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Batman '89, recensione: ritorno nella Gotham City di Tim Burton e Anton Furst

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Il Batman del 1989 diretto da Tim Burton, frutto di una battaglia durata dieci anni combattuta dal produttore Michael Uslan per portare sul grande schermo una versione del Cavaliere Oscuro finalmente dark e coerente con le sue origini, si rivelò a sorpresa un successo straordinario, come ricorderanno le tante persone che all’epoca si misero in fila davanti ai botteghini del cinema per assistere alla proiezione di una pellicola attesa per anni. Primo esempio di cinecomic moderno, se si esclude il pioneristico Superman del ’78 firmato da Richard Donner, e precursore di una sinergia tra cinema e una strutturatissima strategia di marketing che, grazie all’iconico logo di Batman, travolse il mondo generando una “Batmania” di lunga durata.

Le dimensioni del trionfo del film furono tali che un sequel fu inevitabile. Per girarlo Burton, che era ormai un autore riconosciuto ed affermato grazie al successo di critica di un progetto personale come Edward Mani di Forbice, pretese il controllo creativo totale che non aveva avuto per il film del 1989. Batman Returns del 1992 è un film che, rispetto al prototipo, è fatto ad immagine e somiglianza del suo regista. Pellicola cupa e pessimista che riscosse un grande successo di critica ma che sconvolse una buona fetta di pubblico, come alcune associazioni dei genitori, vivaci e pittoresche realtà dello showbiz a stelle e strisce, e gli sponsor come McDonald’s, più interessato a produrre “happy meal” ispirati al film che alla qualità del film stesso. Così le strade tra Batman e Tim Burton si separarono e, con Batman Forever del 1995, le sorti cinematografiche del Crociato Incappucciato vennero affidate a Joel Schumacher.

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La curiosità di sapere come sarebbero andate le cose se il regista di Burbank fosse rimasto alle redini del franchise cinematografico del Pipistrello di Gotham City non ha mai abbandonato i fan delle prime due pellicole. A questo interrogativo risponde Batman ’89, miniserie scritta dallo sceneggiatore della prima pellicola di Burton, Sam Hamm, e illustrata da Joe Quinones, vero promotore dell’iniziativa. Nel 2016 alcune “concept art” realizzate da Quinones per un pitch riguardante un'eventuale serie denominata Batman ’89, scritta da Kate Leth e disegnata da lui, fecero capolino su internet e sui social. L’artista, grande fan della pellicola, sperava che la DC Comics, sull’onda del successo di un’ altra serie nostalgica come Batman ’66, desse il via libera al progetto ma così non fu. O almeno non subito. Lo scorso anno l’editore si è convinto a dare il semaforo verde alla serie sotto forma di mini di sei numeri, che arriva finalmente sugli scaffali delle fumetterie italiane grazie a Panini Comics.

Rispetto al pitch del 2016 il progetto ha acquistato ulteriore spessore, grazie al coinvolgimento di Sam Hamm che sostituisce la Leth ai testi. Non si tratta della prima volta in cui lo sceneggiatore si cimenta col mondo del fumetto: proprio nel 1989, per festeggiare i 600 numeri di Detective Comics, aveva scritto una importante saga in tre parti disegnata da Denys Cowan, Blind Justice, che aveva introdotto il personaggio di Henri Ducard, vecchio mentore di Bruce Wayne.

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Batman ’89 inizia dove Tim Burton ci aveva lasciato. È passato un anno dagli eventi di Batman – Il Ritorno e la città è di nuovo sotto attacco della criminalità. Bande di seguaci del Joker, defunto al termine del primo film, mettono a segno un colpo dopo l’altro tra cui un audace colpo ad un blindato porta valori sventato da Batman, ma non senza danni a cose e a persone. Il procuratore distrettuale Harvey Dent decide di prendere in mano la situazione, aiutato dalla fidanzata Barbara, figlia del Commissario Jim Gordon e poliziotta essa stessa col grado di sergente. Mosso non solo dal desiderio di servire la legge, ma anche da una discreta dose di ambizione personale, Dent si imbarca in una crociata anticrimine e anti-vigilante al tempo stesso, individuando nella figura di Batman un'inaccettabile anomalia di autoproclamato giustiziere. Per il Cavaliere Oscuro si prospetteranno tempi duri, non potendo più contare sul dimissionario Gordon, e dovrà affrontare Dent in una doppia veste: prima in quella di infaticabile servitore della legge e successivamente, come da copione, in quella criminale di Due Facce. Anche in Batman ’89, infatti, il destino del procuratore distrettuale è segnato, e un incidente lo sfigura orribilmente, minandone la salute mentale. Bruce, mai nei guai come in questo momento, potrà contare solo sull’aiuto del fidato Alfred e di Drake Winston, una ragazzo dei bassifondi esperto di motori che ha già iniziato in segreto una carriera di vigilante notturno. Una sentinella della notte che forse, in un altro universo, avremmo potuto chiamare Robin.

Batman ’89 non si limita a giocare su un ovvio elemento nostalgico. Hamm e Quinones, pur nella cornice fornita dal classico di Tim Burton, realizzano una storia perfettamente autonoma e fruibile anche da chi non ricorda ogni singola battuta del film. Lo scrittore si diverte ad introdurre elementi classici del fumetto (come Barbara Gordon, Robin o il ghetto di Burnside) nel contesto dell’universo della pellicola dell’89, adeguandoli al suo stile e al suo contesto. È un adattamento del materiale originale, secondo un’ottica che già all’epoca guardava più alla possibile resa sullo schermo che alla fedeltà pedissequa al materiale cartaceo, come nel caso dei cambiamenti apportati al personaggio di Robin o la scelta di Billy Dee Williams e Marlon Wayans, due attori afroamericani, per la parte di Harvey Dent e dello stesso Robin. Proprio la presenza di questo personaggio rappresenta forse la curiosità maggiore del volume. Sam Hamm aveva effettivamente previsto la presenza di Robin nel primo lungometraggio ma il personaggio venne tagliato per non appesantire una pellicola già molto lunga (i tempi delle maratone cinematografiche targate MCU erano ancora molto di là da venire).

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Si tentò di inserire Robin anche in Batman Returns, tre anni dopo, ma il personaggio venne nuovamente tagliato per gli stessi motivi, nonostante il giovane Wayans fosse stato già scritturato per il ruolo e avesse firmato un contratto per interpretare l’aiutate di Batman in più film. Cosa che non accadde mai, ma il contratto dell’attore venne onorato facendo si che Wayans ricevette il suo regolare compenso senza aver mai indossato il costume di Robin. Una mancanza a cui Batman ’89 rimedia, rendendo questo Robin alternativo il personaggio più interessante di tutta la miniserie. Hamm porta a conclusione l’arco narrativo dell’Harvey Dent di Billy Dee Williams e la sua trasformazione in Due Facce, sviluppo prevedibile che non aveva fatto in tempo a compiersi sul grande schermo, oltre a riportare in scena un personaggio indimenticabile come la Catwoman di Michelle Pfeiffer, il tutto reso dai disegni plastici di Joe Quinones. Il disegnatore fornisce la prova migliore della sua giovane carriera, dimostrando tutta la passione riversata nel progetto da lui tanto voluto. L’artista riesce a fondere l’iconografia ormai classica delle pellicole di Batman, dalle fattezze degli attori alle indimenticabili scenografie della Gotham cinematografica firmate dal compianto Anton Furst, con uno storytelling adrenalinico e moderno che non potrà fare a meno di avvincere il lettore. Perfettamente complementare ai disegni di Joe Quinones è la palette scelta dal colorista Leonardo Ito, dove domina quel colore viola che, oltre ad essere il colore chiave del film dell’89 e del Joker di Jack Nicholson, era anche la tonalità prevalente della classica movie adaptation colorata da Steve Oliff.

Nonostante siano tanti gli elementi che richiamano gli anni in cui uscirono il film e il suo seguito, come le reali rivolte nei ghetti che allora erano all’ordine del giorno e che vengono ricordate anche dagli autori nel corso della trama, Batman ’89 non è solo la rievocazione nostalgica di un tempo ormai perduto, è - soprattutto - un’ottima storia del Cavaliere Oscuro che merita di essere letta anche da chi non era ancora nato negli anni in cui Tim Burton dirigeva le sue indimenticabili bat-pellicole.

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Le prime pagine di Batman/Spawn #1

  • Pubblicato in News

Esce oggi in USA lo speciale Batman/Spawn #1, team-up di 48 pagine scritto da Todd McFarlane e disegnato da Greg Capullo in cui vedremo la società segreta de la Corte dei Gufi assoldare Spawn per uccidere il Cavaliere Oscuro.

L'albo vede i due personaggi insieme dopo 28 anni dall'ultima volta, ovvero da Batman/Spawn: War Devil del 1994, scritto da Doug Moench, Alan Grant e Chuck Dixon e illustrato da Klaus Johnson. Il loro primo incontro, invece, è avvenuto in Spawn/Batman, scritto da Frank Miller e illustrato da Todd McFarlane.

Di seguito potete leggere le prime tavole di Batman/Spawn #1.

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Lucifer 1 - Il Diavolo sulla soglia, recensione: il Demonio Ribelle di Mike Carey

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L’etichetta Vertigo, il marchio della DC Comics rivolto ad un pubblico più sofisticato e maturo di quello interessato solamente ai supereroi, ha lasciato una traccia indelebile nella storia del fumetto americano nonostante sia stata chiusa da qualche anno per scelta editoriale, venendo soppiantata dalla divisione Black Label.
Creata da Karen Berger, redattrice e figura fondamentale nella storia della DC Comics, la Vertigo è stata la casa degli esponenti principali della “British Invasion” come Neil Gaiman, Peter Milligan, Grant Morrison, Garth Ennis e, in generale, del fumetto di qualità.

Il grande successo di una serie come il Sandman di Gaiman portò al consolidamento dell’etichetta e all’arrivo di una successiva ondata di autori inglesi nella seconda metà degli anni ’90. Sceneggiatori come Mike Carey, proveniente dalla fucina britannica di 2000 A.D., che debuttò nel 1999 in DC/Vertigo con una miniserie di tre numeri (seguita da una serie regolare) dedicata a Lucifer, il diavolo androgino che era stato presentato proprio nei primissimi numeri di Sandman. Costretto a recarsi all’inferno per recuperare l’elmo facente parte dei suoi paramenti reali, Morfeo si era imbattuto in “Lucifer Morningstar”, immaginato da Gaiman e da Sam Kieth, autori della storia, con le fattezze di David Bowie, il “rebel” per eccellenza della cultura pop/rock britannica. Paradigma dell’autodeterminazione, Lucifero lascerà anche l’Inferno per seguire la propria strada. Che vuol dire, nel suo caso diventare il proprietario di un piano bar a Los Angeles. È in questa veste che lo ritroviamo all’inizio di Lucifer vol.1 – Il Diavolo sulla soglia, il primo di una serie di volumi brossurati con cui Panini Comics inizia la ristampa della serie culto dedicata a colui che era stato il più luminoso tra gli angeli, prima della sua caduta.

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Il volume è suddiviso in tre capitoli. Il primo corrisponde alla miniserie del 1999, in cui ritroviamo Lucifer alle prese con la sua nuova vita. Si è dimesso dall’inferno e gestisce un club a Los Angeles, situazione che ritroviamo anche nella serie tv che si ispira al fumetto solo superficialmente, senza mutuarne trame e spessore. Il Paradiso, nonostante gli antichi dissapori, lo contatta comunque per affidargli un incarico: rintracciare e fermare una pericolosa entità capace di realizzare qualsiasi desiderio concepito dagli esseri umani. Lo accompagnerà una giovane di origine indiana, Rachel, la cui vita è stata irrimediabilmente travolta da un desiderio esaudito e che scoprirà ben presto cosa voglia dire avere a che fare col Diavolo in persona. Il secondo capitolo coincide con l’inizio della serie regolare originale e vede Lucifer recarsi ad Amburgo e più precisamente nel quartiere di St. Pauli, culla del movimento punk tedesco, brulicante di vita, locali ma anche di naziskin e prostituzione. L’Astro del Mattino va alla ricerca di Meleos, un angelo che vive tra gli umani camuffandosi da libraio. Una vecchia conoscenza di Lucifer, esperto di divinazione e tarocchi. E il Diavolo vuole da Meleos proprio questo, una risposta su quali siano i piani del Paradiso e su cosa gli riservi il futuro. Nell’ultima storia del volume facciamo la conoscenza di Elaine Belloc, una bambina che ha la capacità di parlare con i defunti, che deve indagare sull’assassinio della sua amica Mona. L’incontro con Lucifer darà la svolta alla vicenda.

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Ponendosi sul solco tracciato da Neil Gaiman e dal suo Sandman, Mike Carey usa questi primi episodi per presentare i personaggi e gli elementi che costituiranno l’architrave del suo ciclo, un lavoro di worldbuilding efficace che ci trascina subito nel mood della serie. Come in molte storie a marchio Vertigo, entità ancestrali sostanzialmente indifferenti al destino degli uomini incrociano il cammino di un’umanità alla deriva. Un Inferno che gli uomini si costruiscono da soli e di cui Lucifero, ironicamente, non è responsabile, preso dal suo processo di emancipazione da un destino già tracciato. Un enigmatico osservatore delle miserie umane, che interviene solo quando il caos rischia di travolgere tutto e tutti. Carey delinea una figura misteriosa e insondabile, magnetica e carica di fascino ambiguo, che inizia qui il percorso di protagonista di una serie di settantaquattro numeri che sarà acclamata da pubblico e critica.

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Sul fronte grafico, si alternano tre artisti sinonimo di fumetto d’autore. Apre le danze Scott Hampton, che con i suoi acquarelli che trascina il lettore in atmosfere rarefatte ed evocative. Il segmento ambientato ad Amburgo, invece, si avvale delle matite di stampo realista dell’inglese Chris Weston, un nume tutelare della Vertigo di quegli anni che avremmo rivisto anche su alcuni numeri di Hellblazer e, soprattutto, su The Filth in coppia con Grant Morrison. Al contrario dei pennelli di Hampton, il tratto di Weston gioca su un nero molto marcato e amplificato dalle chine realizzate dello stesso autore in coppia con James Hodgkins, altro habitué dei fumetti Vertigo come il colorista Daniel Vozzo, che concorrono ad un risultato finale classico e di forte impatto. Il capitolo finale ci regala un altro cambio di registro, dovuto alla storia che Carey vuole raccontare, una vicenda di fantasmi per la quale il tratto stilizzato di Dean Ormston e Warren Pleece è perfetto nel trasmettere brividi e suggestioni.

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Superman / Batman: Generazioni, recensione: l'epopea generazionale di John Byrne

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John Byrne è stato un esponente chiave del rinascimento del fumetto americano nel corso dei fatidici anni ’80, uno dei primi autori ad assurgere al ruolo di vera e propria superstar seguita da legioni di fan pronti ad acquistare qualsiasi testata realizzata dall’autore anglo-canadese. Dalla fine agli anni ’70, con il leggendario ciclo di Uncanny X-Men in coppia con Chris Claremont, passando attraverso gli anni ’80 segnati dalla lunghissima run su Fantastic Four e dal rilancio di Superman fino al ritorno in Marvel tra la fine del decennio ed i primi anni ’90 con successi come Avengers West Coast, Sensational She-Hulk e Namor, Byrne inanella una serie infinita di successi di pubblico e critica trasformando in oro tutto ciò che tocca. Poi qualcosa, col cambio di decade, si inceppa. Il feeling col grande pubblico, che non si era praticamente mai interrotto fin quasi dal suo debutto, subisce un ridimensionamento improvviso.

Byrne può contare certamente su uno zoccolo duro di fan che lo segue ovunque, come nell’avventura di Next Men, realizzato fuori della “comfort zone” garantita da Marvel e DC, che esce per la Dark Horse nel 1991. Ma stanno cambiando i tempi e stanno cambiando i gusti. Nel 1992 nasce la Image Comics, fondata dai sette transfughi della Marvel capitanati da Todd McFarlane, Jim Lee e Rob Liefeld che in pochi anni, con collane che segnano record di vendite tutt’ora imbattuti come Spider-Man, X-Men e X-Force, hanno imposto uno stile grafico aggressivo e dirompente, seppur declinato dai tre in modo diverso, che straborda di azione spaccando letteralmente l’organizzazione classica della tavola. La “stile Image” contamina anche la produzione delle due major, oltre a provocare la nascita di etichette dal successo effimero determinate a cavalcare la moda del momento.

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Come contraltare a questo modo “tamarro” di fare fumetto, basato più sull’apparenza che sulla sostanza, si afferma negli stessi anni presso la DC Comics una produzione più letteraria, i cui alfieri sono i giovani autori inglesi della “British Invasion”, che sfocerà nella creazione della prestigiosa etichetta Vertigo. Ecco che in un “comicdom” che muta pelle nel giro di pochi anni, un autore come Byrne che ha sempre fatto del “back to the basics”, il ritorno alle origini, il suo motto, appare improvvisamente e ingiustamente datato. Mentre un autore coevo suo grande amico come Frank Miller trova un porto sicuro creando la saga noir di Sin City, che lo terrà occupato per tutti gli anni ’90, l’artista anglo-canadese si rifugia nella rivisitazione di un supereroismo di matrice classica, che sembra superato negli anni di maggior successo degli eroi steroidati e violenti targati Image.

In realtà opere come il lungo ciclo su Wonder Woman e Jack Kirby’s Fourth World, che lo tengono occupato negli anni che vanno dal 1995 al 1998, anticipano la tendenza che dominerà i comics di fine anni Novanta, ossia il ritorno in pompa magna del classicismo e la sua celebrazione come reazione alla lunga “sbornia” tamarra dovuta al successo dello stile “Image”. La summa del percorso controcorrente intrapreso da Byrne in questo controverso decennio è rappresentata da Superman/Batman: Generazioni, miniserie del 1999 che ha generato due sequel pubblicati rispettivamente nel 2001 e nel 2003, materiale che ora viene raccolto integralmente da Panini Comics in uno splendido omnibus.

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Per Batman e Superman, come per tutti gli eroi classici, gli anni ’90 sono stati un periodo terribilmente complicato. Saghe come La Morte di Superman o Knightfall, in cui un Cavaliere Oscuro reso invalido da Bane viene sostituito dal vigilante psicotico corazzato Azrael, rispondono al tentativo della DC di tenere al passo con nuovi tempi più oscuri le avventure delle sue due principali icone. Per la saga che ha in mente, Byrne deve avere mano libera rispetto al passato recente dei due personaggi: per questo sceglie di pubblicare Generazioni tra gli Elseworlds, la linea editoriale della DC Comics dedicate alle storie ambientate in mondi alternativi molto popolare all’epoca. La natura immaginaria della storia, dove per immaginaria si intende slegata dalla continuity ufficiale, consente all’autore di operare un "back to the basics" totale dei personaggi, tornando agli anni e all’atmosfera del loro debutto.

Byrne imbastisce una saga ambiziosissima che parte dal 1939, anno di debutto di Batman (Superman aveva esordito un anno prima), per poi svolgersi in tempo reale decennio dopo decennio. I personaggi quindi invecchiano, e l’Uomo d’Acciaio e il Crociato Incappucciato lasceranno progressivamente il campo ai loro eredi, anche se sorprenderanno il lettore con continui ed eterni ritorni di cui non sveliamo nulla per non rovinare il gusto un’eventuale lettura. La miccia di questa saga complessa e dal plot intrecciato si accende con l’incontro tra Superman e Batman a Gotham City alla fine degli anni ’30, dove dovranno superare la reciproca diffidenza e collaborare per debellare la minaccia di Ultra-Humanite. Nascerà un’amicizia che attraverserà i decenni e, nelle due serie successive, anche i secoli.

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Senza perdere tempo in un inutile riassunto di una trama molto articolata e complessa, diremo che la narrazione di Generazioni procede con salti di decade in decade, in modo che ciascun capitolo rappresenti l’omaggio di Byrne ad una particolare epoca della storia dei due personaggi e quindi del fumetto. Così dalla Golden Age di Jerry Siegel & Joe Shuster e Bill Finger & Bob Kane si passa alla Silver Age con le sue atmosfere fantascientifiche per poi arrivare alla Bronze Age con atmosfere nuovamente più cupe dagli anni ’70 in poi, capitolo in cui l’artista omaggia, tra gli altri, il grande Neal Adams, maestro che è stato il più grande punto di riferimento per il Byrne disegnatore. D’obbligo, ovviamente, una parte ambientata negli anni ’80, decennio che ha rappresentato il momento di maggior splendore nella carriera dell’autore, con un nuovo Batman particolarmente tetro che rimanda agli umori fumettistici di quegli anni. Da li in poi Byrne si proietta nel futuro, con l’entrata in scena di nuovi personaggi che vanno ad unirsi a quelli già presentati nei precedenti capitoli, e che vanno a comporre una vera e propria epopea dedicata alle dinastie Kent e Wayne.

Se Generazioni II ha il compito  sostanziale di riempire i buchi di trama lasciati in sospeso dalla prima miniserie, Generazioni III (inedita finora in Italia) è invece la tranche più ambiziosa del lotto, a partire dalle dimensioni. Una maxiserie in 12 episodi che racconta del piano di invasione della Terra, da parte degli accoliti di Darkseid, che si snoda attraverso i secoli. Un piano machiavellico e complesso costruito dal Signore di Apokolips attraverso viaggi nel tempo e quei paradossi temporali che da sempre sono un leitmotiv della produzione di Byrne, vedi alla voce Next Men.

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Superman/Batman: Generazioni non è stilisticamente uniforme, e corrisponde ad almeno due fasi diverse della carriera di John Byrne come disegnatore. Le prime due parti vedono all’opera il suo tipico stile di anni ’90, lontano dalla pulizia che le chine di collaboratori storici come Terry Austin conferivano al suo tratto negli anni ’80. È un segno più grezzo, meno attento agli sfondi ma più concentrato sulle figure che restano potenti e capaci di rubare l’occhio come ai vecchi tempi. Generazioni III vede Byrne alle prese con una sintesi del suo stile ancora più marcata. Il tratto è più grossolano, ma le tavole restano comunque di grande impatto e capaci di trasmettere tutta l’emozione che un fumetto di supereroi dovrebbe saper trasmettere. Sono pagine, quelle di questo splendido omnibus, che riporteranno il lettore della generazione cresciuta con Byrne alle origini della propria fascinazione per i comics. La ragione sta nella capacità dell’autore di cogliere l’essenza del genere, cioè il gusto per l’avventura di stampo classico che ha saputo declinare lungo il corso della sua straordinaria carriera. Avventura accompagnata come sempre da matite eleganti e potenti, che lo hanno reso un beniamino per generazioni di fan. Aggiungiamo però che, per apprezzare appieno Generazioni, è necessario recuperare la fascinazione per la meraviglia che ci caratterizzava come lettori da ragazzi. Essere disposti a farci avvolgere e cullare da un sense of wonder ormai perduto e di cui queste pagine sono piene.

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