- Parte 1 di 6 -
QUANDO INCONTRAI LA LEGGENDA
di
Andrea Garagiola
Presente. Hell’s Kitchen, New
York. È una calda giornata
estiva, perfetta per fare quattro tiri a canestro senza pensare a nulla. Jimmy Doyle si smarca, arriva sotto canestro, tende le mani verso
Buddy Brown per chiamare la palla. - Avanti, Buddy.
Sono libero! - La sfera arancione gli piomba tra le mani e Jimmy stringe salda
la presa. La superficie ruvida della palla si sposa perfettamente con i suoi
palmi. Tiro. Tabellone. Ferro. La palla rimbalza nelle mani degli avversari.
- Dannato Doyle! – Buddy si lascia cadere le
braccia lungo i fianchi e si dirige verso bordo campo, sconsolato. - Ragazzi,
cambiamo squadre. Non voglio più stare con quel culo moscio di Doyle. -
- Avanti, Buddy... Capita a tutti di sbagliare un canestro, no? E culo
moscio ci sarai tu! -
- Mio padre me l’ha sempre detto di non fidarmi degli irlandesi. -
- Fottiti, Buddy! E che si fotta pure tuo padre, quel lurido ubriacone!
-
- Doyle Culo Moscio, rimangiati subito quello
che hai detto su mio padre o ti faccio saltare tutti i denti da quella bocca di
culo che ti ritrovi. - Buddy, petto in fuori, punta minaccioso verso Jimmy. Gli
altri ragazzi del campetto lo trattengono a fatica. - Sei solo un piccolo,
sporco codardo dai capelli arancioni! -
- Sarei io il codardo, eh? -
- Avanti, pensi di essere tanto coraggioso? Avete sentito, ragazzi,
Jimmy Doyle pensa di essere più coraggioso di me? -
Buddy si volta verso i compagni in cerca di approvazione. - Dimostracelo,
allora. Entra in casa del vecchio Carter, quello del quinto piano, e rubagli la
gamba di legno. A quest'ora del pomeriggio quel vecchiaccio se la ronfa per
bene sulla poltrona in salotto e lascia sempre la sua gamba finta appoggiata di
fianco a lui, lo abbiamo spiato io e Sam dalla scala antincendio. Sarà un gioco
da ragazzi per te. -
- Carter? Il vecchio e pazzo Donald Carter?! -
- Sì, proprio lui. Ma se hai paura puoi anche tirarti indietro, vero
ragazzi? Hehehe. – Buddy rivolge di nuovo lo sguardo
verso i compagni, più e più volte, finché tutti non si mettono a ridere per la
sua battuta.
La vecchia scala arrugginita riecheggia metallica sotto i passi del
giovane Jimmy. Ad ogni piano il ragazzo guarda verso il basso per cercare un
po’ di forza nei suoi compagni, ma ogni volta trova Buddy e gli altri che lo
fissano con aria di sfida e di scherno. Vorrebbe andarsene, il vecchio Carter
gli ha sempre fatto un po' paura, ma mai e poi mai la darebbe vinta a quello
sbruffone di Buddy Brown. Donald Carter è un vecchio
burbero e solitario, abita nello stesso palazzo di Jimmy, due piani sopra di
lui. Ogni volta che lo incrocia per le scale o in strada, il vecchio lo fissa
torvo come se fosse il demonio e tira dritto poggiandosi sul suo bastone, con
il suo passo incerto, senza dire una parola. Un vecchio alquanto misterioso e
inquietante.
La finestra dell'appartamento di Carter è leggermente aperta, unico
rimedio contro il caldo estivo soffocante che prende d'assalto gli appartamenti
del vecchio stabile nelle ore pomeridiane. Jimmy prende fiato, due volte, e
lentamente cerca di alzare la finestra, quel tanto da permettergli di
sgattaiolare dentro.
La stanza è il classico soggiorno di un vecchio, l'aroma pungente di
antico lo investe. Non ci sono foto incorniciate alle pareti o appoggiate sui
mobili, solo qualche mediocre dipinto di nature morte. Una casa anonima. Il
vecchio Donald Carter dorme profondamente sulla poltrona verde sbiadito in
mezzo alla stanza. Le braccia conserte sul petto, in grembo tiene una copia del
Daily Bugle. La gamba di
legno è proprio lì dove Buddy gli ha detto.
Cautamente Jimmy si avvicina al tesoro che lo consacrerà tra le
leggende del campetto da basket. Il piccolo e esile Jimmy Doyle
affronta il vecchio e mefistofelico Donald Carter e gli sottrae la sua gamba di
legno come trofeo. Già se lo immagina, se ne parlerà per mesi tra i ragazzi
dell'isolato.
Jimmy è tremante davanti all'oggetto. Si avvicina lentamente, il suo respiro si è sincronizzato alla perfezione con il lento e ritmico riposo del vecchio, la fronte è imperlata di gocce di sudore che lentamente gli scendono sul naso e le guance. La mano sfiora il legno smaltato della gamba sintetica, i polpastrelli fanno presa sul liscio e inquietante arto inanimato. Il resto accade in un lampo.
Jimmy tira a sé il bottino, pronto per fuggire. Ma Carter non sta dormendo, o forse il suo udito è parecchio migliore di quello della media degli ottantenni di New York, fatto sta che la mano del vecchio si muove ancora più veloce di quella di Jimmy e si serra come una morsa sul polso del ragazzo. Jimmy rimane impietrito davanti al vecchio Carter che lo fissa con i suoi vecchi e intelligenti occhi azzurri.
- Piccolo delinquente... – Carter ha una presa salda e strattona Jimmy finché la gamba non gli scivola dalle mani e finisce a terra, contro uno dei mobili alla parete.
- Mi lasci, signor Carter. La prego... –
- Brutto ladro! Adesso ti faccio vedere io... – Carter afferra il suo bastone da passeggio e lo puntella sulla polverosa moquette per alzarsi in piedi in cerca della sua protesi. La presa su Jimmy si fa più debole e il ragazzino ne approfitta per fuggire verso la finestra. – Vieni subito qua! Con te non ho ancora finito! – Carter cerca di inseguire Jimmy con dei piccoli balzi, ma ad ogni passo il piede è sempre più malfermo e l’equilibrio sempre più incerto. Al terzo passo, la vecchia e stanca gamba cede. Il bastone non riesce a sorreggere il peso del vecchio e Carter finisce faccia a terra, accompagnato da un tonfo sordo.
Jimmy, che nel frattempo è già riuscito a portare metà del corpo fuori dalla casa del vecchio, si volta verso il rumore alle sue spalle. Rimane alcuni istanti a fissare il vecchio a terra. Una smorfia di dolore gli deforma il volto, mentre con il bastone cerca invano di rialzarsi. Il vecchio, prono e vulnerabile, non fa poi così paura. Anzi, il cuore di Jimmy si riempie di compassione e non riesce a portare la metà mancante al di fuori della finestra.
Jimmy afferra il vecchio Carter sotto l’ascella e lo aiuta a rialzarsi, poi, con pazienza, lo riaccompagna alla sua poltrona.
- Non pensare che dopo questo gesto io chiuda un occhio su quello che hai fatto, piccolo furfante. – Con uno strattone Carter si libera del sostegno di Jimmy. – E, comunque, ce l’avrei fatta anche da solo. -
- Signore... Volevo solo aiutarla, mi sentivo in colpa. – Jimmy, travolto dalla vergogna e dai sensi di colpa, va a recuperare la gamba.
- Stai ancora cercando di rubare la mia gamba!? Se ti acchiappo... – Carter sta per alzarsi di nuovo in piedi brandendo il suo bastone, ma viene interrotto da Jimmy.
- Gliela stavo solo riportando... Non avevo intenzione di rubargliela. Questa volta, intendo... – E porge l’arto al suo legittimo proprietario.
- Mmh... Grazie.. – Dopo un forzato ringraziamento, brontolato a denti stretti, sulla stanza cala un imbarazzante silenzio.
Jimmy non sa proprio cosa fare: andarsene lo farebbe sentire terribilmente in colpa, è penetrato a casa di un anziano mutilato con l’intenzione di rubare la sua gamba di legno e lo ha anche fatto cadere a terra. Se ora decidesse di andare via, come se nulla fosse, non riuscirebbe più a guardarsi allo specchio, ma avrebbe senso rimanere?
- Non lo dirà a mio padre, vero? La prego... – Se deve rimanere per placare la sua coscienza, almeno potrebbe intavolare una discussione, magari il vecchio non è poi così male.
- .. Non saprei. Ci devo pensare... –
- Grazie... –
- Non ho detto che non glielo dirò, delinquentello! –
- Come ha fatto a... – Forse è stato troppo precipitoso. Ma Jimmy è curioso e la sua curiosità lo ha portato lì, a quella gamba mancante. – Cioè, nel senso, la gamba... Dove l’ha persa? –
- La gamba, eh? Cosa sai tu della Seconda Guerra Mondiale? – Gli occhi di Carter si illuminano e tornano quelli di un ventenne.
- Non molto, cioè... Qualcosa me lo hanno insegnato a scuola, ma... –
- Oh, dannazione, ragazzino. Non ne sai proprio nulla, allora. Siediti lì e ascolta, ti racconterò la storia di questa gamba. –
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9 Gennaio 1944. Quel giorno pioveva a dirotto. Avevamo il
fango fin sopra le caviglie, ma eravamo comunque tutti immobili e fieri
sull’attenti nel cortile di Camp Claiborne, in
Louisiana, dove feci il mio addestramento per diventare un valoroso
paracadutista della compagnia Freedom dell’82esima
Divisione dell’esercito degli Stati Uniti d’America. La compagnia Freedom venne riunita all’imbrunire di quella fredda e
piovosa domenica di gennaio per un’importantissima e segreta missione in
Europa.
Il capitano Powell attendeva al nostro fianco, indomito e forte come
nessun altro di noi riusciva ad essere. Tutti insieme attendevamo istruzioni
dal colonnello Grimes. Ricordo che al mio fianco
c’erano Topper alla mia sinistra e Ace sulla destra.
Ace non era il suo vero nome, si chiamava Simon Hurley,
ma tutti noi lo chiamavamo così perché quando giocavamo a carte quel dannato
figlio di una buona donna aveva sempre un asso in mano, e accidenti a lui se
eravamo mai riusciti a beccarlo ad imbrogliare, ce la faceva sempre, ma questa
è un’altra storia. Eravamo lì al freddo, fradici, con l’acqua che ci annebbiava
la vista e, sopratutto, impauriti, quando in
lontananza vedemmo il colonnello Grimes avvicinarsi a
noi, con al suo fianco altre due figure.
Quando i nostri occhi riuscirono ad identificare gli accompagnatori, fu
difficile mantenersi fermi sull’attenti. Tutti iniziammo a guardarci l’un
l’altro alla ricerca di conferme sull’identità dei due uomini, e di uno in
particolare. “Non può essere lui!”, “Vi dico di sì, è proprio lui.” Oppure “Sì,
sì, non ci sono dubbi. Ho visto una sua foto sul giornale l’altro giorno”.
L’aria si era riempita di un vociare sommesso, il capitano Powell ci tirava delle
occhiatacce per cercare di ricomporre le fila, ma anche lui era evidentemente
sorpreso della vista di Capitan America.
Lui era proprio lì, davanti a noi, in carne e ossa. Eravamo poco più
che ragazzini ed eravamo al cospetto della Leggenda Vivente. Nessuno di noi
poteva crederci e, adesso, se ci ripenso, quel momento mi sembra ancora un
sogno. Già, sarebbe stato un bel sogno, se non fosse stato per tutto l’orrore
che avremmo visto dopo.
Il terzo uomo era un generale. Il generale Mitchell. Ci aveva raggiunto
apposta a Camp Claiborne, lasciando la sua comoda
poltrona, per presentarci Capitan America e augurarci personalmente buona
fortuna. Forse, conscio dell'estrema pericolosità della missione che ci avrebbe
affidato, voleva guardarci negli occhi mentre ci spiegava il nostro compito e
ci mentiva dicendoci che saremmo presto tornati tutti a casa dalle nostre
famiglie. L’indomani saremmo dovuti partire in nave per l’Inghilterra, e da lì
sorvolare la Manica ed entrare in Belgio paracadutandoci nel sud del paese, al
di là delle forze crucche. Il nostro obiettivo si trovava sulle montagne che
separavano il Belgio dalla Francia. Lì i Nazisti avevano una struttura in cui
stavano mettendo a punto un’arma segreta che, se fosse stata completata,
avrebbe messo a serio repentaglio la riuscita dell’operazione Overlord, il famoso sbarco in Normandia di cui avrai
sentito parlare. L’intelligence alleata non era riuscita a scoprire i dettagli
dell’arma, ma aveva individuato il luogo dove la stavano sviluppando e aveva
preparato un piano per sventare la minaccia. Capitan America ci avrebbe guidati
nel Belgio occupato dai tedeschi e insieme avremmo distrutto l’arma di Hitler.
Non sapevamo se essere fieri per questo, lo eravamo ovviamente, ma
eravamo anche dannatamente terrorizzati. Tutti noi mostravamo la paura, ce la
si poteva leggere in faccia, poi la Sentinella della Libertà fece un semplice
gesto, ma fu essenziale per tutta la compagnia. “Rompete le righe, soldati!” ci
ordinò e il macigno che il generale Mitchell ci aveva posto sulle spalle iniziò
a sgretolarsi. Poi ci volle stringere le mani, uno ad uno. Arrivò anche il mio
turno. Chiese il mio nome e il grado, glieli dissi e poi mi strinse la mano.
Era forte, una stretta salda e rinvigorente. Gli sorrisi e in quel momento ebbi
la certezza che il mio posto era in quella missione. Avevo ancora paura, non lo
posso negare, ma Capitan America, con una semplice stretta di mano, mi aveva
fatto capire che era giunto il momento di mettermi in gioco e fare qualcosa per
il mio amato paese.
23 Gennaio 1944. La notte era illuminata solamente da alcune
esplosioni in lontananza sulla costa, ma sul nostro volo sembrava filare tutto
per il meglio. Ricordo ancora nitidamente quando Anthony Lazzaro, seduto al mio
fianco sull’aereo, mi diede una pacca sulla spalla e mi offrì un chewing-gum.
Lo rifiutai, ero così sconvolto che anche masticare una gomma sarebbe stato un
compito troppo difficile da affrontare. Lui sorrise e mi disse: “Vedrai, amico,
andrà tutto...” l’ultima parola sapevo che era “bene”, ma fu coperta da un
boato e da un’imprecazione di Lazzaro. Uno degli aerei vicino al nostro era
stato colpito e l’ala era avvolta dalle fiamme. Vidi il velivolo perdere quota,
lo osservavo dal piccolo finestrino e salutai silenziosamente quei ragazzi,
quei compagni, che non avrei più rivisto. I primi di una lunga lista. Li
guardai precipitare finché Tom Grant non mi strattonò e mi fece ritornare alla
realtà dell’aereo su cui viaggiavo, incalzato dalla contraerea tedesca.
Un altro lampo nel cielo e altre fiamme. Un altro aereo era stato
colpito, era l’aereo su cui viaggiavano Cap e il suo compagno Bucky. Lasciava una scia di fuoco, come se fossero una
stella cometa. Molto meno affascinante, però. La coda del mezzo era in fiamme e
vidi il portellone aprirsi. Dall’aereo i ragazzi iniziarono a gettarsi, Capitan
America e Bucky dopo di loro. Eugene “Slim” Slimmer, nel trambusto
generale, si fece coraggio e ci guidò. “Avanti, ragazzi, dobbiamo gettarci
anche noi. Non riusciremo ad arrivare a destinazione su queste bare volanti.
Quei crucchi bastardi stanno facendo il tiro al bersaglio con noi!” Ci fece
segno che ci saremmo paracadutati qui, nel nord del Belgio, parecchio distante
dal nostro obiettivo. Il terrore mi aveva colto impreparato, avevo già avuto paura,
ma non era nulla in confronto a quello che ci stava capitando su quell’aereo.
Non so se era vero, o era solo la mia mente a farmelo credere, ma sentivo
chiaramente il sibilo dei proiettili passare di fianco al nostro mezzo e ogni
volta mi ritrovavo a pensare: devi muoverti, Donald, devi gettarti da questo
dannato aereo perché il prossimo proiettile potrebbe non mancare il bersaglio.
Raccolsi il paracadute e la mia attrezzatura radio, ero l’addetto alle
comunicazioni e mai e poi mai mi sarei potuto separare da quel prezioso
aggeggio. Ci infilammo il paracadute e ci mettemmo in fila davanti al
portellone, Slim aprì e ci gettammo. In fretta, senza
pensare, senza controllare i paracadute, dovevamo gettarci e basta o saremmo
sicuramente morti. Grant si gettò, poi venne il mio turno.
L’aria gelida mi investì il volto. Cielo e terra erano una cosa sola, il buio mi avvolgeva completamente. Approfittavo dei lampi delle esplosioni per orientarmi e cercare di capire dove sarei atterrato. Aprii il paracadute. Durante uno dei lampi guardai in basso, vedevo la sommità del paracadute di Grant e quella grossa superficie familiare mi fece stare bene per qualche istante, finché una raffica non lo falciò e vidi il suo corpo inghiottito dal buio. Chiusi gli occhi e piansi. Piansi e pregai. Non sono mai stato un credente con i fiocchi, lo ero come la maggior parte dei ragazzi della mia età, ma in quell’occasione mi sentii impotente, solo davanti al mondo e ad un nemico crudele e mostruoso, e trovai nella preghiera l’unico conforto. Quando pensavo che ormai tutto era perduto e che sarebbe stata solo questione di istanti prima di scivolare verso il nulla come il povero Grant, toccai il suolo.
[ CONTINUA ]