad un sapiente uso della suspense. Anche se in questo caso l’orrore mostrato non manca, grazie allo stile dark di Kelley Jones. Il veterano dell’horror a fumetti trova nello script della Marks del pane molto gradito per i suoi denti, che gli consente di sbizzarrirsi in quello che gli riesce meglio: atmosfere gotiche esaltate da campiture di nero e tratteggio, apparizioni sinistre, corpi deformati e mostruosi, location lugubri come cimiteri e vecchie cantine che sono solo una parte del ricco campionario di un maestro del genere soprannaturale ancora al top della forma. Le tavole di Jones sono il valore aggiunto dell’opera, e conferiscono prestigio alla già validissima sceneggiatura della Marks.

Daphne Byrne viene presentato da Panini Comics in un elegante cartonato, corredato da extra interessanti come le interviste agli autori e i bozzetti di Kelley Jones, che rende ancora più piacevole la lettura di un’opera in cui le suggestioni vittoriane di Henry James sembrano incontrare quelle di classici horror moderni come Rosemary’s Baby.

The Sheriff of Babylon, recensione: la consacrazione di Tom King e Mitch Gerads

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Prima di diventare lo sceneggiatore di titoli di successo come Batman, Mister Miracle e The Vision, Tom King è stato un agente della CIA. Sull’onda del lutto nazionale e della reazione emotiva seguita alla tragedia dell’undici settembre, King si arruolò nell’agenzia di intelligence per poter offrire il suo contributo. Terminò il suo addestramento proprio mentre gli Stati Uniti stavano per entrare in guerra contro l’Iraq. Partì per Baghdad, dove rimase per pochi mesi prima di fare ritorno a casa. Successivamente, continuò ad operare come agente dell’antiterrorismo sia in patria che in giro per il mondo, fino alla nascita di suo figlio. Come ha lui stesso raccontato, questo evento lo spinse a riconsiderare le sue priorità, realizzando ben presto che non poteva essere contemporaneamente un agente e un buon padre. Ripiegò così sulla scrittura, una sua vecchia passione, con i risultati che ben conosciamo.

L’esperienza alla CIA era stata, però, una tappa fondamentale del suo percorso professionale ed umano così quando la Vertigo, defunta ma indimenticata etichetta dedicata ad un pubblico maturo della DC Comics, gli chiese di scrivere una serie, King pensò subito ai mesi trascorsi a Baghdad. Non potendo adattare quanto vissuto personalmente per ovvi motivi di opportunità, lo scrittore optò per un thriller poliziesco, un genere che ben si presta a descrivere la complessità di un luogo fotografato in un momento storico dominato dall’ambiguità e in cui nulla è come sembra. Nacque così The Sheriff of Babylon, frutto della collaborazione tra King e il disegnatore Mitch Gerads, che Panini Comics ripropone ai lettori italiani dopo la prima edizione pubblicata anni fa dal precedente licenziatario.
“Murder mistery” che mutua i canoni di classici generi americani come il noir o il western ma calandoli in un contesto bellico, The Sheriff of Babylon racconta due mesi nella vita di tre personaggi lontanissimi tra loro come formazione ed esperienze, ma le cui esistenze si intrecceranno in modo indissolubile con uno stile narrativo che ricorda molto quello usato da Alejandro González Iñárritu in pellicole come Babel e 21 Grammi, miscelato ad atmosfere che sembrano uscite da Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow.

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Christopher Henry è un poliziotto americano, arruolatosi nell’esercito per addestrare i cadetti della nuova polizia della Baghdad liberata. Quando era in servizio in America, ha avuto l’occasione di arrestare uno dei terroristi dell’11 settembre facendoselo scappare. Ora è in Iraq per fare ammenda, addestrando il nuovo corpo di polizia. Sofia è una giovane donna irachena che vive in America da quando era bambina, salvo rientrare in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Il nonno è stato tra i fondatori del partito Baath, lo stesso del dittatore, ed è stato fatto ammazzare da Saddam quando quest’ultimo ha cominciato a percepirlo come una minaccia al suo potere. Sofia (o Saffiya, il suo nome iracheno che ricomincia ad usare una volta rientrata in patria) è una donna che porta cicatrici tanto nell’anima quanto nel fisico, che non scalfiscono però la sua forza e la sua determinazione. Essendosi costruita sapientemente rapporti tanto con l’intelligence statunitense quanto con esponenti politici locali, si candida ad un ruolo importante nel futuro del suo paese. Nassir, invece, è un ex poliziotto del servizio personale di Saddam. In questo ruolo ha commesso azioni di cui non va fiero. Ha perso le sue tre figlie durante l’attacco americano a Baghdad. Vive con la moglie Fatima e non si aspetta più nulla dal futuro. Un giorno, uno dei cadetti addestrati da Chris viene ritrovato morto ai confini della zona verde, il settore della città controllato dagli americani. È la miccia che innescherà una trama fitta di mistero, in cui nulla è come sembra, che finirà ben presto per coinvolgere anche Nassir e Saffiya.

The Sheriff of Babylon contiene, tanto dal punto di vista stilistico quanto dei contenuti, tutti i tratti caratteristici di un tipico lavoro di Tom King. Per quanto la trama possa apparire quanto di più distante dalle storie di supereroi per le quali lo scrittore è diventato celebre, in realtà ci sono tutti i topoi tipici delle opere di King. Prima di tutto, la difficoltosa analisi di una realtà troppo ambigua e complessa per poterla decifrare con strumenti canonici. La Baghdad mostrataci da King è un limbo inintelligibile, un pantano in cui è impossibile comprendere le reali motivazioni dei personaggi che la popolano. Militari, agenti segreti, politici, terroristi, sembrano pedine di uno schema che non sembrano comprendere appieno, e noi con loro. D’altronde, come potremmo? Dalle pagine emerge tutta la complessità della storia di un paese diviso tra un passato recente relativamente stabile, seppur sotto il giogo di un dittatore, e l’improvvisa libertà ritrovata grazie all’intervento bellico a stelle e strisce. Una situazione politica e sociale del tutto nuova, che stenta però a stabilizzarsi, lasciando il passo ad un caos causato da rese di conti spesso sanguinarie tra partiti e gruppi di potere ancora vivi e vegeti, sebbene appartenenti a un’epoca che non può tornare. Il sentimento dominante è quello di uno spaesamento collettivo, percettivo e sensoriale, che se nelle opere a tema supereroistico firmate dall’autore rappresentavano una metafora dell’esistente, qui diventa caratteristica precipua dell’esistente stesso. Sullo sfondo, la malinconia per un passato mitico, per un’età dell’oro persa ormai nella nebbia della storia che ha visto l’Iraq come la culla della civiltà. Nostalgia evocata a più riprese dalle due straordinarie figure femminili, Saffiya e Fatima, e ben rappresentata dalla sequenza onirica che apre il quarto capitolo, con la narrazione della favola della principessa Saffiya, omonima della protagonista. Di nuovo torna, nel lavoro di King, l’evocazione di un passato glorioso e mitologico a cui fa da contraltare un presente incerto, se non fatto di rovine come in questo caso. Un tratto tipico delle opere dello scrittore che ha caratterizzato i momenti più lirici di opere come The Vision, Mister Miracle e Strange Adventures, ma che qui ovviamente assume una gravitas differente.

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Sheriff of Babylon è un campionario dell’arte in cui King eccelle, ovvero la gestione dei tempi narrativi e dell’approfondimento psicologico grazie a dialoghi efficaci e misurati sulla sinergia con l’artista che lo accompagna. In questa occasione venne inaugurata una collaborazione che avrebbe segnato opere future dello scrittore, come le sopra menzionate Mister Miracle e Strange Adventures, quella col disegnatore Mitch Gerads. All’epoca Gerads veniva da un’ottima sequenza sul Punisher della Marvel, dove aveva dimostrato di sentirsi a suo agio con le atmosfere di genere militaresco, ma non aveva dato ancora sfogo alla sua raffinata abilità di storyteller. L’occasione propizia si presentò proprio con Sheriff of Babylon, dove scattò un feeling artistico immediato con King. Il fumetto è un'arte visiva, e il modo in cui un testo viene tradotto in immagini è decisivo per la riuscita dell’opera. In questo caso, non è esagerato dire che Sheriff of Babylon non sarebbe potuto esistere senza l’arte di Mitch Gerads. La celebre affermazione di Andrè Bazin sulla capacità del montaggio cinematografico di produrre significato trova piena conferma nelle tavole sapientemente organizzate dell’artista. Il formato preferito è quello della griglia a nove vignette, reso celebre da Watchmen, soprattutto nelle scene di dialogo. La scelta compositiva è quella di un’inquadratura fissa, con piccole varianti di postura da una vignetta all’altra che suggeriscono il movimento, evitando un’eccessiva immobilità. I dialoghi di King hanno così tempo di fare breccia nel lettore, e le immagini ne sottolineano il valore introspettivo e psicologico, concedendogli il giusto tempo di fruizione.

Gerads varia la composizione delle sue tavole pagina dopo pagina, a seconda delle richieste che vengono dallo script: alle nove vignette si sostituiscono così quattro o cinque strisce orizzontali in formato panoramico con elementi che si spostano da destra a sinistra a dare la sensazione del movimento, come nella scena dell’attentato a Saffiya. Le scelte compositive non sono rigide e convivono nella stessa pagina, laddove il “montaggio” lo richieda. Possiamo godere così di una raffinata selezione di elementi del découpage classico, tra montaggi alternati, campi e controcampi, arricchiti di elementi tipicamente fumettistici come onomatopee e le splash page. Quest’ultime però non sono usate gratuitamente ma vengono centellinate, e il loro utilizzo sottolinea momenti solenni ampiamente preparati nelle pagine precedenti.

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Significativa da parte di Gerads è anche la scelta del colore, vero e proprio “commento” visivo alla vicenda. Domina il giallo ocra, colore della terra, che rende bene un setting opprimente tanto a livello climatico quanto a quello psicologico, salvo lasciare il campo a tonalità di verde e azzurro nelle scene notturne, veri momenti di calma prima della tempesta, che assumono una dimensione quasi onirica.

The Sheriff of Babylon viene proposto da Panini Comics in una confezione di altissima qualità, un cartonato di grandi dimensioni che esalta lo straordinario lavoro di Tom King e Mitch Gerads, un lavoro che sfrutta appieno la ricca grammatica loro concessa del medium fumetto.

Sweet Tooth 1 - Fuori dalla foresta, recensione: il futuro apocalittico di Jeff Lemire

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Autore tra i più interessanti emersi nello scorso decennio, Jeff Lemire è stato quello che ha compiuto in maniera più disinvolta la transizione da artista “indie” a star del comicdom al servizio delle due major principali, Marvel e DC, di cui ha scritto alcune delle principali icone. Anche nei suoi lavori mainstream è spesso possibile rintracciare la sua voce più autentica, quella vena malinconica che animava lavori come Essex County, il suo esordio folgorante, o capolavori come Il Saldatore Subacqueo. Una nostalgia avvolgente per un’età dell’oro perduta, poco importa se sia mai stata effettivamente vissuta dai protagonisti e se si sia svolta solamente nelle loro speranze e nei loro desideri. Una sensibilità che accomuna tanto i supereroi “esiliati” di Black Hammer quanto i “losers” provinciali di Niente da perdere, personaggi che hanno il meglio del loro vissuto alle spalle. Non stupisce quindi che Lemire si sia cimentato anche con la fantascienza distopica con Sweet Tooth, il suo primo successo targato DC/Vertigo, oggi ristampato nella linea Black Label in occasione del debutto della omonima serie Netflix da esso tratta.

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Quando il primo numero esce nel 2009, gli Stati Uniti ed il mondo sono attraversati dalla crisi finanziaria dovuta al fallimento della Lehmann Brothers, mentre l’OMS dichiara pandemico il contagio dell’influenza suina H1N1. La certezza di un futuro sereno, patrimonio delle generazioni successive al periodo bellico, comincia seriamente a vacillare. Improvvisamente la distopia post-apocalittica appare nuovamente il genere capace di raccontare un domani carico di incertezze, invadendo i media. The Walking Dead, hit a sorpresa della Image Comics, ispirerà di li a breve una serie tv di grandissimo successo, che sarà il vessillo di questa rinnovata tendenza. La premessa di Sweet Tooth è simile a quella dell’opera di Robert Kirkman, ma con esiti diversi. Anche qui c’è un morbo che ha devastato l’umanità, che i sopravvissuti hanno ribattezzato “l’afflizione”. Una pandemia che ha ucciso milioni di persone, causando il collasso della civiltà. Sette anni dopo, il mondo è testimone della comparsa di una nuova razza ibrida, parte uomo e parte animale. Uno di questi bambini è Gus, dalle fattezze di cervo e dall’animo gentile, che vive recluso in un rifugio nei boschi del Nebraska con il padre. L’uomo ha costretto il figlio all’isolamento fin dalla nascita, vuoi perché gli ibridi sono cacciati per essere studiati in quanto immuni al contagio, vuoi per il timore di un mondo dove le leggi sono saltate e vige solamente quella del più forte.

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Un giorno Gus si sveglia e trova il padre morto nel suo letto. Il ragazzo cervo, orfano di madre già da tempo, ora è solo. Desideroso di scoprire cosa si nasconde al di là del bosco, viene sorpreso da un gruppo di cacciatori decisi a catturarlo: Gus sta per soccombere, quando viene salvato da un uomo misterioso, Jepperd, che gli promette di portarlo in un luogo in cui vivono altri ibridi, “la Riserva”, e dove potranno prendersi cura di lui. Comincia così un viaggio on the road attraverso una frontiera americana post – apocalittica piena di pericoli e di strani incontri, verso un colpo di scena finale non del tutto inaspettato ma comunque efficace.

A distanza di 12 anni dalla sua uscita, Sweet Tooth non ha perso nulla della sua forza, anzi risulta più attuale che mai a causa della tremenda prova a cui la reale emergenza pandemica ha sottoposto l’umanità intera. Troviamo mescolati in una sintesi efficace alcune delle tematiche più care all’autore e dei suoi stilemi più tipici: fantascienza distopica, racconto post – apocalittico (in molti hanno notato richiami tanto a L’Ombra dello Scorpione di Stephen King quanto a La Strada di Cormac McCarthy) ma anche romanzo di formazione in un contesto ostile, quell’America rurale già protagonista delle opere più riuscite dell’autore. Un ambiente apparentemente rassicurante che è invece lo scenario in cui si sfogano gli istinti più violenti dell’uomo, come tanta fiction dell’ultimo decennio ci ha insegnato, a partire da True Detective. Ma Sweet Tooth si legge su più livelli: è possibile riconoscervi uno degli stereotipi più caratteristici delle favole nella sequenza in cui Gus viene invitato da Jepperd ad uscire dal suo rifugio e a seguirlo grazie ad una barretta di cioccolato, che, come i dolciumi delle fiabe, lo ingolosisce e sembra promettergli un’avventura a lieto fine. Ma l’opera di Lemire può essere interpretata anche come una parabola ecologista, che ammonisce il lettore sullo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, o come semplice metafora della difficoltà di un’anima sensibile a vivere nella società di oggi.

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Sensibilità dimostrata da Lemire nella sua doppia veste di scrittore/disegnatore: i suoi testi, improntati ad un forte lirismo, sono accompagnati dalla sua usuale matita grezza, poco accattivante a prima vista, che caratterizza le sue opere indipendenti. Un tratto ruvido, graffiante, a volte appena abbozzato, che riesce tuttavia a trasmettere magistralmente tanto la tenerezza dei passaggi più intimisti quanto la crudezza di quelli più violenti. Le tavole sono spesso giocate su primi piani che danno risalto alle espressioni dei personaggi, trasmettendone con efficacia i sentimenti, soprattutto lo smarrimento di Gus di fronte ad un mondo che non comprende. La dimensione volutamente naif dello stile di Lemire non deve però tranne in inganno il lettore, perché l’autore canadese sciorina nel corso del volume tutte le sue notevoli doti di storyteller, grazie ad una composizione dinamica che alterna primi piani a splash-page e che esalta la sua abilità nel montaggio (si veda, a tal proposito, la concitata scena nella camera d’albergo nel penultimo episodio giocata sul montaggio alternato di zoom e primissimi piani, ottenuta dividendo la tavola in strisce orizzontali). Se i lavori concepiti da Lemire per il mercato indie sono quasi sempre in bianco e nero, Sweet Tooth può fregiarsi invece dei colori densi del veterano José Villarrubia, capaci di conferire spessore emotivo alle tavole dell’artista grazie ad una palette che spazia da colori caldi a freddi a seconda delle necessità dello script.

Panini Comics propone il primo arco narrativo di Sweet Tooth in un brossurato dall’ottimo rapporto qualità/prezzo, ideale per accompagnare la visione dell’omonima serie tv già disponibile su Netflix e per immergerci in un mondo che, seppur attraversato da suggestioni distopiche e post – apocalittiche, ci parla invero della dura realtà che ci circonda.

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