Marvelit presents:

 

 

INVASORI: REVIVAL

 

Di Yuri N. A. Lucia.

 

Chapter III

 

We are the roots of your country. Pt I

 

 

Nei Pressi del villaggio di Duang, Cambogia – Febbraio 1966 ore 9.00 a.m.

 

Da quando nel 1945 Ho Chi Min aveva dichiarato la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam era iniziato il travaglio di quel popolo, o meglio, progressivamente l’attenzione mondiale era venuta a conoscenza della millenaria sofferenza che affliggeva quelle terre che praticamente tutti avevano provato a conquistare.

Prima i cinesi, poi i britannici, poi i francesi ed infine gli americani.

Nella rete di violenza di quella nazione erano state inevitabilmente coinvolte le nazioni vicine che anche se non apertamente in guerra, aiutavano come potevano tanto le truppe regolari del Nord che i guerriglieri Vietcong nel sud.

Quel piccolo villaggio di contadini e pastori era un esempio lampante delle antipatie che quelle genti avevano per gli occidentali e della voglia di riscatto che provavano dentro di sé.

Così pensava Ivanhoe che provava una certa ammirazione per quella indomita fierezza, carattere distintivo degli indocinesi. Sorrise tra sé pensando al massacro in atto che, con il passare dei secoli, li aveva portati letteralmente sull’orlo dell’estinzione e al modo in cui, invece, erano sopravvissuti divenendo sempre più forti.

Lanciò un’occhiata al villaggio dall’altura dove si trovava e vide il Camaleonte uscire dalla stalla dove si era appartata con la giovane chiamata Sien Sien, la ragazza del fu Tang.

Era sinceramente dispiaciuto per la morte di quel giovane che tutto sommato non centrava nulla con le questioni strategiche e con i giochi di potere internazionali.

Tang era solo uno dei tanti giovani del suo tempo che in quella parte del globo, sognavano di poter decidere da sé, senza ingerenze straniere, il proprio futuro.

Come tutti era uno sciocco perché se c’era una cosa che Ivanhoe aveva imparato nel corso degli anni era proprio che la se la barca della libertà arriva, lo fa solo dopo aver navigato a lungo sui fiumi di sangue versati da quelli che vi hanno creduto.

Al pensiero di tutta quella morte sentì improvvisamente tutto il peso dei suoi anni e si chiese come avesse fatto a sopravvivere sino a quel momento o perché fosse valsa la pena farlo: solo per vedere ancora morte e rovina?

Osservò con attenzione il Camaleonte che era in caccia della sua preda e provò un fremito di disgusto: era solo un assassino psicopatico che anziché camminare, avrebbe dovuto pendere dalla forca; invece i suoi talenti l’avevano reso prezioso per il Governo degli Stati Uniti.

Del resto il resto della formazione con cui collaborava era altrettanto discutibile:

Capitan America era quasi un cieco automa pronto ad eseguire qualsiasi ordine e forse incapace di autonomia decisionale.

Bucky era un sociopatico paranoico e non molto diverso dal Camaleonte: anche a lui piaceva uccidere per il gusto di farlo.

Torcia aveva subito talmente tanti lavaggi del cervello da essere divenuto instabile e poco affidabile.

Il ragazzo sembrava quello più normale di tutti: quanto meno aveva reazioni sensate per uno di quella età. Gli dispiaceva terribilmente che fosse stato coinvolto in tutto questo ma era come per Tang. La sua vita era nulla confronto ai poteri dietro quella storia. Gli avevano tolto ogni possibilità di scegliere, obbligandolo ad agire come mai avrebbe voluto per poter sopravvivere.

Si domandò quanto sarebbe durato. Aveva sete, tanta sete e sapeva di doversi tenere pronto per compiere il suo dovere.

 

 

Thomas non si sentiva per nulla tranquillo. Non era stupido e conosceva Cap abbastanza bene da capire che sia lui che il ragazzo erano segnati. Pensava a quanto fosse curiosa la sua totale assenza di rancore nei confronti di quest’ultimo nonostante lo avesse di fatto messo nei guai. La verità era che anche se eccessivamente idealista ed ingenuo, lo ammirava e persino lo invidiava. Gli ricordava come era lui quando iniziò tutto quando, quando in coppia con il suo mentore volava sopra i campi di battaglia in Europa e lottava per qualcosa in cui credeva. Guardava con rispetto ed ammirazione gli Invasori, ognuno con il proprio carattere e la propria forte personalità, ognuno con il proprio scopo e determinato a raggiungerlo. Eppure c’erano onore e lealtà tra quegli eroi, quell'onore e quella lealtà che parevano del tutto sconosciuti in quella parodia degli Invasori originali in cui militava.

Cuba gli aveva insegnato parecchie cose e quanto di lui era riuscito a rimanere integro dopo gli orrori della guerra, era definitivamente crollato sotto i pesanti colpi del tradimento e della umana brutalità. Sapeva benissimo che tutte le terapie di supporto psicologico a cui l’avevano sottoposto erano in realtà dei lavaggi del cervello ma lui non vi si era mai opposto, forse perché sperava che in qualche modo avrebbero alleviato il rimorso per tutto il sangue di cui si era macchiato le mani durante gli anni.

Adesso si sentiva veramente sollevato: che vivesse o morisse a lui non importava molto ma desiderava che il ragazzo non morisse lì; era troppo giovane perché accadesse una cosa del genere.

Gremlin guardava l’orizzonte, silenzioso ed affranto, consapevole che l’aveva combinata grossa e per questo ci sarebbero state delle conseguenze. Si girò di scatto quando sentì i passi dietro di sé e vide la figura sorridente di Tom, in tenuta mimetica, con il viso annerito ed i capelli tirati all’indietro, impiastricciati della fanghiglia di un fiumiciattolo che avevano guadato poco prima. Questi si sedette in terra, poggiando il proprio fucile sulle gambe e lo guardò un po’ prima di parlare.

“Un penny per i tuoi pensieri.”

Disse ricordandosi di quando era la Torcia originale, la vera Torcia, a dirglielo nei momenti in cui sprofondava nello sconforto.

“L’ho combinata bella eh? Si decise alfine a rispondere mestamente il ragazzo. Capitan America ci ha presi di mira ora. È stata tutta colpa mia e della mia fottuta boccaccia!”

La Torcia gli diede un buffetto gentile su di una guancia.

“Non si dicono certe parole, piccoletto. Per quanto riguarda Cap, sistemeremo tutto quanto vedrai.”

“Ho paura…”

“E di cosa?”

“Li hai guardati negli occhi? Erano entrambi pieni d’odio nei nostri confronti. Era come se dicessero: sporchi mutanti traditori.”

Thomas [si] non poté non lasciarsi scappare un lungo sospiro e poi, tornando a guardare il giovane gli rispose sinceramente:

“Si ma non ci faranno niente. Non possono, perché gli siamo troppo utili. Quando torneremo alla base forse dovremo subire un procedimento disciplinare per comportamento anti patriottico ma non di certo per tradimento. Mutanti o no i nostri talenti ci rendono indispensabili per il Progetto P.H.A.D.E. e per gli Invasori. Ci faremo un po’ di cella di isolamento e un paio di giorni di digiuno ma niente di più.”

“Tu dici? Ma perché dovremmo tornare indietro?”

Il mutante più anziano lo guardò sorpreso.

“E dove dovremmo andare?”

Chiese sinceramente incuriosito.

“Potremmo… potremmo rimanere anche qui!”

Tom lo osservò prima in silenzio poi scoppiò a ridere reclinando da una parte il capo mentre Gremlin lo guardava interdetto.

“Ragazzo mio! E tu davvero credi che ci lascerebbero andare via così? Dopo aver investito migliaia di dollari su di noi e dopo che siamo venuti a conoscenza di tutti i loro segreti? E anche se fosse? Vorresti vivere qui? Lo sapevi che qui, quando si accorgono che un bambino presenta segni di mutazione, lo uccidono? No? Immagina cosa potrebbero farti. Io me la caverei perché mi basterebbe non usare mai le mie facoltà, ammesso e non concesso che tollerino un occidentale da queste parti, ma tu… senza offesa ragazzo. Tu appartieni al genere di mutante che non può di certo mimetizzarsi tra la folla di uomini comuni. E che vita ci attenderebbe qui? Nascosti, isolati, sempre con la paura di essere scoperti e lapidati. Sempre pronti alla lotta per sopravvivere. Mi dispiace. Il tuo è solo un sogno, un bel sogno ma per noi due, la fuori, non c’è niente.”

Detto questo si alzò, dette una pacca sulle spalle al suo compagno e si allontanò per effettuare una ricognizione della zona.

Aveva detto il vero: Cap non gli avrebbe fatto niente, fino alla fine della missione e sicuramente se fossero arrivati davanti alla commissione disciplinare se la sarebbero cavata ma c’erta di mezzo parecchia strada prima di tornare a casa e sapeva che il suo superiore era un tipo che non dimenticava facilmente; c’era poi Bucky che non gli era mai piaciuto e che sicuramente avrebbe incoraggiato l’altro ad intraprendere un’azione punitiva non appena possibile. Del resto far passare un simile atto per un incidente non sarebbe stato difficile in quella situazione.

C’erano solo due soluzioni plausibili…

 

 

Villaggio di Duang. – Ore 12. p.m.

 

 

Il caldo si era fatto soffocante e avvolgeva tutto in una cappa dalla quale non c’era modo di fuggire ma nonostante tutto, il Camaleonte si comportò con perfetta naturalezza come se in quel clima ci fosse sempre vissuto, anche se dentro bestemmiava ogni santo di cui avesse mai letto o solo sentito il nome.

Zao Ming era proprio davanti a lui, travestito da soldato e, sorridendo gli si avvicinò con in mano una ciotola di riso e una bisaccia di pelle di capra piena dell’acqua raccolta giù al fiume.

Nobile soldato del  Vietminh, ristorati mangiando un po’ del nostro cibo e bevendo la nostra acqua.

Lo scienziato travestito da soldato, un uomo che aveva da poco passato la cinquantina ma ancora in forma per lo stile di vita che conduceva sorrise mettendo in mostra una fila di denti perfetti per quell’età e rispose con un inchino del capo.

Grazie giovanotto ma la ciotola che generosamente mi porgi e fin troppo piena. Questo può solo significare che qualcuno si è privato della propria razione per me e qualcosa mi dice che sei tu quel qualcuno.

Il Camaleonte contraccambiò l’inchino e rispose:

Non preoccuparti per me, guerriero della libertà, ho mangiato più che a sufficienza ieri ed oggi è un giorno di festa, per cui sono esonerato dalle mie solite faccende. Tu ed i tuoi compagni, invece, avete sostenuto una lunga e dura marcia prima di arrivare qui. Il sentiero di Ho Chi Min è sicuro ma non di certo comodo!

Mentre l’uomo rideva, ne approfittò per fare un paio di segnali convenuti che ad un comune osservatore sarebbero sembrati solo dei gesti casuali ma che Ivanhoe invece interpretò subito correttamente. Nel tempo passato dopo l’incontro con la bella Sien Sien si era dato da fare per soddisfare le richieste dei venerabili ospiti e nel frattempo, aveva segnato tutte le ceste in cui erano state passate le componenti dell’arma trasferite dalle casse di legno.

Orami il momento era arrivato. I soldati si sarebbero rimessi in marcia la notte e loro dovevano colpire prima poco prima, quando sarebbero stati vulnerabili e del tutto impreparati.

Poi sarebbero dovuti correre verso il confine del Vietnam, superarlo, e dirigersi verso La Drang, dove un distaccamento del 7° Cavalleggeri li avrebbe tratti in salvo e scortato a Saigon da dove un aereo li avrebbe riportati a casa con il loro prigioniero.

“Ridi, ridi, bastardo muso giallo. Avrai una bella sorpresa tra un po’.”

Pensava mentre l’uomo scherzava allegramente con quello che pensava essere un quindicenne idealista di un povero villaggio cambogiano.

Come ti chiami ragazzo?

Nui Tang, figlio di Nui Gun. Ho quindici anni signore ed ho un’ottima mira: con un sasso posso centrale una mela a venti metri di distanza.

Zang batté divertito la mano sul ginocchio e disse:

In guerra serve saper far di meglio. Dimmi Tang, tu vuoi essere un guerriero?

Spero di poter un giorno combattere per la liberazione delle nostre terre dai porci occidentali!

Ed io spero che invece questa guerra finisca presto, così nessun bravo ragazzo come te dovrà più andare a combattere per morire.

Lo scienziato aveva pronunciato con tristezza quelle parole e, in un momento di tenerezza, fece una carezza al volto del ragazzo che dentro di sé pregustava il momento in cui la mascherata sarebbe finita.

 

Capitan America e Bucky attendevano sul colle denominato 1-A, da cui avevano un ampia visuale del villaggio, mentre il resto della squadra attendeva sul colle 1-B. Il primo era concentrato, completamente assorto dal pensiero di non fallire il bersaglio mentre il secondo era nervoso ed estremamente irritato. Non riusciva a fidarsi dei due mutanti e del britannico. A suo avviso prima o poi li avrebbero traditi e forse addirittura consegnati al nemico e questo lui non lo avrebbe mai permesso.

Frattanto sul colle antistante Tom stava ripetendo le ultime istruzioni a Gremlin:

“Mi raccomando, mantieni sempre la calma, qualsiasi cosa succeda. Quando accederanno i fari per inseguirci, tu cortocircuitali subito. Dobbiamo avere il massimo vantaggio possibile.”

Ivanhoe nel frattempo attendeva con le braccia conserte, schiena appoggiata ad un vecchio tronco cavo, la cui grottesca figura contorta pareva quella di un bizzarro folletto intento in qualche frenetica danza rituale.

Il suo volto era coperto da una maschera grigia e Leonard, alias Gremlin, si era chiesto se sotto non stesse sudando. Lui si sentiva morire dal caldo, mentre Tom sembrava, neanche a dirlo, completamente a suo agio.

Si levò un leggero vento in quella notte buia e senza luna, e l’erba sulla sommità del colle si piegò dolcemente.

Non sapevano nulla di Ivanhoe, solo che era terribilmente bravo quando era in azione. In realtà lui personalmente non sapeva molto degli altri membri degli Invasori, eccezion fatta per Tom ovviamente.

Del britannico invece non sapeva neanche se si trattasse o meno di un mutante come loro e si chiese improvvisamente se anche lui fosse da considerare pericoloso come Capitan America e il suo amico o se alla fine si sarebbe dimostrato un loro alleato. Gremlin scosse silenziosamente la testa e si disse che nessuno era da considerarsi un alleato sicuro e per la prima volta, con suo sommo stupore, si chiese se anche la Torcia lo fosse.

 

Il primo a cadere fu un soldato di vedetta, travestito da contadino. Il corpo fu scosso da un violento tremito, il capo reclinato orribilmente da un lato, il sangue che schizzava da ciò che rimaneva del collo.

Gli altri soldati dettero immediatamente l’allarme e fu subito il panico.

Bucky sparò ancora, e altri due morirono prima che i nemici potessero organizzarsi in qualche modo, badando bene di tenersi fuori dalla vista di quell’invisibile cecchino che aveva già ucciso tre di loro.

“Dannati cacariso!”

Esclamò Martin Guile sorridendo lì, dall’alto del suo scranno di morte mentre con il mirino telescopico agli infrarossi si divertiva a vedere l’agitazione degli abitanti del villaggio che se ne venivano fuori. Sentì un brivido lungo la schiena e provò il desiderio di premere il grilletto e aprire il fuoco su di una bella famigliola che scappava terrorizzata verso la boscaglia ma Cap glielo aveva tassativamente proibito: niente civili, se non strettamente necessario; sputò in terra, proprio mentre il discobolo osservava la scena con il binocolo.

“La loro squadra di supporto non ci metterà molto ad arrivare ed è allora che dovremo agire.”

Ribadì ancora una volta.

“Sempre che il mutie non ci abbia tradito e non abbia sabotato la loro radio!”

Replicò Bucky con stizza.

“Gremlin ha sabotato sicuramente la loro radio. Torcia non gli permetterebbe di fare nulla di diverso, visto che ne va anche della sua vita.”

Lo scudiero a stelle e strisce notò con un certo fastidio che una piccola colonia di insetti si stava inerpicando a fatica lungo il suo stivale e, con un rude gesto della mano lì disperse facendoli cadere in terra. Si tolse lo scudo dalle spalle e lo infilò al braccio, preparandosi all’azione.

 

Tutto stava andando come previsto: Janguy stava guidando gli abitanti del villaggio verso il fitto intrico della boscaglia, convinto come tutti gli altri che una squadra americana fosse giunta fino quel luogo dimenticato da Dio per prendersi ciò che i venerabili combattenti per la libertà portavano con sé; non era andato molto lontano dalla verità ma di certo non  poteva immaginare che all’opera ci fosse la più potente forza paraumana al servizio degli Stati Uniti d’America: gli Invasori.

Si era volutamente attardato, lasciando che la famiglia di Tang lo superasse e si dirigesse verso i rifugi preparati nei pressi del fiume proprio per un’eventualità come quella.

Tang! Tang! Siano lodati gli dei! Temevo tu fossi…

Sien Sien era davanti a lui, vestita con i suoi semplici e lisi abiti da contadina, la fronte imperlata di sudore, gli occhi umidi di pianto, tremante quasi fosse stata una canna di bambù scossa dal vento. Non aveva previsto questo: non che lei sarebbe rimasta indietro per aspettarlo e il che non era un bene. Aveva pensato molte cose mentre si trovava nella povera capanna che il vero Nui Tang aveva chiamato per tutta la sua vita casa, mentre i suoi cari si raccontavano le storie e gli accadimenti di quella che per loro ormai era il Giorno della Venuta dei Liberatori. Non voleva di certo sopprimere quel bel fiorellino, non così. Immaginava che prima di andarsene, avrebbe avuto il tempo di gustarla adeguatamente e poi, quando si fosse accorta che non era il suo Tang quello che la stava pompando, le avrebbe tagliato la gola prima di darle il tempo di realizzare cosa stava succedendo. Sarebbe stata una fine serena, rapida ed indolore, una fine che l’avrebbe sollevata da una vita di affanni e stenti che l’avrebbe trasformata in una di quelle vecchie incolore e dal viso così rugoso da essere indistinguibili l’una dall’altra. Del resto quale esistenza l’aspettava? Sfornare dei figli, uno dopo l’altro, ammazzarsi di lavoro nei campi per un misero raccolto, essere picchiata la sera da un uomo che magari sarebbe tornato a casa ubriaco dopo aver infilato l’uccello tra le cosce di qualcun'altra, o forse sarebbe perita negli orrori della guerra, quando il napalm sarebbe arrivato anche lì.

Era così bella ed era così ingiusto che questo avvenisse. Senza dire nulla la prese tirandola a sé, e la strinse contro il suo corpo, con foga quasi selvaggia e lei, con le lagrime che le rigavano il viso:

Amore mio! Temevo di averti perso per sempre e il mio cuore già ne moriva.

Il Camaleonte sorrise amaramente, pensando che quelle parole non erano dirette a lui ma ad un ragazzo che ormai era cibo per i pesci in un una grotta sommersa di un fiumiciattolo poco distante.

Ricordò quando, anni prima, la sua Leanore gli disse parole molto simili e quanto strazio pervase la sua anima quando dovette ucciderla a fine incarico.

Nessuna donna lo aveva mai amato per quello che era ma sempre per un personaggio che aveva finto di essere e del resto questa era la sua maledizione, il suo talento: riuscire perfettamente a sembrare ed essere qualcun altro. Forse, dopo tanti anni di interventi chirurgici e maschere, dell’uomo che era stato non ne rimaneva più molto e del resto neanche lui si ricordava quand’è che avesse iniziato a fingere, né come fosse realmente prima di allora.

I ricordi erano vaghi e confusi e della sua famiglia non gli rimaneva più molto, se non il sapore dolciastro e viscoso di alcune gocce di sangue fraterne che gli schizzarono sul volto.

Quello fu un lavoro che gli aveva lasciato il segno: non fu rapido o indolore; no, uccidere un fratello non poteva essere neanche considerato un semplice lavoro. Era qualcosa di troppo personale, di intimo. Cerco di ricordare quanti anni avesse avuto o quanto tempo fa fosse accaduto esattamente, mentre sentiva il bel seno di Sien Sien i cui capezzoli si erano inturgiditi per la tensione premere contro il suo petto.

Persino la sequenza degli accadimenti cominciava ad essere confusa.

Vedeva solo chiaramente lo sguardo terrorizzato di lui che aveva capito cosa stava succedendo, e che tutti i suoi sospetti erano veri.

Suo fratello era sempre stato un tipo con tanti pregi: raccontava delle barzellette incredibilmente divertenti, ballava come un divo di Hollywood, era un brillante finanziere, con le donne ci sapeva fare ma delle volte era eccessivamente approssimativo; avrebbe dovuto scegliere meglio il killer da ingaggiare per farlo fuori. L’aveva scoperto quasi subito e ucciderlo non era stato molto difficile. A quel punto era una questione di sopravvivenza e la cosa divertente era che fino a l’ultimo era sempre stato indeciso se ammazzarlo o no. Gli parve di sentire ancora nella mano destra, la sensazione della lama spinta nel ventre e poi, con un gesto rapido del polso, mossa in modo tale da aprirlo, mentre l’altra mano tappava la sua bocca.

Suo fratello piagnucolò qualcosa e si era sempre chiesto cosa fosse. Forse gli chiedeva di risparmiare la sua famiglia: sua moglie, i bambini.

Lui invece avrebbe voluto dirgli che non poteva, che non si lasciava mai qualcosa di iniziato a metà e che loro l’avrebbero seguito di lì a pochi istanti nel mondo delle ombre.

Aveva preparato tutto con cura. La cognata soffriva da due anni a quella parte di gravi turbe psichiche ed aveva avuto più di una volta degli attacchi di ira violenta. Una volta aveva minacciato il marito con un coltello davanti alla servitù ed era stato questo ad avergli dato l’idea per il suo piano.

La polizia disse che la moglie, durante un attacco dei suoi, aveva accoltellato e squartato il marito nel sonno. Poi era andata in camera dei bambini e li aveva soffocati con un cuscino e, aveva ucciso con quattro coltellate la balia che era andata a controllare dopo aver sentito dei rumori e si era tolta la vita infilandosi nella vasca piena d’acqua e aprendosi le vene con l’arma con cui aveva ucciso gli altri due adulti. Una vera tragedia.

La parte più penosa per lui era stata quella di uccidere i bambini davanti alla loro attonita mamma e poi c’era stato l’imprevisto della balia. Molto brava a fare i pompini ma decisamente inopportuna.

Per anni pensava di averla fatta franca ma l’MK Ultra la sapeva lunga, molto più di lui e così aveva dovuto dire addio alla sua vita e divenire il Camaleonte.

E del resto, gli dispiaceva?

No. Nessun rimorso, nessuna responsabilità. Tutto sommato lui e Tang erano veramente uguali ora. Morti entrambi. Entrambi fantasmi tenuti in vita da una recita destinata prima o poi a finire ma, fino a quel momento, reali quanto lo erano gli altri.

Zang e l’ufficiale della squadra cino-vietnamita stavano correndo ventre a terra, riparati da alcuni capanni, diretti dalla parte opposta del fiume, verso il sentiero di Ho Chi Min. Lì sicuramente li aspettavano i loro uomini. Janguy li stava guidando e quello era il momento.

Non disse nulla, la guardò solo un’ultima volta negli occhi.

Fu allora che lei capì perché quello non poteva essere lo sguardo della persona che aveva amato più di sé stessa.

 

Janguy cadde sotto i colpi di Bucky, il volto riverso nella fanghiglia e nella paglia, la nuca esplosa in tanti pezzi per effetto dei due proiettili.

“Effetto Kennedy” aveva allegramente battezzato quella tecnica per portare morte l’infallibile cecchino.

Subito il Camaleonte si parò davanti al gruppetto di vietnamiti che seguiva l’ex capo villaggio e per poco non gli spararono dalla sorpresa. Deglutì pesantemente per averla scampata bella e subito si offrì di guidarli al posto dell’anziano appena deceduto.

L’ufficiale gli pose una mano sulla spalla, lodando il suo coraggio e tutti cominciarono a seguirlo, inconsapevoli di aver davanti a sé non già la salvezza ma la loro rovina.

 

 

FINE DELL’EPISODIO.

 

Un grazie speciale a tutti quelli che leggono i miei racconti e a tutti quelli che collaborando, li rendono possibili.

Un saluto a tutti voi.

 

Per commenti, critiche, suggerimenti e proposte:

 

spider_man2332@yahoo.com