MARVELIT

 

PRESENT:

 

Uomo Ragno

#60

 

 

Sin after sin – 1

Wash my sins away…pt I

 

Di Yuri N. A. Lucia

 

 

Si divincolò in un istante dalla morsa del colosso. Non conoscendone l’esatta forza aveva rischiato non poco nel farsi prendere in quel modo ma, vista la stazza e la forza del suo avversario, aveva deciso di correre il rischio, confidando nel suo senso di ragno, e aveva portato lo scontro sul corpo a corpo, onde evitare altri danni ai passanti. Quello rimase stupito nel rendersi conto che stava abbracciando l’aria, quando un secondo prima pensava di essere prossimo allo stritolare uno dei vigilants più conosciuti di tutta New York City: l’Uomo Ragno.

 

 

Queens, N.Y.C. -  Lunedì ore 3.50

 

Stava per terminare il suo giro di ronda notturno, al quale non aveva voluto rinunciare dopo che aveva scoperto quanto accaduto in sua assenza. Si era sentito stordito, travolto da un fiume di eventi che faticava non poco a comprendere.

Capiva benissimo perché non avevano voluto dirgli nulla subito. Doveva ancora riprendersi dalle fatiche di un viaggio che aveva lasciato molti segni nel suo animo ma in un certo senso, anche se si ripeteva a torto, si sentiva tradito.

Anche se dettato dall’amore e dall’affetto, un tradimento rimaneva sempre tale e nulla poteva cambiare questo fatto.

Dal momento in cui, dopo aver ricevuto i suoi poteri, aveva perso lo zio Ben a causa di una sua noncuranza, si era ripromesso solennemente di non trascurare mai i propri doveri. Mai.

Era suo dovere pattugliare la zona. Era suo dovere proteggere la gente. Era suo dovere cercare di capire cosa stava accadendo esattamente in una New York che in sua assenza sembrava anziché essersi ripresa dal dramma dello Scorpione, ulteriormente inabissata in una fosca follia apparentemente senza fondo.

Pochi minuti e sarebbe tornato a casa per prepararsi e tornare finalmente ai laboratori, all’E.S.U., desideroso di regolare i conti con il suo cosiddetto collega  dopo aver saputo da Mary Jane quanto Ilya le aveva riferito.

Certo, Malakov aveva giocato sporco, però i suoi comportamenti erano realmente stati ambigui, almeno agli occhi di un osservatore esterno. Si meravigliò invece della lealtà e della fiducia dimostratagli da Glass, un uomo che gli era stato indecifrabile da quando era approdato al laboratorio

Doveva mettere ordine anche nella sua vita, questo lo sapeva bene, così come sapeva che le critiche mossegli non erano del tutto infondate: stava trascurando troppo il suo lavoro e questo non doveva accadere; una carriera come ricercatore e scienziato era sempre stato il suo grande sogno. Si poteva essere utili all’umanità in molti modi e contribuire al progresso non era una cosa da poco.

Lo speciale super conduttore a cui stava lavorando avrebbe potuto rivoluzionare non poco la tecnologia e non lo pensava solo per una questione d’orgoglio.

Se Peggy Le Mons era divenuta famosa per aver stabilito il peso delle nuvole, chissà cosa sarebbe successo a lui. Sempre se fosse riuscito a terminare le proprie ricerche. La sua nuova formula permetteva di produrre un dielettrico come non se ne erano mai visti prima e questo avrebbe permesso, ad esempio, la costruzione di propulsori che sfruttavano l’effetto di Brown-Biefeld molto più efficienti di quelli costruiti negli anni ’60. Il volo elettrogravitazionale a buon mercato e non più appannaggio solo di sordidi individui come l’Avvoltoio.

Invece i suoi propositi, almeno momentaneamente, erano stati accantonati nel momento in cui s’avvide che qualcuno stava assaltando un portavalori.

 

Ultimamente in crimini commessi nelle zone periferiche stavano aumentando esponenzialmente. Questo sia perché la concentrazione di vigilantes solitamente era superiore nelle zone centrali, sia perché si stava adottando la pericolosa politica di far passare carichi particolari lungo vie ritenute erroneamente sicure. Il sistema aveva funzionato bene i primi tempi ma poi si era rivelato inutile nel momenti in cui la voce si era sparsa nel mondo del malaffare.

Il furgone era rovesciato su di un fianco, come se fosse stata una qualche bestia di metallo ferita da un predatore. Una scena simile l’aveva vista solo il venerdì passato. Per ridurlo così dovevano aver usato un missile. Avrebbe voluto l’ opportunità di capire da dove era venuto il colpo ma in quel momento non aveva tempo doveva occuparsi dell’energumeno che stava cercando di divellere le porte anteriori del blindato.

Alcune persone erano imprudentemente uscite dalle proprie abitazioni, spaventate dal fragore e, si disse, probabilmente desiderose di dare soccorso, convinti forse si trattasse di un qualche incidente. La presenza di civili rendeva sempre le cose molto più difficili e quando uno di quelli gridò: “Ehi! L’Uomo Ragno!”; il vantaggio della sorpresa fu definitivamente perso. Non poteva attaccare da posizioni elevate trovandosi in una zona di bassi edifici. Lo stile aereo era un’opzione che andava scartata per forza di cose. Attaccarlo da diversi punti? Era una tattica che funzionava spesso grazie alla sua velocità e alla sua coordinazione ma c’era il rischio che l’altro potesse divenire pericoloso per i presenti. Decise perciò per il corpo a corpo.

Si lasciò prendere, un trucco per indurre falsa sicurezza nell’avversario. Di fatto non si lasciava veramente catturare perché sgusciava via un istante prima che potessero effettivamente stringerlo in modo tale da intrappolarlo. I suoi legamenti e le ossa più elastiche gli permettevano questo piccolo trucco per il quale, più che un ragno, pareva un’anguilla. Peter Parker si disse che sarebbe stato un escapista eccezionale con le sue doti, il degno erede di Harry Houdini.

Le ultime tre nocche del suo pugno premettero con tutto il peso del suo corpo in quel quadratino di pelle e carne che stava sotto il naso e il labbro superiore. Distese leggermente il braccio e quello fu sbalzato via dalla sua posizione, volando una quarantina di metri al di fuori del ferro di cavallo che avevano formato gli spaventati ma incuriositi spettatori.

La massiccia figura si alzò barcollando. Aveva previsto che potesse succedere. Qualcuno che stava forzando a mani nude le porte di un furgone trasporta valori non doveva essere un tipo ordinario. Analizzò in pochi secondi la sagoma, il modo di muoversi e quasi subitaneamente ebbe l’intuizione: Marko l’Uomo Montagna! Sapeva non trattarsi dell’originale ma di qualcuno che aveva subito un trattamento molto simile. Quei muscoli ipertrofici in modo grottesco e alcune peculiarità della pelle e dei lineamenti del viso, effetti collaterali dei super steroidi che erano il componente principale del processo di potenziamento, risultavano inconfondibili. Grande forza fisica, non corrispondente per forza di cose all’agilità. Un corpo del genere non era propriamente sciolto. Quando si aveva spalle eccessivamente larghe o braccia troppo grosse, menare pugni rapidamente o muoversi velocemente risultava molto difficile. Per essere veramente pericoloso, un individuo del genere doveva avere il tempo di poter usare la propria forza, altrimenti diveniva un grosso punching ball, ovvero quello in cui si accingeva a trasformarlo l’Uomo Ragno.

 

 

 

Un polveroso sentiero di campagna, da qualche parte nello stato di New York -  Lunedì ore 6.30 a.m.

 

 

Leon Kavanagh si produsse in un sonoro sbadiglio, pentendosene poco dopo. Lanciò un’imbarazzata occhiata con la coda dell’occhio alla Milles che lo contraccambiò con un sorriso sbarazzino. Doveva ammettere che nonostante tutto gli piaceva quella ragazza dai modi così informali e decisi. Non era una che si lasciasse mettere sotto facilmente e questo lo apprezzava molto, specie nelle donne. La strada era stretta e intorno a loro c’erano solo boschi e collinette. La contea distava quattro chilometri, e in quel tratto di strada a quell’ora non passava nessuno. Pareva un luogo perduto nelle pieghe di un tempo ormai passato, un anacronismo che non sarebbe dovuto nemmeno esistere.

“A cosa sta pensando?”

La voce di Daphne l’aveva fatto cadere dai propri pensieri e si ritrovò a rispondere imbarazzato per essersi fatto sorprendere trasognato come un adolescente:

“Stavo riconsiderando la faccenda di Raabe.” Non era del tutto falso. Da giorni ormai rimuginava su ciò che considerava un grave e personale fallimento. Non in quel momento però. Delle volte, lo sapeva bene, una mezza verità era molto più efficace di una bugia quando si voleva dissimulare i propri reali pensieri.

“È ancora convinto che si trovi nel Paese?”

“Si. È la scelta più logica, quella che farei anche io. Non aveva il tempo materiale per uscirne, non senza correre rischi. Inoltre, l’avremmo cercato ovunque e prima o poi l’avremmo trovato. Vuole farci correre in tondo, farci stancare e confondere le idee. Quando sarà il momento prenderà il largo ma fino ad allora si terrà nei nostri paraggi, il luogo più difficile dove riuscire a trovarlo.”

“Dice?”

“L’ombra è sempre più fitta alla base della candela.”

Daphne scoppiò in una fragorosa e altrettanto deliziosa risata che provocò in Leon un certo compiaciuto piacere che non mancò di sorprenderlo. Lei sembrava molto giovane, troppo per lui. Del resto non era mai stato un uomo particolarmente piacente, né fortunato con le donne e la situazione non aveva dato segnali di essere prossima al cambiamento di recente. Si limitò a fare spallucce mentre lei si affrettò a dire: “Non ridevo certo per offenderla, non mi fraintenda. E solo che la frase che ha usato suona così…”

“Antiquata?” Suggerì lui senza risentimento.

“Più o meno. Comunque ho capito il senso di quello che voleva dire.  Quando la verità è sotto gli occhi, diveniamo miopi.”

Stavolta fu Kavanagh a ridere e commentò: “Ora è lei ad essere un po’ antiquata.”;

la Dodge Viper percorreva pacatamente la polverosa via, fin quando questa non cominciò a costeggiare un piccolo fiume e il cielo non fu coperto da lunghi e folti rami.

“Anche io ne conosco di espressioni desuete. Cosa crede? Ecco, ora eventuali satelliti spia non possono vederci. Buffo come milioni di dollari spesi nella tecnologia della sorveglianza orbitale possano essere vanificati da dei comuni alberi.”

“Il più potente dei Golia nati dalla scienza, dovrà sempre avere timore anche del più umile tra i David della natura.” Detto ciò Leon premette prima il pulsante che fece chiudere automaticamente entrambi i finestrini e poi un comando inserito dietro il volante.

La macchina deviò dolcemente dal suo percorso, scendendo lungo il pendio erboso e si immerse nelle gelide acque del fiume.

 

Percorsero quasi  due chilometri protetti dal manto d’acqua, passando con il ventre della macchina-minisottomarino a pochi centimetri dalle rocce lisciate dalla corrente nel corso di innumerevoli secoli, fino a sboccare in un ampio lago.

“Vuole una sigaretta?” Chiese educatamente Leon.

“Qui al chiuso?”

“Dentro la base le sarà difficile fumare con il Dr. Toninev. Ha intrapreso una sua personale crociata contro il tabacco. Credo sia un modo per distrarsi dalla frustrazione derivata dal furto subito e dalla perdita del vecchio laboratorio.”

“Allora la ringrazio ma declino ugualmente l’offerta. Scommetto che manca anche a lei la vecchia base.”

“Mi ero affezionato, non lo nego, dopo tanti anni è impossibile che non accada ma con il lavoro che faccio sono abituato all’idea di spostarmi e di perdere ciò che amo, perciò me ne sono fatto subito una ragione. Per il professore è diverso. Lui ha investito tutta la sua vita nel Progetto e quel luogo era il suo tempio della scienza, dove ha conseguito fallimenti e successi. È sicura che l’agente che ha convocato sarà in grado di occuparsi di Raabe?”

“Certamente è uno dei nostri membri più competenti e preparati.”

“Non sottovaluti quell’uomo e la sua squadra. Sono professionisti addestrati anche a trattare con elementi dotati di facoltà para umane e mutanti.”

“Non li sottovaluto, stia tranquillo. Del resto sarà lei a seguire la missione.”

Alcuni pesci fuggirono spaventati dalla massa che improvvisamente aveva fatto irruzione nel loro piccolo e tranquillo mondo e, di lontano, la osservarono preoccupati dirigersi verso un’insenatura.

 

Il fascio di infrarossi trasmise il codice d’ingresso alla sala controlli da dove uno degli addetti alla sicurezza aprì il portello blindato che separava la base dal lago e lasciò entrare il veicolo nel  bacino artificiale interno.

Leon Kavanagh e Daphne Milles uscirono lentamente dal veicolo, esibendo con tranquillità i propri documenti elettronici ai guardiani che li tenevano sotto il tiro delle proprie armi. I lettori laser permisero alla sicurezza di sincerarsi dell’identità dei due che subito dopo, vennero invitato ad accedere alla struttura ed allentarsi pure dalla banchina dove si trovavano.

Il lavoro compiuto dai tecnici aveva del miracoloso, anche se Leon era convinto che Toninev fosse stato l’elemento determinante nella velocità con cui era stato allestito il nuovo quartier generale.

“Dov’è il professore?” Chiese Daphne.

“Si aspettava forse che ci sarebbe venuto ad accogliere di persona? In questi giorni è quasi sempre ai laboratori o nei suoi appartamenti a meditare. Sa che da quando siamo qui non è mai uscito? Nemmeno una volta.”

“Nemmeno una?”

“No. Ormai è concentrato sul suo lavoro con un fanatismo che ha del religioso. Anche prima era uno che non si risparmiava di certo ma adesso il suo fervore ha raggiunto il parossismo.  Credo sia anche per via dei suoi superiori. Gli stanno con il fiato sul collo ormai.”

“Lo capisco benissimo, mi creda.” Disse con una punta d’amarezza mentre ripensava all’ultimo colloquio avuto alla sede centrale del P.H.A.D.E. con Velasquez Collman, il suo diretto superiore. Sapeva di non essergli mai piaciuta e che non gli erano mai piaciuti neanche i suoi metodi nel trattare con i paraumani.

Ormai, dopo il mezzo disastro accaduto in Europa, anche gli altri del Consiglio Direttivo cominciavano a condividere l’opinione di quel disgustoso individuo.

Daphne tornò a concentrarsi sulla realtà quando videro in lontananza Faunt, il braccio destro di Toninev venirgli incontro.

 

Empire State University, Centro ricerche, sezione dei Dipartimenti di Chimica, Chimica Organica, C.T.F. e Farmaceutica. – Lunedì ore 8.30 a.m.

 

 

Non ricordava di aver provato tanta soddisfazione dall’ultima volta in cui aveva incollato le grosse natiche di Rhino all’asfalto. Tentò di trattenere la risata che prepotente voleva uscirgli dalla bocca. La vista di quell’energumeno che si dimenava disperato per terra aveva una sua crudele comicità che soddisfaceva quella parte sadica del suo carattere. Era una piccola parte a dire il vero ma anche lei doveva ogni tanto essere accontentata.

Rimise il cartellino nel portafogli, lanciò un’occhiata compiaciuta al web-clock e si incamminò lungo i corridoi del Centro Ricerche.

 

Non solo non era arrivato in ritardo ma era giunto persino con un certo anticipo, e senza usare le tele ma la metro, come qualsiasi comune mortale residente a New York City. Aveva avuto persino il tempo di fare conversazione al bar davanti ad un caffè, che dall’esperienza italiana trovava imbevibile alla maniera americana, con alcuni suoi colleghi che fino a quel momento conosceva solo di vista. Curare meglio le sue relazioni sociali era qualcosa che aveva tra i primi posti delle 100 cose da fare per migliorare la qualità della vita di Peter Parker, scienziato e futuro dottore.

Superò la porta a vetri che divideva il corridoio dalla sezione in cui lavorava ed entrò nuovamente in quel caotico tempio della ricerca.

Chi immaginava ambienti asettici e fantascientifici avrebbe avuto una gran delusione nel verificare quanto realtà e aspettative divergessero.

Il bianco dei muri era smunto e sporcato da segni indecifrabili, persino qualche impronta di scarpa. Le porte erano ricoperte da avvisi e pezzi di scotch, mentre ovunque c’erano tavolini e raccoglitori da parete carichi di documenti e moduli la cui natura gli era sempre sfuggita. C’erano armadi di tutte le misure con alambicchi e provette. Passò, evitando un frettoloso ricercatore che pareva impegnato in qualche speculazione di cosmica importanza, sotto una delle docce d’emergenza disseminate ad intervalli regolari lungo il percorso. Scatoloni, unità frigorifero, porte blindate alla sua destra e quelle degli uffici dall’altra parte, contenitori sulle cui etichette campeggiavano spesso anche complesse formule chimiche. Nessuna finestra, solo il ronzio incessante dei condizionatori.

“Casa.” Mormorò ironico sotto la malinconica luce dei neon.

“Signor Parker!”

Si bloccò, voltandosi con una certa cautela e allora la vide: Ilya.

 

Sembrava piuttosto trafelata.

“Ho… si bloccò nel tentativo di trarre un respiro rischiato di fare davvero tardi oggi. Il tratto di metropolitana che prendo è ancora in riparazione dopo quanto accaduto nelle passate settimane. Io… volevo… salutarla. Sempre che non…”

Era improvvisamente imbarazzata. La contentezza nel vederlo nuovamente l’aveva sopraffatta e non aveva pensato che magari lui potesse non essere altrettanto felice nel vederla nuovamente.

Lui le pose le mani sulle braccia, stringendole con una certa tenerezza e sorridendo le rispose:

“Sbaglio, o una volta ci davamo del tu?”

Lei sentì che il peso che le aveva gravato sul ventre tutto quel tempo pareva improvvisamente dissiparsi.

“Si. Scusami è solo che pensavo che qui…”

“Qui è la stessa cosa. Gli amici sono sempre amici.”

“Peter… volevo chiederti scusa per…”

“Non devi chiedermi scusa di nulla. Anzi, mia moglie mi ha raccontato tutto quanto. Devo ringraziarti. So che per te questa conversazione non deve essere semplice e credimi, nemmeno per me. Posso solo dirti che ho capito una cosa: sei una persona davvero speciale e sono convinto che noi due si possa essere buoni amici; tu che ne dici?”

“Dico che è un idea eccellente!” Affermò soddisfatta.

 

Peter aprì la porta del suo ufficio con una certa trepidazione. Sulla porta c’era ancora il foglio con il simbolo delle radiazioni e sotto la scritta: Pericolo… ma non troppo!; era stato Emil Sisko, il suo vicino di stanza ad attaccarglielo. Emil gli piaceva. Era una persona estremamente cordiale e spiritosa. Gli ricordava molto Hank McCoy degli X Men, l’unico altro dell’ambiente con cui pensava seriamente di avere una perfetta affinità dal punto di vista del senso dell’umorismo. C’era un fantastico odore di chiuso dentro e si chiese se le donne delle pulizie ci fossero mai passate dal giorno della sua partenza.

Fece il suo trionfale ingresso e dopo aver alzato la serranda, si lasciò cadere sulla propria sedia girevole, concedendosi il vezzo di allungare i piedi sulla scrivania e gettare la rituale occhiata al basso controsoffitto sopra il suo capo.

Dopo qualche secondo, durante il quale gustò quei momenti, accese il suo PC, desideroso solo di mettersi al lavoro. Alfa – Alfa lo salutò con il suo sguardo imbambolato e la bocca semi aperta come sempre da quando Emil gli aveva passato quel jpg.

“Non gli assomiglio affatto.” Disse a mezza voce mentre cercava di ravvisare quella similitudine tra i loro lineamenti che invece il collega giurava con sincera convinzione esistere.

 Prima dette uno sguardo veloce alla posta elettronica per verificare che non ci fossero mail di servizio importanti e poi, dopo parecchio tempo, aprì la cartella riservata in cui c’erano gran parte dei suoi appunti, sincerandosi che per caso qualche spiritosone nel frattempo non avesse cercato di entrarvi.

Gettò un veloce sguardo all’orologio in basso a destra e si chiese quando Rucker l’avrebbe chiamato per aggiornarlo su Leonard.

“Appena so qualcosa di preciso, ti faccio uno squillo.” Sospirò e si chiese come se la stesse passando il ragazzo in quel momento. Era così giovane e ne aveva passate talmente tante. Aggrottò un istante le sopraciglia e poi la sua bocca si sciolse in un sorriso. L’icona della posta aveva segnalato una nuova mail in entrata e quando ne lesse l’intestazione ebbe una piacevole sorpresa: era di Romeo;

Ciao Peter! Come va? Tutto bene nella Grande Mela?

Qui nell’Urbe per eccellenza tutto procede bene.

Ormai ci siamo. Presto, molto presto, saprò se potrò realizzare il mio sogno di venire a studiare negli States. Mi sento percorso da un gioioso brivido se solo ci penso! Grazie per aver risposto al mio sms l’altro giorno. Non volevo disturbarti, non dopo quello che hai passato. Quando ho sentito al telegiornale la notizia del dirottamento mi è preso un colpo ma per fortuna si è risolto tutto nel migliore dei modi. Sai che ti hanno chiamato eroe per il coraggio che hai dimostrato? Hanno proprio ragione! Per adesso ti lascio, domani o dopodomani massimo ti mando una mail più corposa e con qualche sorpresa allegata. Ancora auguri per il tuo rientro e tanti saluti anche alla tua famiglia.

 

P.S.: Salutami il nostro comune amico, digli che mi manca già parecchio e che ho fatto tesoro dei suoi consigli. Lo saluta anche l’altro nostro amico romano.

Ha detto di dirgli che per essere uno yankee è uno in gamba!

 

Ciao!

Peter si stiracchiò qualche secondo e pensò che nonostante tutto la giornata era davvero iniziata bene.

Non voleva lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni, né da tutto quanto era accaduto in sua assenza.

Quella mail l’aveva ulteriormente rinfrancato e decise che quando Rucker l’avesse contattato avrebbe chiesto un incontro pomeridiano per discutere dei nuovi vigilantes che avevano fatto il loro drammatico debutto sulla scena di New York.

Scrisse alcune righe in risposta all’amico, ripromettendosi di essere anche lui più esaustivo in una prossima mail e poi tornò ad esaminare i suoi documenti.

Era talmente immerso nel riconsiderare formule e legami molecolari che non si accorse inizialmente che stavano bussando alla sua porta.

“Avanti!” Si affrettò a dire costernato dalla sua distrazione. Poteva avvertire un proiettile sparatogli contro ma era talmente distratto da rimediare continuamente brutte figure con gli altri.

“Buon giorno. Chiedo scusa per l’ora e per la visita improvvisa.”

Peter rimase per qualche secondo interdetto, cercando di capire chi avesse di fronte. Inizialmente il volto leggermente slavato e dagli zigomi bassi non gli disse nulla. Successivamente si sentì piuttosto stupito nel constatare di aver di fronte Kaj Klaist.

 

 

Queens, sede della Serenity – Sabato (due giorni prima di quanto sino ad ora narrato), ore 2.51 a.m.

 

“Hey, amico! Che cosa significa questa storia, eh? Cosa significa?! Leggo questo stramaledetto volantino che dice: Venite da noi quando non sapete dove andare. Le nostre porte sono sempre aperte. Giorno e notte. 24 ore su 24. Avrete un posto dove dormire, del cibo e un aiuto.

C’è sempre qualcuno pronto ad ascoltarti.

Ecco che cosa diceva lo stramaledetto volantino. Ora mi vieni a fare dei problemi?!”

La sua voce leggermente roca e il tono monocorde uniti all’aspetto trasandato e all’espressione affatto aggressiva mal disponevano il ragazzo di turno alla reception a quell’ora. Lanciò una rapida occhiata agli abiti di lei: se li doveva essere procurati in qualche parrocchia a giudicare da come erano male assortiti; erano lisi e anche piuttosto sporchi e dall’odore intuiva che dovesse aver dormito tra i rifiuti per diverse sere.

“Ascoltami, non c’è bisogno di fare tutto questo baccano. Non ho detto che non siamo disposti ad ospitarti per questa notte. Ti ho solo fatto qualche semplice domanda.”

“Qualche semplice domanda il c!£(o!!! Mi hai chiesto se mi buco, se pippo colla o fumo spinelli! Mi hai chiesto se sono incinta, se sono sieropositiva e se mi prostituisco per vivere! Secondo te? Come credi che racimoli quella miseria che mi aiuta a tirare avanti?! Faccio i po”9!(i ai camionisti all’imbocco della statale vicino al porto e qualche volta me lo mettono anche al c”(o! Soddisfatto? Vuoi vedere come me lo hanno ridotto per bene?!”

“No, no!” Esclamò lui senza nascondere il suo fastidio.

“Allora, posso entrare a dormire o cosa? Non è che fai tutte queste storie perché vuoi che te lo succhi un po’?” Chiese lei con un sorriso carico di volgare malizia.

“Nemmeno per sogno!” Protestò lui.

“Allora dammi il mio posto per dormire! Quello dove vado di solito stasera è pieno di fottuti mutanti che se ne sono venuti dalla Riverside Zone*. Fottuti scherzi della natura! Non potevano rimanersene nella fogna dove stanno di solito? No! Dovevano proprio venire a rompere i c”)£/”i a me!”

“Va bene, va bene. Ho capito l’antifona. Non preoccuparti, di spazio ce ne è ancora molto. Entra pure e dirigiti alla scala C. Sali e vai dal ragazzo che sorveglia il corridoio. Digli che ti serve un posto dove dormire e al resto penserà lui.”

Lei sorrise soddisfatta e ancheggiando in modo volutamente provocante e sguaiato entrò nella sede della Serenity sotto lo sguardo carico di disprezzo di lui.

 

“Incredibile!” Esclamò Phantom Rider.

“Puoi dirlo forte! Gli fece eco l’Uomo Rana che riprese il binocolo. Dotty doveva fare l’attrice! Se non avessi saputo che era lei avrei creduto anche io trattarsi di una senza tetto. Per fortuna quando ci siamo accorti che il posto era bene sorvegliato lei ha tirato fuori il suo piano B. Hai visto come si è truccata il viso? A me ha fatto un’impressione incredibile.”

“Lo sai che non mi piace come si comporta nei nostri confronti ma devo ammettere che ci sa davvero fare. Inoltre riserva sempre mille sorprese. Anche maga del travestimento…” Disse non senza una punta di invidia.

“Speriamo che il resto vada come deve. Ha detto che in meno di un’ora sarebbe sicuramente riuscita a crearci una finestra sicura per entrare senza essere scoperti. Ci tocca rimanere qui ed incrociare le dita amico mio.”

 

Lui li continuava ad osservare ad una certa distanza, sempre più ammirato per l’intraprendenza di quei ragazzi. Doveva ammetterlo, a guardarli non gli avrebbe dato nemmeno un cent ed invece avevano grinta ed inventiva da vendere. Erano tutte doti che ammirava molto ma temeva che fossero seriamente compromessi e che ormai non fossero più salvabili. Forse erano troppo contaminati dalle porcherie che gli avevano inculcato i genitori e peggio ancora i cosiddetti eroi. Essi stessi aspiravano a divenire tali. Non li odiava ma provava solo una forte e sincera pena nei loro confronti: quando si vede il mondo in bianco e nero è sempre un trauma scoprire il grigio e rendersi conto che forse si è sbagliato tutto; per il momento avrebbe continuato a seguirli e decise che magari un contatto non sarebbe stato necessario. Se gli avessero permesso di entrare all’interno della Serenity e di prendere quello che cercava, poteva evitare di averci direttamente a che fare, evitando così fastidiose spiegazioni e forse, uno scontro che di sicuro ora non desiderava.

 

Dorothy si infilò con grande nonchalance in un corridoio laterale, assicurandosi che non vi fossero telecamere a sorvegliarlo, e dopo di ché dirigendosi la dove sapeva avrebbe trovato una delle finestre da cui avevano cercato di entrare. Per fortuna Eugene aveva buon occhio e si era quasi subito reso conto del sistema d’allarme ad essa collegato. Dovette ammettere con sé stessa che non era così sprovveduto come poteva apparire. Certo, era un po’ goffo ed impacciato, ma sapeva il fatto suo su diversi argomenti e anche Phantom Rider, nonostante tutto, se la cavava piuttosto bene.

“Ma che diavolo stai pensando?” Si rimproverò severamente. Se si era unita a quei due era per tenerli d’occhio ed impedire che si facessero male sul serio e non certo per dare veramente vita ad un gruppo tanto disgraziato come quello che parevano sognare loro. Eppure c’era qualcosa nel loro modo di parlare e di fare. Sicuramente, ne era convinta, non era per moda o per attirare l’attenzione che si erano imbarcati in quell’avventura. Inoltre doveva concederglielo: Eugene aveva pur sempre scoperto la sua identità dandole la dimostrazione che era meno furba di quanto credesse e lui meno ingenuo di quello che aveva sempre pensato; si chinò, arrotolandosi i laceri calzoni sino al ginocchio e staccò lentamente il nastro adesivo che le assicurava la piccola cassetta degli attrezzi alla gamba.

“Cacchio… quasi peggio della ceretta… ma chi diavolo me lo ha fatto fare?” Pensò con risentimento e poi estrasse ordinatamente il piccolo apparecchio elettronico, i due cacciaviti magnetici e la pinzetta preparandosi a fare quanto l’Uomo Rana le aveva spiegato poco prima. Non poteva sbagliare o tutta quella pantomima all’ingresso non solo non sarebbe servita a niente ma si sarebbe rivelata anche pericolosa. Si trovava pur sempre da sola nella tana del leone e senza il suo armamento. Pensò con un certo fastidio che si sentiva “nuda” senza la sua “pelle” da Blue Bird  e si disse che stava passando troppo tempo con quegli spostati. Se Blue Bird era nata era solo per impedire a quei nerd frustrati e con manie di protagonismo che frequentavano lo Strange Palace di farsi male sul serio. Serrò un istante i denti mentre svitava da una scatolina infissa nel telaio della finestra le viti. Ripensò per un istante a quel giorno in cui il suo cuore si fermò e in cui si sentì morire.

“Mai più.” Questo aveva giurato a sé stessa. “Mai più”. Eppure ora le pareva di infrangere quel giuramento nel collaborare, anche se per il loro bene, con quei ragazzi.

Non era il momento né di recriminarsi, né di ripensamenti visto quello che c’era in gioco: la sua incolumità;  armeggiò con i fili seguendo a memoria le istruzioni di Eugene, pregando di non fare errori.

 

 

Norfolk, Virginia, U.S.A. – Lunedì ore 9.32 a.m.

 

 

La cameriera servì con grande cortesia la colazione mentre osservava attraverso le grandi vetrate il monumento ai caduti dell’incendio del 1776: “In ricordo delle barbarie dei nostri tirannici ex dominatori”; recitava minacciosa un un’iscrizione che campeggiava su di una bronzea targa. Sorrise per l’ironia di quella frase e al pensiero della faccia che avrebbe fatto chi l’aveva commissionato se avesse saputo che poi la propria amata patria e l’odiato nemico inglese sarebbero divenuti inseparabili alleati.

Prese il bicchiere davanti a sé e mandò giù un po’ di succo d’arancia. Storse leggermente la bocca. Era troppo agro per i suoi gusti.

“Allora signore, mi faccia capire, la Miles non sa nulla di questa mia piccola deviazione. Dico bene?”

C’era una insinuante ironia nelle sue parole. I padroni che per tanto tempo l’avevano tenuto al guinzaglio ora sembravano molto meno uniti tra loro. Doveva essere successo qualcosa, ne era sicuro.

“Dice bene. Ammise senza troppi problemi l’altro, un uomo sulla cinquantina, stempiato, grandi occhi scuri leggermente infossati e mai incontrato prima di allora. Per amor di puntualità lei è stato convocato qui dal diretto superiore della signora Miles.”

“Per anni è stata lei il mio punto di riferimento con l’agenzia.”

“Per anni ma i tempi cambiano.”

“Suppongo che io non sono nessuno per fare osservazioni in proposito.”

“Supposizione esatta.”

Il suo ghigno si fece cattivo alla risposta dell’altro e senza dargli troppo peso:

“Andiamo al sodo. Se sono qui all’insaputa della Miles è perché volete che la sorvegli, vero?”

“Lei è un uomo molto intuitivo. Devo dire che i files della mia collega su di lei erano molto accurati.”

“Pensa che io sia intuitivo? Che carina. Quasi mi dispiace accettare l’incarico.” Fece sarcastico.

“Questo mi sorprende. Non mi chiede nulla? Accetta e basta?”

“Cosa dovrei chiederle? Lei non mi risponderebbe, lo sappiamo entrambi. Qualsiasi siano le vostre manovre non mi interessano. Sono un vostro dipendente, legato a voi da un debito ancora lungi dall’essere saldato.”

“Non vuole neanche trattare sul prezzo della missione che sto per affidarle?”

“Non giochi con me, non  amo questo genere di cose. Se ha letto il mio file dovrebbe saperlo bene. Mi dica quello che le serve e tagliamo la testa al toro.”

L’uomo fece un cenno alla cameriera che subito si avvicinò per versargli dell’altro caffè nella tazza. Dette un paio di sorsate e poi, flemmaticamente, continuò:

“Lei eseguirà tutti gli ordini della Miles, come ha sempre fatto ma stavolta voglio che stia molto attento ad ogni suo comportamento. Qualsiasi cosa deve essere annotata a mente e mi farà un rapporto quando e dove glielo dirò io. Ovviamente lei non deve sospettare nulla, quindi si comporti con la massima naturalezza. Lei non mi ha mai incontrato, né sa della mia esistenza. La contatterò io quando sarà il momento. La tariffa è quella concordata più un 25 per cento in più per questo lavoro extra. Tutto chiaro?”

“Tutto chiaro.” Aggiunse continuando a fissare negli occhi il suo interlocutore.

 

La strada non era molto affollata. Amava camminare senza essere costretto a stare attento a non urtare nessuno. Odiava i posti troppo affollati anche perché temeva sempre che potesse accadere qualche incidente che rivelasse le sue capacità. Portava spessi guanti di pelli, internamente foderati con uno speciale rivestimento ai polimeri, lo stesso della giacca e dei pantaloni. Era vestito in maniera un po’ troppo pesante per la stagione ma i pochi passanti lo degnavano solo di qualche distratta occhiata e la cosa gli andava benissimo così. Sentì il cuore battergli un po’ più velocemente al pensiero che presto avrebbe camminato per le affollate vie newyorkesi. Sospirò rimpiangendo le sue amate paludi, ampie distese di nessuno che riposavano tra gli acquitrini fangosi della Louisiana e della Florida, dove il clima era molto più adatto a lui. Si sarebbe strappato di dosso tutti quanti i vestiti ma non poteva. Si sarebbe tolto dal volto quello stupido cerone ma non poteva. Gli parve di soffocare per un attimo e si concesse di allentare la cravatta divenuta un insopportabile cappio. Era freddo, troppo freddo per lui ma nonostante i vestiti migliorassero la situazione desiderò con tutto il cuore che sparissero lacerandoglisi addosso. Voleva correre nudo per le invisibili strade melmose del suo regno fatto di insetti, coccodrilli e fiori da mille e una notte.

Non gli piaceva nemmeno un po’ quella storia. Spiare la Miles era un gioco pericoloso. La conosceva da troppo per non sapere cosa gli avrebbe fatto se avesse dovuto scoprire il suo doppio gioco e al solo pensiero provò un brivido lungo la schiena. Qualunque cosa avesse fatto, doveva essere grossa se i suoi principali non si fidavano più di lei.

Non era un bene per lui essere stato tirato in ballo in quel genere di giochi di potere. Non si era mai fidato del P.H.A.D.E. e se avesse potuto se ne sarebbe sbarazzato subito scomparendo ma per quanto fosse abile nel nascondersi, e per quanto grande fosse il mondo, sapeva bene che presto o tardi lo avrebbero ritrovato.

Si diresse verso l’albergo per recuperare le sue cose e partire alla volta della Grande Mela.

 

 

North street, Harlem, New York City – Domenica ore 1.03 a.m. (il giorno precedente agli ultimi eventi narrati).

 

“Dico che è tutta una stramaledetta stronzata!” L’afroamericano dal possente fisico batté con forza il pugno sul tavolo facendolo scricchiolare pericolosamente. Gli uomini dietro Yanish Said, detto lo “Sceicco”, fecero un passo in avanti pronti a pararsi tra il loro capo e il sempre meno disponibile al dialogo gangster di colore.

Yanish fece un rapido gesto, bloccandoli sul posto. Il suo volto era una maschera che nascondeva la sua delusione per l’atteggiamento infantile dell’altro ma non intendeva di certo fornirgli una scusa per iniziare una guerra tra bande, non dopo quello che stava accadendo.

“Ascoltami Joel, posso capire i tuoi dubbi e le tue rimostranze ma non è questo il momento per permettere ai vecchi rancori di prendere il sopravvento.”

“Un c£$o! Hai steso due dei miei uomini solo tre settimane fa!”

“E tu due dei miei cinque giorni prima. Possiamo andare avanti così tutto il tempo se vuoi. Continueremo solo a girare intorno al vero problema. C’è stata una guerra per il controllo di questa città ed io e te abbiamo fatto ciò che reputavamo legittimo: cercare di approfittarne per ingrandire i nostri territori; ci siamo scontrati e probabilmente lo faremo ancora in futuro ma adesso sta succedendo qualcosa che richiede una tregua e un’alleanza. A S. Moritz hanno massacrato gli appartenenti al Sindacato Paraumano del Crimine. Erano tutti dotati di capacità extra, organiche e non, e sono stati sterminati come se niente fosse. Altri dotati di poteri speciali hanno fatto questa fine, senza contare che c’è quel Demone che da giorni ci mette l’uno contro l’altro. Le vecchie alleanze sono cadute e questi sono i giorni del sospetto e della paura. Siamo presi su due fronti: da una parte stanno attaccando la criminalità organizzata, piccola o grande che sia, dall’altra stanno attaccando tutti quelli che sono dotati di poteri e che fanno parte della criminalità; io e te rientriamo in questa categoria, così come molti dei nostri uomini. Tu sei un mutante ed io ho sviluppato le mie peculiarità dopo che mi hanno iniettato la versione siriana del siero del super soldato che come vedi ha lasciato non pochi segni. Si indicò la parte del volto grottescamente deturpata Siamo a capo di due delle più forti bande della nostra zona, gli Hook e i Sabre e se siamo ancora vivi e perché entrambi abbiamo deciso di non aderire al Sindacato. La situazione però potrebbe cambiare da un momento all’altro perché ci sono diverse piccole gang che si stanno unendo, anche in questo momento, per farci la pelle e prendere il nostro posto e poi ci sono questi nuovi vigilantes che non paiono interessati a portarci in prigione, da dove i nostri amici avvocati potrebbero tirarci fuori.”

L’altro lo fissò con sospetto  e con aria di superiorità e con disprezzo nella voce:

“Secondo te allora la soluzione sarebbe quella di metterci insieme per difenderci da eventuali aggressioni? Io dovrei guardare il culo a te e tu a me? Io dico che posso farne a meno! Il Gufo sicuramente farà qualcosa!”

“Qualcosa come? Fin’ora non ha mosso un dito. So che gli hai mandato una richiesta e so anche che l’ha ignorata. Cosa ti fa credere che la situazione cambierà?”

Yashir osservò con soddisfazione che l’altro era rimasto senza parole, segno che lo aveva colpito sul vivo. Joel Field sapeva di essere stato abbandonato dal boss del malaffare di New York e che le sue speranze di vederne un intervento diretto erano del tutto vane.

 

Il Booker Taliaferro Washington Centre troneggiava fatiscente e solitario nel cuore di Harlem, dove dagli anni ’70 simboleggiava la sconfitta di ogni tentativo di redenzione di quella zona del quartiere.

Nessuna razza può progredire se non impara che vi è altrettanta dignità nel dissodare un campo che nel comporre una poesia.

Lesse con attenzione le parole del letterato e poeta ex schiavo a cui era stato intitolato l’edificio. Campeggiavano sbiadite su di un polveroso cartello proprio sopra l’ingresso principale. I mattoni che lo componevano sembravano prossimi a sgretolarsi sotto il peso della lordura e degli anni, e la dentellatura laterale in bella vista, eredità di un lavoro di ampliamento mai finito, non facevamo che rendere la costruzione ancora più patetica alla vista, come se fosse stata una bestia orribilmente mutilata e lasciata riversa in terra a patire una lenta agonia.

Era comico ed orribile al tempo stesso che quel luogo, un centro di recupero per i giovani di una delle più problematiche zone di New York City, fosse divenuto luogo di incontro per le gang rivali che intendevano parlamentare. La sconfitta dell’ordine e della legge era totale in quel luogo, una zona di guerra che si trascinava pesantemente da uno scontro all’altro, senza più conoscere sosta alcuna. Era stato finanziato da uno degli ultimi eredi di Andrew Mellon, tale Andrew Deutsch.

“Uno spreco di denaro.” Commentò con amarezza mentre lo studiava con distaccata attenzione.

“Concordo con te.” Si voltò in direzione del suo compagno che aveva appena risposto a quel pensiero che era finito, senza che se ne accorgesse, nella sua bocca e che di lì aveva preso il volo.

“Non dovresti giungermi alle spalle così, lo sai.”

“Lo so. E tu non dovresti abbassare la guardia in questo modo o altrimenti durerai poco.”

“Non è così facile sorprendermi.”

“Io ci sono riuscito adesso e sai bene che ci sono canaglie come quelle la dentro brave almeno quanto me a fare questo genere di numeri.”

“Uccidermi non è facile.” Ribadì quasi stolidamente.

Rimasero in silenzio. L’illuminazione stradale era scarsa e inefficiente, e contribuiva solo a incupire ancora di più uno scenario il cui squallore era quasi intollerabile.

“Sono la dentro, rintanati come topi nei nidi.” Fece l’altro in tono conciliante a glissare su quanto era accaduto. Non voleva offendere il suo compagno. Sapeva di aver sbagliato nel averlo piccato a quella maniera. Era la sua natura quella di essere spesso così irritante. Faceva parte del suo modo di dimostrare il proprio affetto.

“Si, come dei dannati, luridi ratti.” Confermò lui, altrettanto intenzionato, con grande sollievo per l’interlocutore, a dimenticare l’accaduto.

“E tra poco disinfesteremo tutto quanto, e in modo spettacolare. Credevo che St. Moritz sarebbe stato un monito più che sufficiente. Dovevano capire che qualsiasi cosa gli stesse succedendo, non era uno scherzo, ed invece insistono.”

“Lo fanno. Lo faranno sempre. Non possono resistere al richiamo di ciò che sono, esattamente come non possiamo farlo io e te. Solo che noi ci troviamo dall’altra parte della barricata.”

“Quella giusta.”

“Quella giusta.” Dentro di sé provò un moto di fastidio nel constatare che aveva provato una certa indecisione nel dirlo. C’erano forse ancora troppi dubbi che gli rodevano l’animo e questo, presto o tardi, si sarebbe rivelato fatale per lui. Ritornò con la mente a quei giorni che aveva vissuto quasi fossero stati un delirio febbrile, e vedeva il volto duro del suo maestro, i suoi occhi scintillare di una luce selvaggia davanti ad un falò, la sua voce fredda e crudele mentre lo metteva in guardia dai pericoli che venivano da dentro.

“Non solo la preda può divenire pericolosa. Ancora di più è sé stesso che deve temere il cacciatore, perché spesso diviene preda delle proprie angosce e paure.”

Mentre osservava al di là del parapetto quelle parole riecheggiavano nella sua mente attraverso l’abisso del tempo e si chiese se stesse succedendogli proprio questo. Se stesse o meno divenendo lui stesso una preda.

 

 

Chief Medical Examiner di New York , First Avenue n° 520– Lunedì ore 5.00 p.m.

 

 

Oliver Terenzio Rucker dette un’occhiata a Suschitziky che l’altro capì al volo e lo rassicurò con un cenno del capo appena percettibile. Presenti nella sala c’erano l’agente Clive Thorne, dell’ufficio di collegamento tra F.B.I. e Polizia di N.Y.C., O’Neil che se ne stava in disparte, visibilmente contrariato dalla visione, Greg Griffith, un altro dei detective che lavorava per l’ufficio del Procuratore Distrettuale di Manhattan, e intorno al tavolo d’acciaio inossidabile l’anatomopatologo Alfred Harold Piercy  e l’agente  speciale Asa Pabst. Il primo stava riaprendo diligentemente le suture dell’incisione ad Y che aveva eseguito sul corpo di Marty Maverik per richiuderlo dopo la prima autopsia, dopo di ché, con una pazienza e una cura che avevano quasi dell’amorevole, estrasse il sacco di plastica trasparente in cui erano stati riposti gli organi precedentemente catalogati, pesati, esaminati e, in alcuni casi, tagliati. Lo posò delicatamente sul ripiano di un carrello la cui altezza poteva venir regolata a secondo della necessità mediante un pedale. O’Neil si voltò dall’altra parte, rimpiangendo di non avere con sé il proprio cappello da calare sugli occhi. Non ne aveva mai fatto mistero: odiava quel genere di spettacoli ma si era sentito in dovere di presenziare in quanto coinvolto in prima persona in quella storia; aveva fatto richiesta per entrare nella speciale squadra anti-vigilante voluta da Arthur Stacy e posta sotto il comando di Rucker. Questi osservò la scena con apparente freddezza, mentre dentro di sé si sentiva morire. Pensava a Mansel. Il suo corpo si trovava nello stesso edificio, conservato all’interno di un sacco di plastica in una delle tante ed anonime celle frigorie dell’Istituto. Non aveva presenziato alla sua di autopsia e si sorprese nel realizzare che non aveva nemmeno chiesto di sapere chi fosse stato l’anatomopatologo che l’aveva esaminato. Forse era quel dottore dallo sguardo acuto e di bell’aspetto che aprì il sacco maleodorante. Forse anche gli organi di Mansel avevano quell’odore.

“Distaccati Terenzio… distaccati da tutto e tutti.” Si fece forza mentre scacciava quell’immagine che rischiava di devastare la sua sicurezza e la sua determinazione.

Asa Pabst continuava ad studiare con gli occhi particolari anatomici già passati al vaglio degli esperti ma Rucker sapeva che se qualcosa era sfuggita a loro, non sarebbe di certo sfuggita a Pabst. Era un uomo minuto di corporatura, d’aspetto ordinario e dal volto forse un po’ anonimo, non fosse stato per una cicatrice piuttosto vistosa che copriva partiva proprio da sotto l’occhio sinistro e attraversa parte della guancia. Il naso forse era un po’ più grande della media ma sicuramente erano gli occhi il vero pezzo forte, la vera nota che lo caratterizzava: grigi leggermente screziati di verde; per il resto era effettivamente una persona come tante altre e cosa stesse pensando in quel momento non era facile dirlo. Se apparentemente sembrava freddo e distante, il poliziotto ben lo sapeva intento a studiare minuziosamente il corpo, alla ricerca di una traccia che, per quanto flebile, avrebbe potuto far chiarezza almeno in parte su alcuni misteri inerenti quello che tra di loro si erano rifiutati di battezzare il nuovo

Mangiapeccati.

“Abbiamo sbagliato qualcosa…” Più che un’affermazione sembrava che stesse confabulando con sé stesso. Tutti comunque tesero l’orecchio, cercando di cogliere in mezzo al borbottio che ogni tanto si levava dalla sua bocca un vaticinio che avrebbe potuto risolvere il caso. Un’aspettativa eccessiva, ma Asa Pabst non era nuovo a quel tipo di miracoli, anche se lo conoscevano in pochi. Non aveva mai amato la notorietà, né tanto meno la pubblicità e si era tenuto rigorosamente lontano dai media e dai riflettori. Disertava praticamente tutte le riunioni ufficiali, i party, le conferenze e a lui andava benissimo così, anche sapendo che questo non faceva bene alla sua carriera. Aveva solo uno scopo Asa Pabst: catturare i criminali; tutto il resto era un inutile orpello della vanità.

Si voltò verso Suschitziky e parlò lentamente, attento a far capire bene ogni sillaba che pronunciava con la sua flebile voce, che aveva un qualcosa di involontariamente comico: “ L’ipotesi di base è giusta: si tratta di un soggetto affetto da manie religiose; escluderei dunque il Punitore, che come sappiamo agisce in modo diverso e il cui profilo è quello di un ateo in cerca di ordine, ma anche un vigilante come Devil, che invece risulta essere religioso ma che non si è mai spinto fino all’omicidio, o tanto meno alla tortura. Devil impersona una creatura infernale, un simbolo di paura e terrore, probabilmente doveva essere una figura che colpì in qualche modo la sua immaginazione quando era piccolo ed essendo molto probabilmente di estrazione cattolica, ha condizionato le sue scelte nel corso della vita, spingendolo a farne quello che è oggi. Però, per quanto agisca ai limiti della legalità, non si è mai posto oltre la legge di Dio. Devil non prende una vita. Non si erge a giudice, giuria e boia. Consegna i criminali alla legge, dopo averli strapazzati un po’ magari, ma sostanzialmente vivi.

Devil ha il controllo di quello che fa, forse perché quando era giovane è stato a contatto con realtà, con persone, che non sempre possedevano il controllo della propria vita e delle proprie azioni. L’uomo con cui abbiamo a che fare invece non si è travestito da diavolo, ma crede di essere qualcosa di più: l’angelo vendicatore di Dio; non si limita a catturare, o a punire come nel caso specifico di Frank Castle ma purifica. Il suo è un complesso rituale per purgare il mondo dai peccati delle sue vittime, infrange la legge di Dio perché nella sua testa è Dio stesso a dirgli che può farlo. Ha colpito fino ad ora criminali ma non ha esitato a sparare a due agenti quando questi minacciavano la sua missione. Questa è la parola chiave: missione; il suo è un dovere al quale aderisce con zelo e sacro fervore, non ha dubbi su quello che deve fare.

Però c’è stato un errore di interpretazione nel caso Maverick. È stato ricondotto al simbolo del pane perché trovato in un forno, giusto? Il fatto che l’altro criminale ucciso sia stato sventrato come un pesce lo ha fatto presupporre ma non credo sia così. No. È stata una prova. Ci ha lasciato un’indicazione e ha voluto vedere se l’avremmo interpretata correttamente oppure, no. Abbiamo dato una risposta pensando che il legame tra i due omicidi fosse più diretto ma non è così. Temo che intendesse simboleggiare un episodio conosciuto sin dai tempi del paleocristianesimo, e allora considerato fondamentale per la dottrina: l’olocausto di Babilonia.”

Rucker azzardò a chiedere: “L’olocausto di Babilonia? Vuoi dire il sacrificio da parte dei babilonesi di alcuni giovani ebrei alle loro divinità? Sacrificio che questi affrontarono volontariamente per preservare da rappresaglie la loro comunità? Ma Maverick non era certo consenziente quando è avvenuto…”

“Non sono d’accordo. Siamo stati concentrati soprattutto sulle bruciature e abbiamo cercato ferite da corpo contundente, da taglio ma gli esami tossicologici? In alcuni campioni di tessuto che ho fatto nuovamente analizzare sono stati trovati degli agenti chimici non ancora identificati. Sono sicuro che sia stato drogato e sotto l’effetto della droga fatto entrare nella fornace e poi bruciato vivo. Guardate il luogo dove è stato portato: alti palazzi, come torri, pietra e metallo ovunque; se avesse voluto citare il pane sacro ai cristiani l’avrebbe portato in un ex panificio, avrebbe scelto qualcosa di diretto, ed invece ha scelto una fabbrica dove venivano prodotti mattoni, quei mattoni che nella visione del nostro uomo sono la base della nuova Babilonia, la città del peccato risorta. Inoltre, è stato trovato un segno fatto con il coltello sulle spalle di Maverick:un paio d’ali stilizzate che mi hanno dato molto da pensare finché non mi è venuto in mente che potesse trattarsi di una fenice; il segno arrivava fin dentro le carni e dai primi cristiani era associato all’episodio biblico citato, in quanto rappresentava la rinascita e la vita eterna.”

“I giovani si erano sacrificati ma le loro anime immortali erano sopravvissute nella gloria di Dio”. Asa fece un cenno d’assenso a Terenzio e proseguì.

“Le tracce di lotta ci hanno sviato. Abbiamo dimenticato che il nostro uomo può averlo drogato in un secondo tempo e poi fatto entrare nel forno. Tuttavia, quello che è veramente preoccupante è che a Babilonia non fu sacrificato un solo giovane…”

“Ma diversi!” Intervenne Peter Suschitziky che stava intuendo dove l’altro stava andando a parare.

“Temo che purtroppo questo non sia stato il primo omicidio di questo tipo compiuto dal nostro amico.”

“Perché non il primo? Non potrebbe ucciderne altri dopo con questo sistema?” Chiese Brady O’Neil la cui nausea gli stava togliendo ormai il fiato e tentavo in tutti i modi di non pensare alle cose un tempo viscide e praticamente lessate che ora stavano molli sul tavolo d’acciaio.

“Perché, gli rispose Pabst ci ha fatto prima trovare Neeys. Un riferimento al cristianesimo e al vangelo e poi un riferimento all’antico testamento. È andato volutamente a ritroso. Ci ha detto che dobbiamo seguire la strada che lui ha fatto partendo da dove è arrivato, per giungere da dove è partito.”

“Ma perché?” chiese stupito Griffith che come Brady era a disagio in quel luogo.

“Perché dobbiamo comprendere la santità della sua missione e potremo solo farlo quando avremo visto tappa per tappa quello che ha fatto.”

“Vuol farsi conoscersi da noi?” Chiese sospettoso Clive Thorne.

“Vuole farci capire cos’è. A rispondere stavolta era stato Suschitziky che teneva gli occhi fissi sulla salma annerita che giaceva pateticamente sul tavolino fissato ad un grande lavandino Per comprenderlo dobbiamo provare quello che lui ha provato, quello che ha sperimentato, passare attraverso il suo cammino di fede. Non credo che voglia essere preso ma ama la sua missione, ha ragione Pabst e per Dio, vuole che anche noi cominciamo ad apprezzarla.”

Non furono aggiunte parole, e Martin Maverick, a cui fu reinnestato nel ventre il sacco nuovamente sigillato, torno nel suo scuro sudario di plastica, pronto ad essere condotto nuovamente al gelido abbraccio della cella frigorifera.

 

 

Manhattan, nei pressi dell’ex World Trade Center – Ore 3.30

 

 

L’auto sterzò improvvisamente, e il guidatore alle sue spalle fu colto dal panico, finendo dritto contro un chiosco di giornali. La scena fu come l’improvviso comparire di un fulmine nel cielo e quando l’Uomo Ragno atterrò corse immediatamente a sincerarsi che non ci fossero feriti.

Purtroppo non sempre le preghiere trovano ascolto.

L’autista aveva travolto l’edicolante che era riverso a terra in una pozza di sangue che andava lentamente allargandosi. Un uomo sulla sessantina, forse un padre di famiglia o un nonno. Auscultò alla disperata ricerca di un battito cardiaco, ma non ci fu nulla da fare. Nessun respiro, nessun segnale che potesse lasciarlo sperare. Nulla. La testa, sulla cui sommità c’era un evidente ferita che correva sino alla nuca, era piegata da una parte in modo grottesco, così come le gambe. Ringhiò un’imprecazione da dentro la maschera ma non lasciò che i suoi sentimenti lo inchiodassero sul posto. Andò immediatamente dall’automobilista che era ancora seduto sul posto di guida. La cintura di sicurezza gli aveva impedito di finire con la faccia sul volante ma doveva avergli provocato dei danni alla cassa toracica. Divelse lo sportello mentre gridava ai presenti di farsi indietro. Un paio di uomini si fecero avanti tra la folla.

“Sono un infermiere. Lavoro al Mount Sinai Hospital.” Fece uno.

“Io invece sono nella Guardia Nazionale e ho appreso lì le tecniche di primo soccorso e rianimazione.”

Il ragno, in un primo momento, non disse nulla loro. Era troppo impegnato a staccare il sedile dal suo posto, in modo da non far prendere scossoni al ferito. Lo sollevò dolcemente e lo pose a terra e poi fece un cenno ai due che si diressero verso l’uomo per verificarne le condizioni.

“Respiro debole ma regolare.” Sentenziò l’infermiere.

“Credo che se la caverà, anche se potrebbe aver ricevuto danni alla cass…” Non fece in tempo a finire l’altro.

I possenti muscoli delle gambe si fletterono proiettandolo un attimo dopo verso l’alto e rapido cominciò a sparare in successione una serie di lunghi e sottili fili grigi che riflettevano dolcemente la luce del Sole sulla propria superficie, acquisendo in alcuni punti una piacevole iridescenza. L’Uomo Ragno li usò in rapida successione come delle liane, spingendosi con la forza di braccia, spalle e schiena in avanti. Non era difficile rintracciare la macchina. Aveva installato nel cappuccio uno scanner per la radio della polizia e inoltre stava letteralmente seminando il panico nel traffico della Grande Mela.

“Brutti bastardi!” Non riusciva a trattenere rabbia e dolore. Quella che era partita come una rapina al porto era divenuto un insensato omicidio di due persone: un custode e una vittima ignara;

La 7a era ancora inagibile in quel tratto per via dei danni provocati dal passaggio dello Scorpione, una dolorosa cicatrice che sembrava volesse piagare ulteriormente la città, come se nell’ultimo periodo non lo fosse già stata abbastanza.

Ruotò intorno ad un palazzo, dandosi lo slancio in avanti correndo sulla superficie mentre le persone all’interno si voltavano sbigottite dall’interno. Ancora avanti, ancora in quel cielo in cui le alte torri dell’uomo si stagliavano sfidando ogni legge del buon senso e della prudenza. Finalmente di nuovo nel suo campo visivo quel puntino verde oliva, una monovolume della Hyundai che continuava la sua folle e precipitosa corsa.

Nelle sue orecchie risuonava ancora la voce di Rucker mentre parlavano al telefono:

“Oggi nella sala autoptica verrà Asa Pabst. È un esperto in casi riguardanti vigilantes e serial killer. Lo conosco da diversi anni è l’ho visto spesso all’opera. So che se qualcuno ci può aiutare a fare chiarezza su questa vicenda quello è lui. Certo, non preoccuparti, ti terrò informato. A dire la verità volevo chiederti se potevamo vederci questa sera. Ho anche informazioni riguardanti il tuo amico, Klencher. Si, alle 9 va benissimo. Vieni tu da me? Perfetto, a stasera allora.”

Aveva paura. Paura che ancora una volta fosse dal suo passato tornata una delle ombre che l’avevano perseguitato per portare nuovamente lutti e dolore. Perché accadeva? Perché era come se lo perseguitassero? Erano dunque davvero immortali i mostri che combatteva? Cominciò ad abbassarsi, pronto a piombargli sopra mentre la polizia guadagnava terreno avvicinandoglisi pericolosamente. I malviventi dalla macchina esplosero dei colpi di fucile e un’altra auto finì fuori strada, sul marciapiede. Stavolta il miracolo ci fu perché non falciò nessuno e finì contro una panchina che stava in una giardinetto ricavato tra due grandi edifici.

Scacciò dalla mente ogni pensiero, anche quello dell’incontro che aveva avuto nel suo ufficio quella mattina e si concentrò su di un unico obbiettivo. Peter Parker placò la sua coscienza e lasciò che il predatore dentro di lui facesse il resto.

 

 

Fine dell’Episodio.

 

 

Un ringraziamento a tutte quelle persone che fanno parte della mia vita e che mi danno ispirazione costante per i miei racconti.

Alla mia Stella guida,

ai miei più cari amici, Jo Jo, Andy, Matt, Lisa (thx per il tuo impegno per il mio progetto) tanto per citare qualche disgraziato al quale aggiungo Peter Gabriel che è tornato nella mia vita e il nuovo, prezioso, acquisto, FA.GIAN, nonché al giovane Valerio Diggi.

Un grazie allo staff di Marvelit in gran spolvero: Carlo Monni, per la paziente super visione e al Furla per il suo impegno sul sito.

Grazie a Mik, il mio grande predecessore su questa v-testata per le sue dritte.

Grazie a Michele Nardelli, aka Rector, per la sua amicizia e il suo contributo al mio lavoro.

Grazie a Masotti e Magioni per il loro aiuto.

Ovviamente grazie a tutti quanti voi che leggete queste pagine!

Per commeti, opinioni e altro:

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