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Joker, recensione: Fare arte finché qualcuno muore

L’ambizione autoriale che si muove dietro a Joker, il film diretto da Todd Phillips vincitore del Leone d’Oro a Venezia, è evidente fin dai titoli di testa, dove il logo della Warner Bros., casa produttrice, non è quello attuale ma il corrispettivo usato negli anni ’70. Il legame che Phillips vuole creare con quel periodo, l’ultimo veramente innovativo del cinema americano, è evidente e dichiarato fin dal concepimento del progetto.

Nel 2016 il regista propone alla Warner una origin story sul principe pagliaccio del crimine, scollegata dal resto delle pellicole dell’universo condiviso DC che peraltro, dopo il flop di critica di Batman V Superman e il disastro creativo e commerciale di Justice League, sta subendo un ripensamento. Messo da parte per il momento il progetto di rincorrere i Marvel Studios sul loro consolidato e remunerativo terreno, la dirigenza dà il semaforo verde a Phillips. L’aspirazione del regista è quella di allontanarsi dai cinecomics che vanno per la maggiore, e di realizzare un dramma urbano sulla triste storia di un comico fallito, afflitto da un disturbo neurologico che gli procura un disagio psichico, che vive ai margini di una metropoli disumana dei giorni nostri, sporca ed opprimente, rifiutato e respinto da una società crudele verso gli ultimi. Il progetto acquista prestigio quando viene coinvolto come produttore Martin Scorsese, che dovrà però ben presto abbandonare in favore di progetti personali, vedi The Irishman di prossima uscita. Lo spirito guida del regista italoamericano però rimane anche in sua assenza, e Joker è prima di tutto un omaggio alla sua cinematografia, con chiari riferimenti a Taxi Driver, e, soprattutto, Re per una notte, seppur tragga ispirazione da tutto il giovane cinema americano di rottura degli anni ’70, vedi i Francis Ford Coppola, Paul Schrader e Brian De Palma, quest’ultimo omaggiato in una scena in cui la pellicola, del tutto desaturata da elementi pop, si aggancia in modo inaspettato e sorprendente al mito batmaniano. Il collegamento spirituale all’opera di Scorsese è simboleggiato dalla presenza di Robert DeNiro, protagonista tanto di Taxi Driver quanto di Re per una notte, in cui interpretava un altro aspirante comico fallito a cui l’Arthur Fleck interpretato da Joaquin Phoenix si rifà esplicitamente.

Tra le tante polemiche suscitate dal film ancora prima della sua uscita c’era la paura che la pellicola potesse essere indulgente nei confronti del suo protagonista che, al netto dei traumi subiti, resta comunque un assassino. Qui forse c’è l’unica pecca del film di Phillips: i Travis Bickle e i Rupert Pupkin della coppia DeNiro/Scorsese vengono presentati con tutte le loro ossessioni senza giustificazioni ed alibi, proprio per evitare un transfer d’identificazione nello spettatore. L’Artur di Phoenix, invece, fin dai primi minuti attraversa un calvario degno de La Passione di Cristo che in qualche modo potrebbe giustificarne le azioni. Phillips è abile nel disinnescare la costruzione di un messaggio moralmente ambiguo attribuendo la responsabilità dell’esplosione della violenza fin li covata da Artur alla pistola inopinatamente procuratagli da un collega. Il terreno viene quindi spostato su un argomento di dibattito da sempre molto caldo negli USA dove, invece di pretendere una seria regolamentazione del possesso delle armi, si è pensato di assoldare un servizio d’ordine armato in alcune catene delle sale cinematografiche dove Joker verrà programmato. Anche l’accusa di fomentare la rivolta sociale armata cade nel vuoto, perché il film mostra chiaramente come ogni rivoluzione scaturita dall’odio e dalla rabbia e non strutturata nei contenuti è destinata a risolversi in caos e disordine fine a se stesso.

Altra accusa rivolta preventivamente al film, questa volta dal popolo di internet e dei social, era quella di una scarsa attinenza col materiale di provenienza. Niente di più sbagliato: la forza dei personaggi dell’universo di Batman, creati da Bob Kane e Bill Finger, è sempre stato quello di parlare ad un pubblico ampio e a varie fasce di età. Joker è un personaggio che può vivere tanto in una serie animata quanto in una pellicola V.M.14 come questa che è, a tutti gli effetti, la versione per lo schermo di un graphic novel per un pubblico adulto, come quelle che la DC pubblicava fino a pochi anni fa nell’etichetta Vertigo e oggi propone con il bollino Black Label. A voler essere pignoli, si potrebbe solo contestare l’insistenza nel voler fornire una genesi precisa ad un personaggio che ha sempre fatto del suo essere un agente naturale del caos e delle sue origini avvolte nel mistero la sua forza e il suo fascino, per quanto un brillante twist di sceneggiatura, determinante per la trasformazione del personaggio, rimescoli parecchio le carte.

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Ma quanto detto finora non rende giustizia alla carica rivoluzionaria di cui Joker è portatore non solo nel sottogenere cinecomics, ma nell’intero panorama dell’attuale cinema a stelle strisce. In un momento storico in cui gli studios si fanno la guerra per il possesso di remunerativi franchise e mettono in listino solo reboot, remake e sequel di saghe sfruttate fino allo sfinimento, mentre un maestro come Scorsese deve rivolgersi a Netflix per produrre non un piccolo film intimista, ma un appetibile gangster movie con due mostri sacri come DeNiro e Al Pacino, il film di Todd Phillips compie il miracolo di mettere la performance di uno straordinario attore e una messa in scena evocativa al centro di un prodotto mainstream. Sorprende la cifra stilistica raggiunta dal regista di Una Notte da Leoni. Prima di Joker, la scena cult della sua filmografia era quella della frittella in Roadtrip, e chi ricorda quel film becero ma divertente sa di cosa parliamo. Scherzi a parte, Phillips ha saputo trasferire la carica eversiva del cinema demenziale dei suoi inizi in un film drammatico, raggiungendo una dimensione autoriale importante, sia formale che di contenuti. Un filmaker che non ha paura di battere la lingua dove il dente duole, vedi il discorso sulle armi a cui facevamo riferimento. Ma non solo: con Joker, propone uno specchio non deformato, ma tristemente veritiero, della società americana del momento. Un riflesso in cui l’opinione pubblica americana ha avuto paura di specchiarsi, come dimostra l’accoglienza nervosa riservata al film in patria. Un’America che taglia i servizi sociali, emargina e abbandona gli ultimi, confinati a sottoproletariato urbano, ed elegge miliardari che hanno costruito ricchezze e imperi sottraendo risorse ai più poveri. Interessante in questo senso è il ribaltamento di prospettiva del classico canone batmaniano dove Thomas Wayne abbandona il ruolo di “vittima” e  diventa l’emblema di questa borghesia snob e arricchita. Scenario di questo disastro sociale è una Gotham City in preda allo squallore e al degrado, a cui presta il volto una New York decadente catturata dalla fotografia livida di Lawrence Sher. Significativa la scelta di girare nella Grande Mela, che nelle intenzioni originali di Kane e Finger, era il modello scelto per Gotham.

Ci sarebbe poi da parlare della colonna sonora, delle scelte perfette nella selezione dei brani, come la struggente Smile di Charlie Chaplin nell’indimenticabile versione di Jimmy Durante, ma ci troviamo di fronte ad un’opera che fornisce innumerevoli spunti di riflessione che un solo articolo non può contenere. Chiudiamo quindi parlando dell’anima del film, un monumentale Joaquin Phoenix alle prese con uno di quei ruoli che definiscono una carriera. Un Phoenix dimagrito di 25 kg che soffre, ride, ma con una risata che nasconde un drammatico disturbo neurologico, si contorce e prende botte, tante, in una prova di recitazione patibolare che scuote e commuove. Qui siamo di fronte ad un attore che non interpreta un personaggio, lo diventa. Il migliore attualmente in circolazione, considerando l’ennesimo ritiro dalle scene di Daniel Day-Lewis e l’inaffidabilità di una ex promessa che ha dissipato molto del suo talento come Edward Norton. Se quelli dell’Academy non si faranno prendere dalla tentazione, come accaduto spesso in passato, di scelte provocatoriamente originali, l’Oscar per la migliore interpretazione è già suo.

Uscito da pochi giorni, Joker ha già suscitato forti consensi e feroci polemiche, ma le implicazioni delle sua irruzione in un mercato cinematografico dominato da logiche commerciali di produzioni in serie devono essere ancora comprese appieno. Si tratta di un film che spariglia le carte, scardina le certezze di una scena cinematografica americana attuale paludata, conservatrice e conformista, appiattita sulla logica del profitto. Al contrario, questo è cinema che nasce da un’esigenza artistica, nobilitato da un titano della recitazione. Come direbbe il vecchio Joker di Jack Nicholson: qui si fa arte, finché qualcuno muore.

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