40 anni di Lupo Alberto: intervista a Bruno Cannucciari
- Scritto da Andrea Fiamma
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Romano, classe 1964, Bruno Cannucciari fa il musicista. Ma sopratutto fa il mestiere - nel più sincero dei sensi, come dice lui - dei fumetti. Esordisce giovane, arrivando nei primi posti del celebre concorso per fumetti di Prato, collabora con Comic Art e Italia oggi, per poi incontrare nella sua strada Lupo Alberto. Da allora i due non si sono più lasciati, superando la gavetta, le critiche e qualche scappatella - Cannucciari ha recentemente prestato le sue chine alla serie Panini Nirvana.
In occasione del quarantennale del personaggio, l'autore ha raccontato a Comicus i propri esordi, il passato e il futuro del suo lavoro. E quella volta che si spacciò per Hugo Pratt.
Partiamo dall’inizio. Com’è che ti sei ritrovato a fare il fumettista?
È, molto banalmente, quello che avrei voluto fare fin da piccolo. È una questione di imprinting. Se a 8/10 anni, in casa, hai la possibilità di leggere contemporaneamente Topolino e Valentina di Crepax, Peanuts e Silver Surfer, Lupo Alberto e Corto Maltese e Toppi e Doonesbury assimili universi diversissimi tra loro e soprattutto ti convinci che i fumetti NON SONO una minchiata per bambini come senti in giro. Analogamente, se a 12/13 anni ascolti abitualmente De Andrè, Area, Gaber difficilmente ti convinceranno che Sanremo e Canzonissima sono LA MUSICA. Quando, negli anni del liceo artistico, ho iniziato a realizzare lavori “tecnicamente decenti” era il tempo delle riviste contenitore tipo Metal Hurlant, Orient Express, Alter Alter e io stravedevo per Pazienza, ai miei occhi il più figo di tutti perché A) aveva sdoganato i pennarelli e B) utilizzava stili diversi nella stessa tavola: la quadratura del cerchio! Con questi lavori liceali approdai alla Comic Art di Traini che vide, apprezzò e mi mise a restaurare fumetti d’epoca (ovviamente diversissimi tra loro). Una gran bella palestra. E di lì a un paio d’anni pubblicai sul primo numero della rivista Comic Art la mia prima storia. Nella quale, manco a dirlo, convivevano stili diversi.
Come avviene il tuo incontro con Silver e la sua creatura?
Pubblicavo un mio personaggio, Winny, sulle pagine del Corriere del Pollaio (l’inserto redazionale del mensile di Lupo Alberto). Silver a quel tempo – fine anni ’80 – cercava collaboratori da affiancare a Giac. Colsi al volo l’occasione, anche perché il Lupo lo conoscevo bene, fin dalla prima striscia; e mi era sempre piaciuto perché lo trovavo assolutamente competitivo con le strisce americane che leggevo: possedeva una sua specifica “italianità” senza essere provinciale, pidocchiale.
Disegnai una sua storia natalizia pensando, nel mentre, di aver colto “l’intima essenza del suo codice segnico”. A pubblicazione avvenuta mi accorsi di quanto facesse schifo: avevo colto solo la buccia (per la polpa ci sarebbero volute un’altra decina di storie). Ma Silver, magnanimo, apprezzò, e di questo – lo dico sempre – non lo ringrazierò mai abbastanza. E di un’altra cosa lo ringrazio: nei rapporti interpersonali non ha mai frapposto la sua fama. Professionalmente lo considero tuttora il mio maestro, ma ci siamo sempre relazionati alla pari.
Con le tavole autoconclusive dai sfogo a una voce che è inconfondibilmente tua, con testi quasi ipertrofici. All’inizio, invece, eri molto più vicino al modello. Come sei riuscito a imporre il tuo stile all’interno dell’universo dei McKenzie?
È avvenuto tutto in modo molto naturale. Del resto, Silver pone pochissimi paletti: quello che gli proponi non deve snaturare i suoi personaggi, non deve contenere volgarità gratuite, elementi offensivi o razzisti. E soprattutto lo deve far ridere.
Nelle tavole autoconclusive volevo – e voglio – dedicarmi ai personaggi “minori”, cercare strade laterali, allontanarmi dai tormentoni (magari poi finisco per crearne altri), utilizzare l’espediente di fantomatici parenti/amici/vicini per raccontare storie a carattere sociale che i personaggi della McKenzie, per natura o per ruolo, non possono vivere. Allargare il campo, insomma, magari utilizzando la formula del racconto breve. Fermi restando i paletti di cui sopra, ovviamente. Tutto questo presuppone un linguaggio e una costruzione leggermente diversa, e spesso più parole (in poco spazio!). E qui voglio dire una cosa rispetto ai “testi ipertrofici”. A me piace moltissimo scrivere i dialoghi, mi piace una recitazione nevrotica, affabulatoria, mi piace il “dialogo brillante” (quando scrivo immagino, come nei film di Woody Allen, uno swing o un be-bop di sottofondo). Che poi mi riesca bene è un altro paio di maniche, ma insomma questo è l’intento. E ammetto, in certi periodi, di aver esagerato. Se questo è avvenuto è perché mi identificavo completamente in quel che facevo. Ero ciò che facevo. Esistevo nel perimetro della tavola, non nella vita reale. Questo è un grosso guaio, e non dovrebbe capitare mai. Nessuno è, o dovrebbe essere, solo ciò che fa. Magari verrai ricordato, ma avrai pochissimo da ricordare. Ora, grazie al cielo e a chi so io, vivo molto di più (e sono molto meno ipertrofico); posso guardare il mio mestiere con sano distacco, considerarlo per quello che è: un mestiere, nel senso più nobile del termine.
Oltre a occuparti dei disegni per il merchandising, a metà degli anni novanta hai preso parte alle realizzazione della serie tv del Lupo, disegnando i modelli per gli animatori - coadiuvato poi da Michelon. Che esperienza è stata?
È stata un’esperienza esaltante! Al di là degli esiti (la seconda serie è sicuramente più pimpante e dinamica della prima). Amo il lavoro di squadra, e non solo perché si sommano creatività diverse: è perché bisogna essere precisi, non lasciare nulla al caso, avere rispetto assoluto per chi viene prima e dopo di te. Disegnare i modelli è stata una grande responsabilità: devi far capire a disegnatori sconosciuti – che normalmente animano tutt’altro -come “funziona” un personaggio, e prima di tutto lo devi capire tu. Devi dimenticare la bidimensionalità, devi immaginarlo nelle angolazioni e posizioni più assurde. Attraverso gli inspiration sketch devi spiegare cosa è Lupo Alberto e cosa non lo è. Suggerire un sapore. È stato bellissimo vedere la versione animata di storie che avevo scritto e disegnato. E’ stato meraviglioso sostituire di tanto in tanto Silver nelle sessioni di doppiaggio e capire in quanti modi si può porgere una battuta, ascoltare Lella Costa, Francesco Salvi e tutti gli altri mattacchioni che tiravano fuori le voci più improbabili. È stata una gran fatica, di quelle belle che rifaresti un anno sì e uno no.
Tra le tante attività extra-lupesche va per forza citato il tuo lavoro a metà degli anni ottanta su Comic Art, in collaborazione con Franco Fossati (brevi affondi sull’allora 20esima edizione di Lucca, il rapporto tra fumetti e pubblicità). Come sei arrivato a pubblicare sulla testata di Traini?
Come dicevo all’inizio, alla Comic Art ero di casa. Facevo di tutto: restauri, pellicole, impaginazioni, grafica, lettering, maschere-colore, disegni per pubblicità, caricature, qualche firma tarocca di Hugo Pratt (quando si dimenticava di firmare Gesuita Joe). Pubblicare fumetti su quelle pagine è stato “naturale”. Devo ringraziare Traini per un mucchio di cose: una è sicuramente l’avermi portato a Lucca da pischellissimo, permettendomi così di frequentare per giorni e giorni un luogo mitico e autori strepitosi; un’altra è, appunto, avermi fatto conoscere Franco Fossati. Persona splendida, finissimo umorista, gran conoscitore del mondo del fumetto e dei suoi retroscena. Mi ci son fatto grasse risate. Ho abitato un anno e mezzo a casa sua, ai tempi di Italia Oggi; le storie per Comic Art sono nate lì, da conversazioni serali davanti a una busta di salame (eravamo entrambi totalmente all’oscuro di qualunque nozione di cucina). E anche un paio di episodi di Winny.
Anche le vignette satiriche apparse su Italia oggi costituiscono una delle esperienze più consistenti della tua carriera. È un tipo di umorismo diverso, che qualcuno ha recuperato, ma secondo te non rischia di diluirsi in un umorismo più generico, a maglia larghe?
Del mio lavoro su Italia Oggi preferisco ricordare le illustrazioni piuttosto che le vignette satiriche. Era un giornale timorosissimo, come parametro satirico aveva Forattini (che a me faceva ribrezzo), erano gli anni di Craxi e De Mita – poco prima che pernacchie e monetine li seppellissero. E poi ero molto giovane, e secondo me per fare della buona satira bisogna avere qualche annetto sulle spalle, inchiodare i propri bersagli ad atti e parole dimenticati dai più, collezionare le loro nefandezze. Leggere un lancio d’agenzia e commentarlo con una frase a effetto finisce per essere molto spesso un puro esercizio di stile; un’attitudine da copywriter, da titolista dell’Espresso (con tutto il rispetto per queste categorie umane). Non so, a me la satira politica comunemente intesa ora fa un po’ tristezza. Salvo Altan e pochissime altre cose sparse. L’umorismo satirico, invece, mi piace molto, anche se sconfina nell’umorismo più generico. E’ più umano, meno didascalico ma non necessariamente meno feroce.
Recentemente hai anche prestato servizio come inchiostratore alla serie Nirvana. Come è nata la collaborazione?
Avevo conosciuto i Paguri qualche anno fa, e ci eravamo piaciuti; ci riconoscevamo una certa “lateralità” rispetto al giro del fumetto italiano. Panini gli aveva chiesto una seconda stagione di Nirvana, Daniele era pieno fin qui di impegni bonelliani ma non voleva rinunciare a questa opportunità e, d’accordo con Emiliano, mi ha chiesto se volevo occuparmi delle chine. Ho accettato volentieri perché Nirvana mi piace MOLTO, lo considero un prodotto intelligente e di grande qualità che meriterebbe un ben più vasto seguito. Ho fatto delle prove, decidendo da subito che di mio ci avrei messo l’esperienza e non lo stile. E credo siano andate bene proprio per questo. Io penso che le “matite” siano una partitura. La musica SCRITTA. Ci sono direttori d’orchestra, o arrangiatori, molto ego riferiti che hanno bisogno di marcare l’interpretazione fino (spesso) a stravolgerla; ce ne sono altri, come me, che si preoccupano di tirar fuori al meglio tutto ciò che la partitura dice o suggerisce. Non me ne faccio un vanto: è una modalità. Uso una metafora musicale perché, suonando, mi è capitato spesso di lavorare su brani composti da altri, e mi sono comportato nello stesso modo.
Nirvana è stato anche un gran bell’impegno: 276 tavole in un anno non sono uno scherzo, soprattutto se non sei strutturalmente capace di “tirar via”. Ma è stata una sfida interessante: sei nella condizione di non poterti gingillare su particolari infinitesimi, vai al sodo, badi al ritmo. E ogni tanto ti concedi qualche colpo di teatro, qualche bella tavola potente che galvanizza te prima ancora che il lettore. Replicheremo il prossimo anno, con una terza stagione!
In una tua intervista del 2006 hai parlato di una “Una lenta e progressiva disaffezione del pubblico” rispetto a un panorama fumettistico omogeneizzato. Rimani dello stesso parere? Come vedi adesso il settore?
A giudicare dai fiumi di carne umana che ho guadato nelle ultime due edizioni di Lucca e al Comicon di Napoli, sono costretto a ricredermi. Oddio, il panorama fumettistico è ancora largamente omogeneizzato, ma qui e là si trovano sempre dei capolavori assoluti, come unastoria di Gipi o Povere nullità di Baru e Pierre Pélot. C’è moltissima fuffa ben confezionata, ma pure fenomeni come Zerocalcare o degnissime graphic novel che travalicano il perimetro del fumetto e diventano altro. Una dilatazione di campo, insomma. Che fa ben sperare. Non conosco dati di vendita di nessun fumetto, e me ne interesso anche poco, fondamentalmente perché non credo sia il parametro in base al quale giudicarne la bontà. Mi limito a cogliere una certa bella vitalità, che di questi tempi vaghissimi e di nulle certezze è quasi una bestemmia.