MARVELIT
presenta:
40
anni (e 40 pagine col titolo) di
ON THIS NIGHT OF A THOUSAND STARS
C’era
una sera come tante altre, o almeno poteva sembrarlo, c’erano un palco
improvvisato e luci artificiali, c’erano tende di rosso velluto a celare uno
spettacolo che per molti sarebbe stato una completa sorpresa, alcune sedie
vuote sulle ultime file erano riservate agli attori che sarebbero saliti sul
palcoscenico per quello che sarebbe sicuramente stato un singolare evento.
Una
scuola, una casa, una famiglia di figli e genitori di colori, nazionalità,
lingue e accenti diversi.
La
platea si agitava in un chiacchiericcio sommesso mentre, di tanto in tanto,
dalle tende del palco spuntavano, non visti, gli occhi curiosi degli attori
inesperti che quella sera avrebbero avuto il loro piccolo ritaglio di
notorietà.
Qualcuno
dalle prime file riuscì a sentire la voce, squillante e agitata di Kitty,
voltarsi verso i compagni esclamando “c’è un sacco di gente!”
Qualche
occhio più attento scorse il viso di Bobby che, cercando goffamente di
nascondersi dietro il sipario, curiosava tra i volti della platea.
I
visi erano più o meno tutti conosciuti, alcuni erano studenti arrivati da poco,
altri erano amici da tanti anni e da tante avventure, l’atmosfera di attesa
trepidante si percepiva intensamente; cera chi si aspettava uno spettacolo
memorabile, chi un fiasco e chi, non avendo ben capito cosa sarebbe successo quel
palcoscenico, aspettava semplicemente l’uscita degli attori.
Le
luci brillanti in tutta la sala si spensero a coppie affondando lentamente il
teatro nell’ombra, il brusio che diminuiva armoniosamente con l’aumentare
dell’oscurità.
La
platea rimase immersa nel buio e nel silenzio più totali per alcuni momenti che
lasciarono il pubblico col fiato sospeso, poi, dal nulla il cigolio elettronico
di una sedia a rotelle, che tutti gli abitanti della casa avevano imparato a
conoscere bene, si insinuò nella tranquillità ansiosa della sala fermandosi
solo quando l’uomo che la portava non si trovò al centro della scena.
Fu
allora che il riflettore si accese con uno scatto illuminando la scena e la
figura di un uomo calvo, il cui volto non mostrava particolari emozioni,
guardava davanti a se senza parlare… ma non ha importanza, anche senza parole
sa come farsi comprendere.
Lo
spettacolo, di cui da tanti giorni si parlava, aveva in quel momento inizio, e
anche i più scettici restarono in silenzio ad osservare...
Charles Xavier: I still have a dream
di Carlo Monni
*Il mio nome è Charles Francis Xavier e
sono un mutante. Una verità semplice, che ha condizionato la mia intera
esistenza. Fin da bambino ero in grado di percepire istintivamente non tanto i
pensieri, quanto gli stati d’animo della gente intorno a me. Era la mia
telepatia ancora allo stato embrionale. Solo con la pubertà essa si manifestò
completamente e più s’intensificava, più io diventavo calvo, quasi che la
natura volesse dirmi: - Attento Charles, non puoi avere tutti i vantaggi. Lo confesso, il mio primo istinto fu di
approfittarmi di questi poteri: ottenere bei voti leggendo le risposte nella
mente dei professori, eccellere nelle discipline sportive anticipando le mosse
degli avversari, avere successo con le ragazze con piccoli interventi sulla
loro psiche. Ero arrogante e mi sentivo superiore. Poi vennero i sensi di
colpa. I miei genitori mi avevano insegnato che non bisogna approfittarsi degli
altri, che chi è più fortunato, più dotato non può e non deve comportarsi come
se fosse superiore. Scelsi di seguire quei principi, mi ritirai dallo sport e
decisi di non usare mai più i miei poteri a mio solo ed esclusivo vantaggio.
Ero un solitario all’epoca: i miei genitori erano morti che ero poco più di un
bambino, non avevo avuto il tempo di conoscerli quanto avrei voluto e ne
sentivo molto la mancanza. Mio padre era uno scienziato nucleare e forse questo
può spiegare la mia mutazione o, forse è solo una scusa di comodo per spiegare
qualcosa che non ha una vera spiegazione, è avvenuto e basta. Dopo la laurea mi
arruolai nell’esercito; mentre ero oltremare, la donna che amavo e da cui ero
convito di essere amato, Moira Kinross, una caparbia e testarda scozzese, mi
scrisse, dicendomi che avrebbe sposato un altro. Mi sentii tradito: perché
questa decisione improvvisa? Non pensavo di avere fatto qualcosa per meritarlo.
Forse fu per questo che, al congedo, non ritornai in patria, ma presi a
viaggiare per il mondo. Ero in cerca di uno scopo, di una direzione per la mia
vita e dietro di me non avevo lasciato nulla che valesse la pena rimpiangere, o
così credevo. Viaggiai per molti paesi e scoprii quanto può essere malvagio un
uomo. Ma conobbi anche la speranza. In Israele conobbi una donna che aveva
fiducia in me ed io ne approfittai per poi lasciarla come io ero stato
abbandonato; anni dopo, seppi che avevo avuto un figlio da lei, un ragazzo che
non ho mai veramente conosciuto per pio perderlo per sempre… forse. Durante
quel periodo conobbi un uomo che si sarebbe rivelato la mia costante nemesi e
mi trovai preso nelle trame di un pazzoide nazista; in Egitto incontrai forse
l’uomo più corrotto e malvagio che abbia mai conosciuto ed, infine, in Himalaya
mi battei contro un essere alieno che schiavizzava una pacifica comunità e,
nello scontro con lui persi l’uso delle gambe.
Fu mentre giacevo nel letto di un
ospedale ed affrontavo i dolori di una riabilitazione che i miei poteri mentali
non potevano aiutarmi a superare, che capii quale doveva essere il mio scopo.
Il mondo si stava riempiendo di mutanti,
un piccolo numero nei decenni passati, una marea presto. Sarebbero stati preda
di un mondo che li avrebbe temuti e forse anche odiati, com’era avvenuto per
gli Ebrei nel corso dei secoli, o, comunque, disprezzati, destino comune a
molte minoranze, perché l’uomo teme sempre ciò che è diverso e spesso cerca di
distruggerlo. Ma anche l’Umanità sarebbe stata in pericolo nei confronti di
chi, ottenebrato dall’ira o dalla superbia, accecato dal potere avrebbe cercato
di usare quel potere per ottenere la supremazia sui comuni esseri umani.
Cosa poteva essere fatto? La risposta mi
venne spontanea: una scuola, un istituto in cui tutti i mutanti avrebbero
potuto imparare a conoscere se stessi, i propri poteri, i propri limiti. Non
potevo decidere per loro, ma potevo offrire loro una scelta: seguire la via
della violenza e della sopraffazione o quella della mano aperta,
dell’integrazione. Sarei stato il loro insegnante, la loro guida. Un programma
ambizioso, ma non avevo dubbi che fosse la strada giusta. Tornai a casa,
riaprii la vecchia tenuta di famiglia e la trasformai nella mia Scuola Privata.
Cominciarono in cinque ed erano molto,
forse troppo, giovani, ragazzi forgiati dalla mia stessa ambizione in
combattenti di battaglie forse troppo grandi per loro, ma che affrontarono con
coraggio e determinazione, superando le mille avversità delle vita. Gli anni
sono passati ed io e loro siamo cambiati, com’era giusto che accadesse.
Col tempo, molti altri si sono aggiunti
al primo nucleo, pian piano, la scuola si è riempita. Alcuni sono rimasti,
altri hanno seguito altre strade: alcuni di loro sono giunti all’estremo
sacrificio per il loro prossimo ed i loro volti ed i loro nomi sono scolpiti
per sempre nella mia memoria.
Spesso mi sono chiesto perché l’ho fatto,
se non ho commesso un supremo peccato d’orgoglio nel forgiare le loro vite per
un ideale che era solo mio, poi ricordo quello che un uomo buono disse molti
anni fa, prima di essere vigliaccamente assassinato: - Ho fatto un sogno…- un sogno di armonia e pace fra gli uomini,
il sogno di un mondo non ci saranno differenza tra mutanti e non, in cui gli
esseri umani saranno giudicati senza riguardo alla razza, al credo religioso,
agli orientamenti sessuali o alle anomalie genetiche. È anche il mio sogno e,
per quanto esso sembri un’utopia, io credo che valga sempre la pena di
combattere per esso.
Il mio nome è Charles Francis Xavier, e
sono un mutante, ma in definitiva io, come tutti voi, sono soltanto un membro
di questa grande famiglia chiamata Umanità*
I riflettori si spensero e la figura rientrò
nella penombra, non c’era altro da dire.
Scott Summers: Il
sottoscala
di Sundy
Le mani giunte dietro la schiena, le spalle tese di un uomo incapace di rilassarsi, gli occhiali rossi che lo privavano di metà delle sue espressioni. Quando la luce tagliente del riflettore si accese su di lui, scolpendo nel bianco e nel nero i piani e le linee della sua figura, Scott era in piedi, al centro della scena. Le mani strette saldamente l’una nell’altra, gli occhi bassi, come quando era bambino e non riusciva a guardare in faccia nessuno, le gambe ben piantate a terra, salde come quando doveva affrontare un nemico. Attorno a lui il silenzio. Silenzio di una piccola folla, il pubblico di un teatro improvvisato, ragazzi soprattutto, gli stessi ragazzi che affollavano i corridoi di quella enorme costruzione che il suo cuore chiamava ancora casa. Le spalle di Scott Summers si sciolsero mentre le sue mani si separavano per andare a stringersi sulle sue braccia, piegò la testa da un lato e guardò il suo pubblico.Le labbra si mossero con un fremito
- Non vi parlerò delle cose di cui sentite parlare di solito- la sua voce era sommessa, quasi carezzevole, eppure chiara, trasparente. - Non vi parlerò di doveri, diritti, di onore e coscienza collettiva. Non vi parlerò di nessuna causa da difendere stasera. Non vi parlerò di grandi cose. Effettivamente non so di cosa vi parlerò esattamente, non sono uno a cui riesca bene parlare molto, e non ho studiato nessuna parte. Senza occhiali forse potrei vedere qualcuna delle vostre facce oltre il riflettore, ma questo schermo rosso mi riduce molto il contrasto, posso immaginarvi, ma non sono bravo a immaginare… e quasi mai le persone a cui si raccontano le grandi storie hanno una faccia precisa. Ma io non vi parlerò di grandi storie, stanotte.
Voglio raccontarvi di un mostro. Un piccolo mostro che non vale l’aria che respira, un mostriciattolo tutto occhi, pelle e ossa, un mostro che non è facile vedere, perché si nasconde nel buio, e quando esce alla luce è così sottile da non lasciare neanche la sua ombra per terra. Sono certo che, anche senza saperlo, lo avete incontrato molte volte. È qui. Invisibile come sempre. Era piccolo come un seme non germogliato, e stava nascosto aspettando che la luce gli aprisse gli occhi.
Contrariamente a quello che si crede, i mostriciattoli sono incredibilmente sensibili all’amore.
Non vi parlo di grandi cose, ma di ciò che ho vissuto sotto questo stesso cielo di mattoni crollato mille volte. C’era un piccolo mostro che è stato baciato di nascosto sulle scale dell’ingresso, una notte di tanto tempo fa. Che ha chiuso e riaperto gli occhi. Che è stato felice.
Non sono grandi cose queste, ma vorrei parlarvi di ciò che di bello conosco. E prima di ogni altra bella cosa viene ciò di cui parlavo prima. Io sono stato amato. La mia vita è la conseguenza di ogni atto d’amore che l’ha caratterizzata.
Siete mostri nel buio, al di là della luce di questo riflettore. Ma siete insieme ad altri mostri, che vi ameranno. Eravamo piccoli mostri nel buio, anche i più belli di noi. Ci siamo amati, e siamo cresciuti. Questa è la nostra storia. E non ha nulla di grande
Abbiamo fatto grandi sogni, ma non sarò io a parlarvene. Io non voglio parlarvi di grandi cose. Non ne sono capace. Che i miei occhi sul mondo ne parlino anche per me. Io vi parlo di un mostriciattolo impaurito che guardava sempre per terra e non sapeva toccare nessuno. Che è stato amato, e chiunque la vedrà capirà perché la vita mi ha dato tanto, dandomi lei. Che è stato felice..
Che ha imparato. Che non imparerà mai. Che ha sognato. Che è stato qui, che è ancora qui. Vorrei dirvi il perché, ma non vi parlerò di cose grandi. Non io..-
Scott fece un passo indietro, uscendo dalla luce del riflettore, con le mani ancora strette intorno alle spalle ed un’ombra di sorriso sulle labbra. Un pianoforte dietro le quinte iniziò a suonare due o tre note frammentate, mentre la luce si spostava sul fondo dell’auditorium.
Erano la mani invisibili di Jono Starsmore, che nascosto
nell’ombra, dava a quel pianoforte la voce che lui non aveva più. Le prime note
di una vecchia canzone in cui Jono, solo dietro la tenda, scioglieva con il
noncurante abbandono dei suoi viaggi al centro della musica quell’atmosfera di
malinconica irrecuperabilità da festa dell’ultimo anno del liceo…
Jean Grey in: Elaborate Lives
di Lucky
Jean entrò dalla porta in fondo alla sala, percorse il breve tratto che la separava dal palco, salì i gradini con seducente eleganza e si fermò sotto alla luce giallastra che aspettava soltanto le sue parole; da lì si accorse che la platea non era altro che una distesa di persone che, nascoste dall'ombra dei riflettori nei suoi occhi, non sarebbe riuscita a riconoscere.
I capelli rossi sparsi ordinatamente sulle spalle, un tailleur bordeaux che faceva sembrare sua pelle chiara ancora più pallida, quasi luminosa.
Jean, ferma davanti al microfono, cercò dentro di se quella forza che aveva sempre trovato per combattere, la trovò placida come un fiume scorrere dentro la sua mente, il suo corpo, le sue vene, chiuse gli occhi per poi riaprirli più consapevole e coraggiosa, inalò un lungo sospiro e le sue labbra si schiusero per parlare
- Ho fatto un sogno- la voce bassa si sparse nella sala amplificata dal microfono - la scuola era deserta nel silenzio della mia illusione.
Entravo dal portone principale, in punta di piedi, senza scarpe camminavo tra i corridoi, le sale, le aule, ascoltavo il silenzio, guardavo attraverso la luce di un ombra brillante che illuminava fiocamente ogni stanza.
Nell’impenetrabile calore emanato da quel silenzio spettrale, ma conciliante, mi fermavo ad occhi chiusi, ad assaporare l’impercettibile movimento dell’aria che mi circondava e mi abbracciava.
Le palme dei piedi catturavano il dolce brivido del pavimento trascinandolo su per le gambe, fino alle ginocchia e le labbra socchiuse assaporavano il gusto agrodolce di quel momento.
Ferma, al centro del mio mondo, mi sentivo cullata come in una nuova nascita, non c’era disagio, la tranquillità che traspirava dalle solide pareti solitarie mi trasmetteva un senso di pace profondo.
Pareva tutto isolato, abbandonato, eppure in quella desolazione non mi sentivo persa, né triste… Ero a casa, dopotutto.
Rimanevo ferma in quella posizione per un tempo che la mia mente calcolò come interminabile, poi muovevo un passo, e un altro, cominciavo a seguire gli echi di sirene che canticchiavano melodie nascoste dalle mura della casa.
Attraverso il corridoio, piano, la mia mente si apriva, si adattava ad un sogno che pretendeva di vivere, assorbire e sottrarre sensazioni all’oblio che le avrebbe trascinate con se al mio risveglio.
La vita nascosta della casa si stava schiudendo al mio miraggio notturno, ad ogni movimento i piedi nudi si abituavano al freddo del pavimento, le orecchie percepivano nuovi rumori nascosti, l’olfatto assaporava odori segreti e preziosi, la vista restava cieca lasciando spazio agli occhi della mente. Sean al pianoforte suonava ballate irlandesi, rievocato da uno dei più remoti angoli della mia mente, oggetti abbandonati con cura, pensieri che si stendevano sulle sedie della cucina, sagome indistinte in una partita a scala quaranta, Remy barava come suo solito, Logan fumava il sigaro e cercava di seguire il gioco in compagnia di una bottiglia di birra, Bobby non aveva sconfessato il senso dell’umorismo nemmeno con le tredici carte ancora tutte in mano e punzecchiava Warren che stava perdendo un'altra volta, anche se era sceso già al primo giro.
Riuscivo a udire lo scrosciare della pioggia di Ororo bagnare e curare le piante della sua amata serra, nella soffitta, ordinarie magie private di cui la casa viveva e di cui le mura potevano raccontare i segreti. Arrivavo a sentire l’odore delle tempere di Peter mosse piano dalla sua mano esperta, da macchia confusa di colore quali erano sarebbero diventate un dipinto.
Rogue quando diventa triste si rifugia sul tetto, e lì avevo trovato il suo spirito più nascosto, raggomitolato in un dolore personale e insistente, ma pronta a prendere il volo quando il grigiore sarebbe svanito.
Camminavo ormai acquistando sicurezza in ogni passo, padrona di quanto la mia mente stava generando, curiosa di cosa avrei trovato nella prossima stanza, nella prossima immagine sfocata che gli spiriti nati dall’incoscienza avevano creato.
Sordi rumori arrivavano dalla biblioteca, entrando trovai il tavolo sommerso di libri dai titoli impegnati, spesso in lingue straniere, grossi volumi rilegati, antichi testi dalle pagine leggermente ingiallite. Una vecchia scala, che non aveva mai voluto sostituire, reggeva la possente e pelosa figura del dottor McCoy, il mio amico Hank, che sfogliava freneticamente le facciate, alla ricerca di chissà quale nozione, che non era riuscito a scovare nei recessi della sua grandiosa mente.
Nel cammino distinguevo sempre di più gli odori, le figure sfocate, i sapori… il rumore sommesso delle preghiere di Kurt arrivò a scaldarmi il cuore con una carezza velata. Oltre la porta lo trovai in ginocchio, le mani giunte e il capo chino, a rimettere i suoi peccati ad un Signore che ogni giorno ci guida e protegge mentre poco lontano Kitty si ingegnava indaffarata sul suo computer canticchiando Lady Marmelade mentre Lockheed le svolazzava intorno alla testa.
Sapevo che stavo per svegliarmi, sapevo che qualcosa avrebbe interrotto i miei legami col sogno, ma c’era un ultima stanza che dovevo trovare, mi affrettai riuscendo a sentire il rumore dei miei passi che si scioglievano a terra, lungo l’ennesimo corridoio, per quei percorsi identici l’uno all’altro che avevo imparato a riconoscere.
La porta della Stanza della Guerra celava i miei ultimi istanti di sonno, Scott era seduto su una poltrona di fronte a me, immobile, le mani intrecciate sotto il mento, un ombra scura sulla quale rilucevano gli specchi di due lenti rosse.
Ricordo che in quell’unica volta, nel sogno, mi mossi per mia volontà…
e quando la pendola della sala mi svegliò con i suoi dodici rintocchi mi trovai ancora ferma, con la mano protesa nel vuoto-
Tacque. La mano sollevata davanti al volto, gli occhi verdi accesi ancora di quella visione onirica, trasfigurati nella luce che lentamente si affievolì. Jean rimase immobile, paralizzata nell’ultima scena del suo sogno, mentre la forza invisibile del suo pensiero la trascinava, come Euridice, indietro, nell’ombra. Scott la aspettava dietro una tenda con le mani ancora incrociate sul petto ed un mezzo sorriso pensoso sul volto. Non la guardò negli occhi, ma quando gli fu accanto, nell’ombra, le prese la mano tra le sue, e non aggiunse altro.
di Valerio M. Pastore
Il palco era buio. Il silenzio quasi sacrale spezzato da commenti occasionali, bisbigliati a fior di labbra, ed altrettanto sussurrati rabbuffi.
Passarono un paio di minuti, in attesa degli inevitabili passi sul legno, che avrebbero annunciato l’entrata in scena del prossimo attore di questa strana commedia chiamata vita.
Le
luci si accesero, inondando il palco. E l’attore era già lì, in una mirabile
posa plastica melodrammatica. I suoi soli abiti erano un paio di boxer blu,
intonati perfettamente alla pelliccia che ricopriva il suo corpo. Un paio di
occhialini a montatura tonda, appositamente adattati, poggiavano sul suo muso
felino. Nessuna sorpresa che non lo avessero sentito arrivare. In fondo, era
una cosa così semplice.
Nella
mano/zampa destra, la creatura reggeva una boccia colorata di rosso, con una
grossa X nera bordata di oro. Le orecchie tonde fliccarono leggermente, quando
iniziò a declamare
-
Essere, o non essere? Questo è il problema!-
Le brevi risatine che qualcuno accennò dal pubblico si smorzarono all’istante quando la Bestia aggiunse, - Che sia più giusto accettare la propria natura, o combatterla fin quando fiato ci resterà in corpo?
- Quale strale divino ci forgiò ad immagine del caos? O siamo i figli di un ordine che neppure noi riusciamo a intravedere?- La Bestia cessò la posa. Tenendo la boccia fra le zampe, si avvicinò ad una sedia semplice, di legno e vimini, e si mise accosciato sulla cima dello schienale, in una posa simile a quella della celebre statua del Pensatore.
- Per la cronaca, e per i posteri, il mio nome è Hank McCoy. Sembro un peluche, ma quando i miei poteri mutanti si manifestarono, assomigliavo ad ogni altro essere umano. Poteri…- ridacchiò. - Parola grossa: in realtà, avevo acquisito un’agilità che Cita mi avrebbe invidiato, ed ero diventato un quadrumane, come un gorilla. Non stavo più nelle scarpe, mamma è impazzita per trovare qualcosa che mi andasse.
- I miei genitori, Trevor ed Edna McCoy: persone meravigliose, delle vere perle rare. Devo essenzialmente a loro l’avere mantenuto uno spirito saldo nelle avversità; mi sono stati vicini in ogni momento, in quegli anni di guerra fredda e paranoia istituzionale. La fobia mutante era agli albori, ma mai una volta i miei genitori mi guardarono storto, o con paura…
- Quando il Prof. Xavier ci fece visita, per propormi di studiare al suo ‘Istituto per Giovani Dotati ’, la mia fama di studente era già crollata di brutto. Avevo impedito un attentato, ma ero diventato il mostro, ed il nomignolo di ‘Bestia’ che mi ero guadagnato nel football ora era un insulto. Ed ero molto meno affascinante di adesso-
Risatine dal pubblico.
- Non ci siamo mai persi di vista. Papà e mamma mi hanno sempre tenuto informato sugli sviluppi delle loro vite, ed io fui prodigo di notizie su di me e sulla scuola per loro. Come quando arrivai, il primo giorno; mi ripetevo mentalmente di non cedere al fascino del nuovo ambiente, di mantenere un atteggiamento razionale…Ma quando il Prof mi mostrò la sua biblioteca personale, credetti di essere arrivato in paradiso.
- Inutile dire che con gli altri studenti, noi primi X-Men, mi sentii a mio agio subito. Anzi, credo che ne sappiate voi più di me, sull’argomento. Vi promuovo sul posto, e ci risparmiamo il tedio…fino a quando non diventai blu per la prima volta. O, meglio, fino alla prima volta che ci pensai per davvero.
- All’inizio fu un’esperienza esaltante, sapete? Usando il fattore mutageno che avevo estratto, ero riuscito ad esprimere le mie potenzialità in modo più…efficace. Non c’era solo il look che ha fatto impazzire milioni di cuori femminili, ma i sensi più acuti, più forza…insomma, ne ero soddisfatto.
- Pensai a Charles, ai miei compagni di squadra, e a quanto bene avrei potuto fare per la causa mutante, adesso…Poi, pensai ai miei genitori.
- E non fui più tanto felice. Insomma, non mi sentivo un mostro, ero sempre il vecchio, amabile ‘io’. Eppure, come potevo tornare dai miei e dire loro ‘Salve, è un po’ che non ci si vede, mi siete mancati…oh non fate caso al fatto che vostro figlio è davvero una bestia, adesso!’ I miei genitori mi amavano, ma come potevo aggiungere un simile fardello alle loro spalle? Come minimo la gente li avrebbe costretti a nascondersi.
- Del resto, non potevo neanche sparire, smettere di farmi sentire come se niente fosse. Credo che avrebbero davvero rovesciato il mondo come un guanto per avere notizie di me…Così, ricorsi alla soluzione meno ‘indolore’ possibile: scrissi loro una lunga lettera, ma non osando allegare una foto. Fui prodigo di dettagli, e papà, che è uno scienziato, avrebbe saputo capire a sufficienza. Naturalmente mi stavo ingannando, stavo facendo una tempesta di un bicchier d’acqua, ma per la prima volta nella mia vita, la mia trasformazione mi aveva spaventato-
Con un salto, la Bestia fu di nuovo a terra. - Jean, mia cara, vuoi..? Ah, grazie.- L’invisibile forza della mente mosse alcuni oggetti verso Hank, che li afferrò uno ad uno in una specifica sequenza -prima un sottile bastone, che lui posò in equilibrio sul largo naso leonino, poi una palla da spiaggia, che lanciò con eccellente mira in cima al bastone, ed infine delle altre bocce rosse con la X nera, con le quali si improvvisò giocoliere. Ci fu qualche applauso dal pubblico. - Alla fine, era tutta una questione di equilibrio, dosare le forze, gli impegni, le responsabilità. Era un bel casino, ma noi X-Men siamo sempre stati maestri nello svicolare. Tornai nella squadra, lavorai con i Vendicatori, feci qualche duetto con Wonder Man…Oh, e i miei genitori risposero subito alla mia lettera. Mio padre mi diede uno schiaffone d’inchiostro per osare commiserarmi come un mutante alla prima manifestazione dei suoi poteri, e aggiunse che se avessi osato mollare tutto perché avevo tanta paura per loro, sarebbe venuto a prendermi a calci fino al Montana. Papà è severo, ma buono; quando si arrabbia, però, sembra Charles, solo con più capelli…Op!- con uno scatto della testa, lanciò il bastone in aria. Allo stesso tempo, lanciò le bocce verso il pubblico. Un raggio vermiglio partì dalla prima fila; le sfere furono colpite una dietro l’altra, ed esplosero in innocui ma stupendi fuochi artificiali e coriandoli luminescenti.
Il bastone atterrò per primo fra le zampe della Bestia, che con uno scatto secco del polso lo fece ridurre a dimensioni di quelli usati dai ballerini di tip-tap. La palla giunse a terra un attimo dopo, e lui vi saltò su. Sempre fra gli applausi del pubblico, iniziò a percorrere il palco in lungo e in largo, al contempo facendo roteare il bastone. Un cappello di paglia fu telecineticamente posato sulla sua testa.
- Voi siete la mia famiglia, gente, i vecchi ed i nuovi, che siate figli di madre Terra, dello spazio o di un tempo che avrebbe potuto essere. Ci conosciamo così bene che ogni cronistoria delle nostre imprese vi suonerebbe come minimo ripetitiva, così come i racconti della nostra vita quotidiana. E la nostra audience merita di meglio, comunque - Saltò dal pallone, compì una doppia capriola volante, ed atterrò nel mezzo del palco.
Uno
specchio lungo emerse da una botola. Nel metterglisi davanti, McCoy assunse una
posa da top-model del body building, e sfoderò uno splendido sorriso zannuto. -
*MMrroww*, che fusto. È una cosa rara che un supercattivo, per giunta un
‘Reverendo’ faccia un favore a noi buoni, ma ‘sta volta non posso lamentarmi
del servizio-
Le luci si spensero. Si udì solo il ronzio della piattaforma che aveva portato su lo specchio.
Passarono un altro paio di minuti. Poi, improvvisamente, del vento si levò sulla spartana scenografia. Il buio fu rotto dalle intermittenti, erratiche luci di fulmini! Sottili gocce di pioggia spruzzarono la scena. Foglie secche si mossero nel vento.
Un cono di luce azzurra investì la figura della Bestia, ora avvolta in un lungo impermeabile color crema, alla Humphrey Bogart, e un cappellaccio a larghe falde sempre stile Bogey. Il muso spuntava appena dal colletto rialzato, e gli occhi gialli dalle pupille a fessura sembravano non giocosi, ma…minacciosi.
- La storia si ripete, dicono,- anche il suo tono di voce era cupo. Il pubblico non sapeva più cosa aspettarsi da una recita così mercuriale. - Nel bene o nel male, il destino talvolta offre a tutti noi una seconda chance. E una terza, e una quarta…ma sto divagando, vero?
- Divagavo con me stesso anche quando venne il momento di parlare con i miei…su questa mia nuova condizione. Credevo di essermi lasciato alle spalle le indecisioni, la paura del rifiuto, i dubbi su me stesso…E invece, come la prima volta, ero lì che me la facevo sotto all’idea di fare venire un colpo ai miei genitori.
- Avevo paura, certo, ma questa volta non mi sarei affidato ad una lettera. Chiesi un permesso, e andai a visitarli nella loro fattoria. Oh, Jean, per favore, predisponi un bel link telepatico. Gli ologrammi non rendono bene, temo. Sì, molto bene ora.
- Dunque, era una notte buia e tempestosa...-
Posso immaginare la premura di mia madre nel venire al rispondere alla porta. Con un tempaccio del genere, che Dio la benedica sempre, non aveva immaginato che avrebbe potuto essere un serial killer o un Testimone di Geova. No, lei e papà avranno pensato a qualcuno che, in quella nottataccia, era nei guai con la macchina o qualcosa del genere.
La porta si aprì di uno spiraglio, e il volto di lei fece capolino. - Sì..? Oddio…-
Fu un attimo. La vidi sgranare gli occhi, e per un terribile momento mi convinsi che lei sarebbe come minimo svenuta. Poi la porta fu spalancata. - Hank!-
- Uh…ciao, mamma…- mi aveva riconosciuto! Ero talmente diverso dal figlio che conosceva, e mi aveva riconosciuto senza esitare. Dio, avevo voglia di abbracciarla, e lo feci. Era così minuta, e mi sentivo come se stessi abbracciando un ovetto.
Lei ricambiò l’abbraccio, e dopo così tanto tempo speso a salvare il mondo, mi sentii protetto come un bambino. Era bellissimo…
- Uh, Hank..? Stai gocciolando -
- Ops.- Era vero. Indossavo solo i boxer, e credo che assomigliassi più a un gatto bagnato che alla terribile Bestia. Mamma sospirò. - Fammi chiudere la porta…ecco. Ora aspettami qui, che mi cambio e ti porto degli asciugamani. Ho pulito i pavimenti, stamattina, e non credo che le pattine basterebbero con te.-
Mentre la guardavo dirigersi verso le scale, sentii un’altra voce inconfondibile che mi fece saltare il cuore. - Edna? Ti ho sentito fare il nome di…Hank?-
- Ciao pa’.-
Il suo stupore si trasformò in un sorriso smagliante. - Stelle e strisce! Figliolo, che bella sorpresa…-
Io indietreggiai di un passo. - Uh, non credo che sia il caso. Mamma non ne sarebbe felice, temo.-
Lui avanzò lo stesso. - Una bella stretta di mano, allora. Forza, non fare il timidone!- Stese la sua mano, ed io ricambiai. Nei suoi occhi vidi una familiare scintilla di curiosità scientifica, mentre mi squadrava come fossi stato un esemplare interessante -non lo biasimai, per questo. Era uno scienziato, le mutazioni lo affascinavano, ed io ero il sogno del Dr. Moreau divenuto realtà…
La mamma tornò con gli asciugamani ed un paio di boxer. - Spero che ti vadano. Non ammetterò un figlio fradicio a tavola - Mi passò la roba, e mentre mi asciugavo, lei si diresse verso un'altra stanza. - Secchio e spazzolone arrivano subito: tu hai bagnato, e tu asciughi, caro…-
Le luci si accesero ora su una Bestia intenta ad un solitario su un elegante tavolino. Hank fumava una bella pipa.
- Il resto della serata fu trascorso fra amabili chiacchiere ed una cena deliziosa. Non una sola volta i miei sfiorarono l’argomento del mio nuovo look. Erano contenti di vedermi vivo e in buona salute, e ancora una volta ebbi la conferma che mi ero preoccupato per niente. Mi fecero conoscere i loro vicini, e credo che ad uno di loro siano venuti i capelli bianchi…Ma i miei si erano fatti molto benvolere, e nessuno prese torce e forconi. L’unico neo della giornata fu quando gli animali percepirono il mio odore ed andarono giù di testa. Dovetti tenermi lontano dagli allevamenti, ma in fondo fu una giornata spesa bene. Molto bene. Scusate se non scendo in particolari, ma è un piccolo tesoro che preferisco tenere per me, per ora.-
Le luci si spensero. Quando si riaccesero, la Bestia era vestita con pantaloni, stivali metallici sagomati per le sue zampe, maglietta nera con una grossa X gialla e giubbotto in pelle nero. - E così, il mio spettacolo finisce qui. Abbiamo fatto molti progressi, siamo maturati, abbiamo sofferto e gioito; come ogni essere umano e vivente che si rispetti. Mutiamo, ma siamo rimasti noi stessi. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro, ma lo percorriamo insieme.
- Siamo una grande famiglia, lottiamo per un sogno di armonia umana e mutante. Spero che non me ne vogliate se vi dico che io combatterò soprattutto perché ci siano più famiglie come la mia, dei McCoy, famiglie che vogliano bene ai loro figli e parenti mutanti senza riserve. Perché è da lì che parte il seme per una società migliore. Grazie.- Fece un profondo inchino con il braccio destro esteso e il sinistro al petto.
Applausi e giochi di luce salutarono le sue parole, congratulazioni espresse in tante lingue e dialetti…
Warren
Worthington III: A Rainy Night’s Tale
di Fenny
My wounds cry for the grave, my soul cries for deliverance
Il sipario di pesante velluto rosso si alzò lento mostrando una scena
accuratamente preparata; una scrivania mostrava la sua imponente presenza
invadendo il palcoscenico, Dietro ad essa, seduto, un uomo in giacca e cravatta
si perse ancora qualche istante nei suoi pensieri poi si alzò, e le sue grandi
ali bianche conquistarono lo spazio attorno a lui, a passi lenti raggiunse il
cerchio di luce, guardò in alto verso il raggio che lo incorniciava e iniziò a
raccontare
Non ho ricordi molto nitidi di quella sera. Quello che mi è rimasto
impresso è il buio. Fuori e dentro. Buio. Stanza buia. Notte buia. Anima buia.
Me ne stavo seduto con gli occhi sbarrati e un gran freddo dentro. Avrei tanto
voluto piangere, ma non ci riuscivo: non avevo più lacrime da versare. E poi
per cosa? Non vale la pena piangere per ciò che non vale niente.
I took their smiles and I made them mine
I sold my soul just to ride the light
And now I see what I really am...
Sentivo il rumore del vento fuori, e la pioggia che sbatteva contro i
vetri delle finestre del salone. Mi chiesi se fossero chiuse bene, ma in realtà
non m’importava…..la tempesta avrebbe potuto entrare e distruggere tutto. E non
me ne fregava niente. Avrebbe anche potuto crollarmi il tetto in testa, e chissà
se me ne sarei nemmeno accorto. Pensai di essere diventato pazzo. Che brutta
fine. Le braci nel caminetto erano ancora fumanti, il fuoco si era spento da
poco…..morto anche lui. Come la mia anima. Se mi concentravo potevo persino
vedermi: un patetico mostro seduto su un divano da quindicimila dollari con un
bicchiere di whisky in mano….. e tanta voglia di morire…… Non riuscivo a non
chiedermi se la mia vita sarebbe stata diversa senza queste….cose….queste
orribili ed enormi ali, così innaturali, che per tutta la vita erano state il
mio orgoglio, e adesso mi apparivano come la causa di tutte le mie disgrazie.
La tua vita è un
totale fallimento….queste parole continuavano a turbinarmi nel cervello con la potenza di
un tornado. Era l’unico pensiero lucido su cui riuscissi a soffermarmi. Betsy,
amore mio, quanto devo averti fatta soffrire…. Credevo che fossimo felici
insieme, il mio ego pretendeva a tutti i costi che fosse così, ma gli spettri
della mia anima alla fine hanno vinto…CREDEVI DI ESSERE IMBATTIBILE, EH
GRAND’UOMO?! CREDEVI DAVVERO DI ASSOMIGLIARE AD UN ESSERE DIVINO!.... E ti sei fatto
fregare dalla tua stessa presunzione.
Blurring and stirring the truth and the lies
So I don’t know what’s real and what’s not
Always confusing the thoughts in my head
....So I can’t trust myself anymore....
Senza che me ne accorgessi, senza che potessi impedirmi in tempo di
farlo, scoppiai in una risata fragorosa. E per l’ennesima volta pensai di
essere diventato pazzo. Probabilmente ero solo ubriaco. L’unica cosa di cui
sono certo è che non c’era traccia del ricco e spavaldo industriale che per
hobby si atteggiava a supereroe. Non ero nemmeno l’ombra di un supereroe: non
lo ero mai stato. Il mio ultimo viaggetto nel regno dell’Alba Cremisi aveva
abbattuto radicalmente tutte le mie certezze.
Un lampo dalla finestra di fronte. Lo vidi. Era in piedi accanto alla
finestra, sui sedici anni, col suo sorriso beffardo, e quegli inesorabili occhi
azzurri che mi guardavano pieni di compassione. Trasalii. A dire la verità fui
anche sul punto di lanciare un urlo, ma fortunatamente non lo feci: il tizio
che avevo di fronte, oltre che uno sfigato, mi avrebbe giudicato una donnetta.
Che diavolo, sono pur sempre un Worthington! Ma guardandolo meglio finalmente
capii: pensavo di essere solo, ma in realtà non lo ero mai stato. I fantasmi
del passato non ti abbandonano mai.
Sei venuto a goderti la mia sconfitta? Sono venuto a mostrarti i tuoi errori.
These wounds won't seem to heal
This pain is just too real
There's just too much that time cannot erase
All’improvviso la stanza, che prima era nell’oscurità più assoluta,
s’illuminò. Mi accorsi di non essere più nel salone della mia tenuta; sembrava
più la stanza di un dormitorio. Il mio dormitorio. Quello che c’era nella
scuola privata che frequentavo da ragazzo, dove conobbi Anne… Questo pensiero
mi colpì come un pugno in pieno viso. All’improvviso ricordai perché non
l’avevo più cercata, e quel pensiero risvegliò in me un’infinita tristezza: non
la ritenevo degna dell’essere superiore che ingenuamente credevo di essere
diventato. L’immaturità è una brutta cosa.
…And now I see what I really am...
Mi aggiravo per la stanza, cercando qualcosa che potesse dimostrarmi che
quel luogo fosse frutto della mia immaginazione, come speravo ardentemente,
tanta era l’angoscia che provavo nel rivederlo, quando all’improvviso vidi uno
specchio ovale contro una parete, con la cornice intarsiata, che non ricordavo
di avere in camera all’epoca. Incuriosito, mi avvicinai: al di là dell’ovale
c’era di nuovo il ragazzo, con quel suo sorriso che ora sembrava schernirmi. Guarda nello specchio dei tuoi ricordi,
Arcangelo, e distingui quello che sei stato da quello che hai creduto di
essere. Ero paralizzato. Potrei dire che avevo davvero paura. Il confronto
con se stessi può essere devastante da prima che inizi, a volte. Prima che
potessi aprire bocca, il suo viso divenne quello di Anne, raggiante,
innamorato, felice, e due secondi dopo in lacrime, mentre io mi allontanavo da
lei insieme a una figura che non distinguevo bene, ma che doveva essere di
sicuro mio padre, l’artefice della nostra brutale separazione. Ancora non
comprendevo il senso di quello che stavo facendo, allora mi dissi che l’avrei
ritrovata, che saremmo stati insieme per sempre, ma non passò molto tempo prima
che mi dimenticassi di lei…. In una delirante sequenza d’immagini rividi tutti
gli avvenimenti che, in un modo o nell’altro, mi avevano fino ad allora segnato
la vita, e mi resi conto che in buona parte di essi il mio orgoglio e la mia
presunzione avevano avuto una parte predominante. Twilight aveva ragione.
Quante persone sono morte, quante hanno sofferto per causa mia, e io ho saputo
solo trincerarmi dietro vili scuse, come quella di essere cambiato a causa di
Apocalisse. Ma era poi così vero?
Di colpo, tutto intorno a me tornò com’era prima. La stanza era di nuovo
nella più completa oscurità, non c’era più lo specchio, né il dormitorio. Mi
ritrovai nel salone di casa mia, ancora più avvilito di prima. La pioggia
continuava incessante a battere contro i vetri, mi avvicinai al tavolo e mi
versai un bicchiere di whisky. Mentre lo mandavo giù pensai che dovevo smettere
di bere.
I tried to kill the pain but only brought more
I lay dying and I’m pouring crimson regret and betrayal
I'm dying praying bleeding and screaming
Am I too lost to be saved
Am I too lost?
Credevo che fosse tutto finito, e che potessi finalmente smaltire la
sbornia in pace, quando vidi un’ombra sparire dietro al divano. Dopo il colpo
che mi era preso prima, non mi stupivo più di nulla ormai, ma iniziavo a
stufarmi: non intendevo soccombere di fronte agli scherzi che credevo la mia
mente mi stesse facendo. Così decisi di stare al gioco e mi nascosi dalla parte
opposta del divano, aspettando di sorprendere l’ombra che credevo di aver
visto. Una volta ancora pensai di essere diventato completamente pazzo. Una
fine degna del nome che porto, sicuramente. Non sarei certo stato il primo
Worthington ad essere rinchiuso in manicomio. Bu! Dietro al divano non c’era
assolutamente niente. All’improvviso sentii un dolore lancinante alla base del
collo e caddi per terra. Quando rinvenni mi ritrovai in un luogo ancora diverso
dal salone di casa mia. Cavolo, la notte più brutta della mia vita. Ero in una
stanza in penombra, sembrava la camera da letto di una ragazza, a giudicare
dall’arredamento. Mi faceva male la testa, e il colpo ricevuto alla base del
collo iniziava a farsi sentire. Un solo sguardo. Rimasi impietrito, senza
parole. Di fronte a me c’era lei, bella come non lo era mai stata, avvolta in
un mantello con un cappuccio, dal quale spuntava qua e la qualche ciocca di
capelli, che le lasciava scoperto il bel viso asiatico. Betsy….. Lei era là, in
piedi di fronte a me, che mi fissava come se aspettasse che facessi qualcosa,
ma io non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi. Come potevo, sapendo quello
che pensava di me? Una miriade di pensieri si affacciavano alla mia mente.
Com’ero arrivato lì? Betsy era tornata in Australia dopo avermi lasciato, non
era possibile che….Invecchierai se continui
a chiederti come sei arrivato qui, tesoro. Mi parlava senza aprire la
bocca. La sua voce, che sembrava venire da molto lontano, mi riempiva la testa.
Ad un tratto, come un’immagine in dissolvenza, scomparve. Al suo posto c’era un
letto disfatto, e una donna che piangeva sommessamente guardando una
fotografia. Dio, mi si strinse il cuore. Era lei, la mia Betsy, col trucco
disfatto e i capelli scomposti, ma sempre incantevole, dolcissima… Aveva in
mano la foto del nostro viaggio in Grecia insieme, dove io le tenevo un braccio
attorno al collo e lei, con la testa appoggiata al mio petto, sorrideva
raggiante. Erano i bei tempi in cui ancora ci illudevamo di essere felici. Mi manchi da morire Warren…è tutta colpa
mia. Se solo fossi riuscita a farti dimenticare Jean…Avrei preferito non
sapere, avrei preferito continuare a vivere al tuo fianco all’oscuro di tutto,
ma adesso almeno saremmo insieme…Come riuscirò ad andare avanti senza di
te?.... La sua voce era rotta dal pianto. Mi avvicinai a lei, dovevo dirle
che ero lì, che non mi aveva perso, che se solo lei avesse voluto sarebbe
potuto tornare tutto come prima. E stavolta nel mio cuore sarebbe stata
l’unica. Amore mio sono qui….ma le mie parole non sortirono alcun effetto. Feci
per accarezzarle il viso, ma la mia mano la attraversò come se non esistesse.
Anche se lei soffriva, nel suo mondo ormai non c’ero più. Mi accorsi di stare
piangendo solo quando le lacrime mi sfiorarono le labbra. Rimasi a guardarla
per non so quanto tempo, in ginocchio davanti a lei, impotente, con la sola
compagnia di un disperato pianto liberatore.
Hold on to me love, you know I can't stay
long
All I wanted to say was I love you and I’m not afraid
Can you hear me?
Can you feel me in your arms?
Holding my last breath, safe inside myself
Are all my thoughts of you
Sweet raptured light it ends here tonight
I'll miss the winter
A world of fragile things
Look for me in the white forest
Hiding in a hollow tree (come find me)
I know you hear me
I can taste it in your tears
Closing your eyes to disappear
You pray your dreams will leave you here
But still you wake and know the truth
No one's there
Say goodnight
Don't be afraid
Calling me calling me as you fade to black
Quando riaprii gli occhi, non so quanto tempo dopo, la mia amata e la sua
stanza non c’erano più. All’inizio credo di aver provato quasi un senso di
sollievo nel ritrovarmi ancora una volta a casa mia, in ginocchio ai piedi del
mio divano, con la faccia tra le mani, mentre Jean mi accarezzava materna la
testa….JEAN?! Tutto quello che seppi fare fu guardarla perplesso, senza dire
una parola: ormai non mi stupivo più di niente, mi sembrava di vivere una di
quelle favole dickensiane, in cui gli spettri del Natale mostrano al
protagonista la sua vita per farlo rinsavire. Solo che qui il Natale non
c’entrava un tubo. Ed io non ero Scrooge. Pregai che quest’incubo finisse
presto. Tutto quello che volevo era tornare a sprofondare nel mio tranquillo,
rassicurante oblio. Ora che anche Betsy mi aveva lasciato, niente aveva più
senso per me. Era completamente avvolta di luce... avevo visto la forma astrale
di Jean in altre occasioni, ma quella volta mi sembrò qualcosa di eccezionale.
La sua carezza gentile e il suo dolce sorriso avevano un profumo di innocenza e
di fiabe della buona notte che credevo di aver dimenticato per sempre. In quel
momento mi sembrò di potermi addormentare tranquillamente tra le sue braccia
dimenticando tutti i miei dispiaceri. Senza dubbio la parte migliore del mio
delirante sogno. Con un gesto della mano Jean materializzò davanti a me un
grande campo spoglio pieno di lastre di pietra che sporgevano dal terreno, la
maggior parte rovinate e piene di polvere. Era un cimitero. Mi alzai
lentamente, incredulo. Perché Jean mi aveva portato in un cimitero?! Col senno
di poi, penso che la cosa fosse abbastanza prevedibile, data la situazione in
cui mi trovavo, ma allora non riuscii a comprenderlo in tempo, tanto gli eventi
si succedevano in fretta. Il vento mi sferzava la faccia, facendo volare via i
petali di quei pochi fiori, ormai appassiti, deposti su alcune tombe.Le nubi in
cielo si addensavano e scorrevano come portate dal vento, contribuendo a
rendere il paesaggio lugubre.
In my field of paper flowers
And candy clouds of lullaby
I lie inside myself for hours
And watch my purple sky fly over me….
Jean posò una rosa rossa su una lapide spoglia, con un’incisione
enigmatica: Qui giace colui che visse
cercando di essere ciò che non era, e morì nel rimpianto di non esserlo stato. Con
mia grande sorpresa, solo la rosa posata da Jean non si muoveva. La guardai per
qualche minuto, riflettendo sull’epitaffio che avevo appena letto….una
sensazione irreale mi pervase, come se non ci fossi io lì in quel momento, ma
qualcun altro. Mi sentii gelare il sangue. Guardai Jean, che mi scrutava,
seria, bella come un angelo della luce, e lei scosse la testa in segno di
assenso. Era la mia tomba.
I tuoi occhi
cercano risposte, X-man, ma non sono io a dovertele dare. Ti basti sapere che
la tua ricerca della solitudine ti ha portato a rinnegare il tuo lavoro, i tuoi
amici, e tutto quello in cui credevi, e loro di conseguenza hanno rinnegato te.
Solo io ogni tanto porto dei fiori sulla tua tomba, sono l’unica amica che ti è
rimasta, l’unica che hai cercato…..E mentre parlava il suo volto e i suoi abiti
diventavano sempre più scuri, i suoi occhi sempre più incavati, e il suo
sorriso si trasformò in un orrenda smorfia ghignante.
Fallen angels at my feet, whispered voices at my ear
Death before my eyes
Lying next to me i fear she beckons me shall i give in
Upon my end shall i begin
Forsaking all i've fallen for i rise to meet the end
Mi svegliai di soprassalto, in un bagno di sudore, con la testa che mi
scoppiava. Le prime luci dell’alba filtravano da sotto le persiane ancora
chiuse. La pioggia era cessata, i tuoni e i fulmini non c’erano più. Oggi posso
dire che la mia anima inquieta si era placata. Ero ancora seduto sul divano con
il bicchiere ormai vuoto in mano: lo scaraventai nel camino spento con rabbia,
mi alzai e aprii le persiane. Che mi era successo? Ero ancora troppo stravolto
per capire se si era trattato di un sogno o di un’esperienza medianica. Avevo
visto il mio futuro. Quello che ne restava insomma. Volevo davvero che finisse
così? No, non potevo permettermi il lusso di lasciarmi morire, non adesso.
Avevo cose più importanti da fare. Guardai l’orologio: erano le 10. Il signor
Childs doveva essere in ufficio da un pezzo. Alzai la cornetta e composi il
numero: avevo istruzioni urgenti da dargli….
L’uomo fa un profondo inchino e torna a sedersi alla scrivania. Sipario.
La luce si spense mentre il maestoso sipario calava sulla
figura di Warren e le note agrodolci del pianoforte di Jonothon si spargevano
nella sala
Bobby Drake: But February made me shiver….
di Sundy
Bobby uscì dalla tenda fischiettando una melodia leggera, con le mani in tasca e gli occhi chiari persi nel cielo finto del palcoscenico.
- ...Hallelujah… hallelujah...
dicono che quando sono di umore non giulivo
sono solito fischiettar questo motivo-
Mentre recitava quelle poche frasi con la sua voce dolce e argentina, Bobby uscì dalle scarpe da ginnastica già slacciate e si sfilò i calzini blu.
- non sono triste davvero stasera
la mia storia lo è, come ogni storia vera
e suona sciocco, lo ammetto
parla dell'Uomo Ghiaccio, che ha paura del freddo-
Dalla platea lo raggiunse il crepitio asmatico di risate soffocate. Il ragazzo ammiccò, lasciò cadere il giubbotto che si era sfilato e cominciò a sbottonarsi la camicia rossa
- no, non ridete- vi giuro sul cielo
che tutto ciò che dico è vero.
Felice assai sarei senza la spina
di temere la cosa che mi è più vicina
bella la vita di un uomo di neve
che proteggersi dal gelo non deve
bello correre nudo nel giardino a Natale
sapere che il caldo non può farti male
aver pronto il rimedio se ti bruci in cucina
freddare il sedere agli amici in piscina
con la fragranza preferita
vi preparo la granita
e nei giorni di peggior calore
funziono meglio del condizionatore-
Qualche fischio e qualche risata si alzarono dal pubblico mentre Bobby si spogliava con disinvoltura della camicia e metteva le mani sulla cintola dei pantaloni
- ma quando la sera a casa da solo
vedo che col gelo non mi consolo
che mi manca la gente
e che non conta niente
aver di amici pieno il mare
e non saperli andare a cercare
e qui mi coglie un pensiero cattivo
che mi avvelena ogni istante che vivo
e scivolo, ahimè, nella convinzione
che il ghiaccio non vada per le persone
che il freddo piaccia solo a merluzzi e frappè
e allora capisco che fa paura anche a me
che ho l’incubo folle di restar solo
sul fondo del frigo, come l’ultimo ghiacciolo-
Con un gesto disinvolto, Bobby si sfilò anche i pantaloni, e rimase in piedi al centro del palco, in mutande, mentre il pubblico rideva sottovoce della sua tragicomica pantomima
- siamo tutti soli, lo si sa per certo
ma per ogni uomo, c’è un cancello aperto
ai miei fratelli chiedo solamente
di non lasciarmi a questo freddo niente
di perdonarmi, e non chiedo troppo
anche se ogni due giorni il frigorifero è rotto-
Bobby raccolse da terra i suoi vestiti e ne fece un fagotto che si strinse sul petto.
- Vi confido un segreto prima di andarmene via
Ogni tanto nevica anche qui-
aggiunse sorridendo, mentre piccoli fiocchi di neve cominciavano a roteare sopra la sua testa
- ma non crediate che sia colpa mia..-
E dopo aver lanciato un calzino al pubblico uscì di scena canticchiando - hallelujah... hallelujah... hallelujah...
Ororo Munroe: Wind of life
di Fenny
La luce sul palcoscenico rimase immobile, la scena dorata attendeva un’altra attrice, bella come i soli del sud e i gelidi mari artici. Un crepitio sommesso uscì dalle casse poste ai lati del palco, un rumore lineare e dolce, la carezza di un vento leggero che soltanto una donna, tra loro, poteva aver inviato come suo inconfondibile biglietto da visita. Ororo entrò dalla sinistra del palco, tenendo gli occhi bassi e un sorriso appena accennato sulle labbra, la pelle scura brillava di bagliori orientali
alla luce dei riflettori e i capelli di un bianco agghiacciante si muovevano nell’etere come una danza infinita. Un profumo di petali e fiori si mosse assieme al vento, turbinii di colori leggiadri ed eleganti accompagnarono l’entrata della bella africana che procedeva a passi lenti appoggiando i piedi nudi sulle assi e muovendo il suo corpo con sinuosa semplicità, maestosa e regale eleganza.
Al centro della luce, la donna, vestita del suo fascino etnico e di una lunga tunica color sabbia e oro aprì il foglio che teneva tra le mani e cominciò a mimare una lettura
Lo senti il rumore del vento? Sono sicura di si. So che mi senti. Sovrana della pioggia, signora della tempesta, regina degli elementi. Mi hanno chiamata, e continuano a chiamarmi, in tanti modi, ma per te sarò sempre e soltanto una donna. Come tutte le altre. Magari un po’ speciale, come di certo sarai anche tu. Quello che spero più di tutto è che tu non mi guarderai con paura, come fa la maggior parte della gente “normale”.
Lo senti ancora il rumore del vento? Sono io che ti parlo, con voce eterea come brezza primaverile, e canto una canzone che esiste solo per noi due.
Il mondo ti sarà ostile, la gente ti guarderà con disprezzo, dovunque andrai verrai cacciato, perseguitato, ma tu non devi mai rinunciare a sperare: non nella loro pietà, quella non l’avrai mai, ma che un giorno comprendano i loro errori e vi rimedino. Che un giorno tu possa essere felice, nello stesso mondo dal quale io ho tentato più di una volta di fuggire.
Lo senti ancora il rumore del vento? Sono le voci di tutti quelli che ti vorranno bene, che ti proteggeranno e ti aiuteranno ad affrontare il mondo a testa alta, a guardare negli occhi quelli che ti ripudiano e ribadire il tuo diritto a stare al mondo. Loro, più di quanto io sia in grado di fare, ti insegneranno ad usare al meglio le tue capacità, per difenderti dai tuoi persecutori, ma più spesso per aiutarli. Lo so che non è giusto, ma è più umano di quanto non lo siano loro. Abele è capace di perdonare Caino, rinunciando alla sua gratitudine.
Lo senti ancora il rumore del vento? E’ la mia carezza leggera sulla tua piccola guancia, la mano che ti guiderà lungo i sentieri della vita con fermezza e infinita dolcezza, e che tu stringerai con amore… spero non la lascerai mai…
Mi senti? Io si. Forse dormi, o giochi, non lo so, ma so che mi ascolti. E io voglio che tu sappia che ti ho voluto dal primo momento, che ho avuto dubbi sul tenerti con me non perché non ti voglio bene, ma perché non volevo tu crescessi in un mondo che ti avrebbe odiato. Non volevo che tu vivessi quello che ho vissuto io. Ma non è giusto. Sarai più forte di me, lo so. E non mi pentirò mai di averti permesso di venire al mondo, perché so che il tuo sorriso riempirà la mia vita, e che un giorno sarai capace di cancellare i tuoi dolori e di camminare in mezzo agli uomini a testa alta, senza doverti nascondere.
Non vedo l’ora di conoscerti, bimbo mio.
Ti vorrò bene per sempre
Mamma.
Gli applausi si sciolsero con commozione da tutta la platea e, con uno sguardo lanciato oltre le luci accecanti dei riflettori, Ororo avrebbe potuto notare la lacrima di commozione scesa calda sulla guancia di Kitty, o il sorriso complice ed emozionato di Jean.
Con un inchino morbido ed elegante Ororo salutò il suo pubblico e, a testa alta, uscì, con un sorriso più ampio stampato sulle labbra e negli occhi.
Peter Rasputin: La
prima volta che Piotr dipinse la neve
di Xel aka Joji
Il silenzio si sparse nella stanza come una calda e intensa magia, Piotr Nikolajevitch Rasputin salì a passi lenti sul palco, tenendo gli occhi bassi, e stringendo tra le mani un grosso pacco.
L’uomo, si fermò davanti al pubblico, guardandosi intorno smarrito da quella platea e dai tanti occhi che lo fissavano ansiosi, poi, traendo un leggero sospiro che si spense nel microfono che gli stava davanti, alzò nuovamente gli occhi e aprendo lentamente il pacco mostrò il quadro che vi era contenuto.
Un paesaggio bianco, innevato, e un figura che corre.
E allora le parole cominciarono ad uscire più facilmente, come accompagnate dalle immagini.
- Prima c'è il niente.
Poi c'è la neve.
é stato un lento volo, ma, a poco a poco, ha coperto tutto.
Tutto ora è bianco.
Bianco che si dispiega a vista d'occhio e fa quasi bruciare gli occhi.
Quasi non si distinguono confini e distanze.
E' tutto Bianco.
Un puntino, in lontananza.
Si avvicina e i suoi tratti cominciano ad essere più distinti.
E' Peter.
Bardato in un maglione marrone, con una grossa sciarpa nera che gli copre parte del volto ed un berretto di lana calato sulla nuca.
A ogni passo le sue gambe affondano nella neve, stringe sotto al braccio una tela con il cavalletto e uno sgabello.
Arranca sulla neve, guardandosi intorno squadrando il bianco con gli occhi, finché non individua il punto che ritiene migliore.
Allora poggia il cavalletto sulla neve e si siede davanti alla tela.
Nella mano destra stringe il pennello, nella sinistra la tavolozza e inizia a fissare la tela con aria meditabonda.
La fissa per lunghi minuti, in un silenzio rotto solo dal suo stesso respiro.
I minuti diventano ore, ma Peter non si muove.
Il silenzio si rompe, vi è un fischiettio che penetra nell'aria.
Un suo dolce e leggero, che accompagna l'ovattato suono dei passi sul mando di neve.
- Cosa Fai Piotr?- Illyana si avvicina alle spalle del fratello: è imbacuccata in una grossa giacca a vento verde scuro, sulla testa ha infilato un berretto a punta, sui cui spicca festoso un pon pon.
- Dipingo la neve- risponde il ragazzo.
- Ma non hai toccato la tela-
- Provo a dipingere la neve...- intinge il pennello nella tavolozza, prima nel blu, poi nel bianco, poi scrollando le spalle ripulisce il pennello in un bicchiere - Ma non è facile-
- Perché?-
- Non trovo da dove iniziare...-
Illyana si guarda intorno, il suo sguardo ispeziona in lungo e largo la distesa di neve bianca, poi torna a rivolgere la sua attenzione alla tela del fratello.
- Di solito... da dove cominci? Quando fai i ritratti a me, o alla mamma... da dove cominci?-
- Dagli occhi. E' quello il mio punto di partenza. Tiro la linea degli occhi e poi
da lì costruisco i lineamenti di tutto il volto e infine l'intera figura-
- Facile allora. Trova gli occhi della neve!- Illyana sorride e si allontana saltellando.
Un'espressione interdetta si fa largo sul volto di Piotr.
Gli occhi della neve...
Ma dove sono gli occhi di quell'immensa massa bianca, senza fine e senza inizio?
Dov'è quel punto di partenza può delimitarne i confini, darle un capo e una coda, renderla consistente e concreta?
Guarda il paesaggio.
Bianco, illibato, puro, intatto, se non per la figura di Illyana che vi corre dentro.
Illyana..
L'unica figura umana in quell'ambiente di totale irrealtà, unica presenza viva e in movimento in una assoluta staticità, in un quel bianco vago e irreale che la sua presenza però ancorava alla realtà.
Peter intinge il pennello nel verde, lo amalgama con una punta di nero e getta uno
schizzo di colore al centro della tela.
Poi una pennellata di bianco, come un ghirigoro che gli volteggia attorno.
Poi, come a seguire il movimento di Illyana sulla neve, getta un'altra chiazza scura, vicina alla prima, e poi un'altra, poco più distante, e un'altra ancora, e un'altra e un'altra.
Illyana si avvicina al fratello - Cosa fai Piotr?-
- Dipingo la neve...- risponde lui, trafficando con pennelli e carboncino.
Lei gli scivola alle spalle e guarda il quadro ridacchiando - Ma.. Piotr... quella sono io, che corro sulla neve...-
- Tu sei gli occhi della neve... Sei parte della neve...- Piotr si volta e bacia dolcemente Illyana sulla fronte - Tu sei il mio piccolo fiocco di neve-
Illyana gli stringe le braccia al collo.
La neve copre tutto.
Ogni cosa diventa bianca.
Alla fine resta solo la neve
Piotr sorrise, deponendo un’ultima, breve, affettuosa carezza sulla tela, poi si allontanò, così come era venuto, con gli occhi bassi e il passo incerto di un uomo che cammina su un dipinto e non vuole rovinarlo. Nascosta dal buio che inondò il palco, una mano lo fece rapidamente scomparire.
di Klaproth
La scena rimase scura per alcuni istanti, prima che lampi di luce e fumo rosa la illuminassero di colpo facendo sorridere il pubblico per il familiare effetto speciale; Kurt Wagner apparve sul palco spargendo odore di zolfo attorno a se. Confuso nell’oscurità, con quella sua corta pelliccia color della notte e due occhi dorati che brillavano ardenti nel buio, l’X-Man chiamato Nightcrawler restò fermo nell’ombra, fissando il pubblico e cercando espressioni familiari.
Un lampo di luce inaspettato aprì la scena agli occhi di tutti mostrando l’elfo al centro del palcoscenico, concesse un largo e galante inchino al suo pubblico, e cominciò il suo racconto
- Ho letto da qualche parte che i bambini dovrebbero avere paura del buio. Io non ho mai sentito nessuno dei miei amici ammettere di avere avuto paura del buio quando erano piccoli, ma d'altra parte bisogna ammettere che il mio giro di conoscenze dei tempi dell'adolescenza non è che fosse composto proprio da bambini standard.
C'era persino Logan che quando gliel'ho chiesto mi ha guardato dritto negli occhi, mi ha soffiato in faccia il fumo dei suoi sigari (che lui continua a fumare nonostante il professor X gli abbia chiaramente detto a più riprese che un giorno o l'altro lo espellerà dalla scuola per quello) e mi ha risposto - No. Era il buio, ad avere paura di me.- Non ho ritenuto necessario approfondire, anche perché in fondo Logan non parla mai di quando era piccolo.
Io dei tempi prima di conoscere gli altri X-Men ricordo poco, ma ricordo chiaramente che non avevo paura del buio. Avevo paura di sbagliare il mio numero in pista durante uno spettacolo e di essere di nuovo preso in giro da tutti. Avevo paura che qualcuno non mi accettasse per via del mio aspetto, cosa che peraltro succede ancora adesso; e tutto sommato quando nelle roulottes del circo eravamo al buio più completo e di me si sentiva solo la voce, ero uguale a tutti gli altri. Avevo ed ho tuttora paura dell'avidità e della cattiveria degli uomini, e a poco è servita la mia rigida educazione cattolica; ho molta più fede in Dio, ma sempre meno nell'uomo.
Dal buio è emerso il professor X la prima volta che l'ho visto, e mi ha salvato la vita bloccando con i suoi poteri psichici i contadini che volevano uccidermi perché credevano avessi assassinato il mio fratellastro Stephen. Nel buio si perde il racconto della mia origine, ora che so per certo che la mia madre adottiva Margali mentì quando raccontò a tutti di avermi trovato vicino al corpo di mia madre morente e di avermi adottato.
Sto ancora riflettendo sull'importanza dell'oscurità nella mia vita quando suona un allarme; è Cable che ci vuole tutti a rapporto, subito, nella stanza del pericolo. Non perdo un attimo, e mi butto a capofitto. Nel buio-
Un lampo nero, il colpo di tosse strozzato di una piccola esplosione sulfurea. Quando la luce tornò ad illuminare la scena, di Kurt Wagner non restava traccia.
Kitty Pryde: Memory
di Lucky
I passi di Kitty si distinsero leggeri sulle assi del piccolo palcoscenico, le dita scivolavano nervosamente sulla stella di David che le pendeva dal collo.
C'era un po’ di paura per quel palco deserto e illuminato che, in quel momento, stava aspettando il suo coraggio; le arrivava dai sorrisi che, sapeva, sbocciavano numerosi sulle labbra delle persone che da tanto tempo considerava la sua famiglia, e dagli occhi che tradivano una tenera curiosità e apprensione.
Kitty arrivò al centro della scena, con il giustificabile timore di una platea che aspettava solo lei, nel suo momento. Alzò la testa e davanti al microfono sfoderò un enorme e rumoroso sorriso
- Stasera avevo pensato di cantarvi una canzone, come faccio d’inverno mentre preparo la cioccolata calda per merenda, poi oggi sono stata a New York, stranamente c'era il sole e si vedeva tanta luce anche al di sopra dei grattacieli.
Così la mia memoria si è persa assieme alla luna di mezzanotte che adesso ci guarda, fuori da questo silenzioso teatrino di artisti improvvisati.
Avrei voluto cantarvi i ricordi, ma tutto ad un tratto mi sono morti in gola e non ho più saputo distinguere il presente dal passato, le parole che sto dicendo dalle parole che ho detto... e anche questa notte incantata, sotto la luce tonda di un riflettore che sembra un ritaglio di luna, prima o poi diventerà un ricordo.
A New York, profumata di primavera e luminosa d’estate, c'era il sole, i fiori sbocciavano annaffiati dalla pioggia e le foglie cadevano trasportate dal vento mentre la neve scendeva fitta… no, non era colpa di Ororo, solo dei ricordi
E stanotte, tutta sola nella luce della luna ve li canterò a modo mio...
Perché oggi mentre venivo alla scuola ho deciso di cambiare strada e passare per il parco, e pensavo che stanotte sopra al nostro teatro avrebbero brillato tante stelle, occhi, sorrisi, pensavo che la chiusura a lampo dello zainetto si è strappata e dovrò chiedere a Jean se ha voglia di ripararmela, ago filo e telecinesi.
Due bambini che giocavano a calcio mi hanno chiesto di lanciargli il pallone che era rotolato verso di me e io ho sbagliato il passaggio, come quando ero ancora una bambina e alle partite che organizzavamo nei momenti di libertà nessuno mi voleva in squadra perché ero una schiappa.
Seduta sullo zaino, l'erba ancora umida per la pioggerellina di ieri notte, mangiavo il panino che stamattina Hank mi ha fatto trovare pronto sul tavolo di cucina - con i suoi omaggi- premuroso bestione dal pelo blu che è anche riuscito ad indovinare i miei gusti, colpa della fortuna o delle abitudini ripetitive degli abitanti di una casa, persone strane e diverse che amano definirsi una famiglia.
Ricordi di notti alla tequila su un vecchio tavolo del faro di Excalibur, Meggan in riva al mare che cantava - Good morning starshine- raccontandola ai pesci, corse in macchina con Logan tra le strade di Chicago, la radio che suona - In the name of love- sparandola con rabbia fuori dai finestrini, - Memory- in un karaoke di ricordi offuscati da lacrime nascoste…ripensavo alle mie canzoni, come si fa nei peggiori momenti di nostalgia, ma con il sorriso che mi pendeva dalle labbra.
Una donna cantava a bassa voce ninna nanne a suo figlio, la sentivo appena, e mentre lui si addormentava mi sono sorpresa a pensare che per far addormentare i miei bambini io userò le favole, come ho fatto sempre…
Un vecchio seduto su una sedia spagliata disegnava con dei gessetti. E, quando ne prese tra le dita uno blu per riempire d’acqua il suo laghetto, mi tuffai nel pelo morbido di quell'elfo che, quando mi abbraccia, lo fa anche con la coda...
Perdendomi a testa in su nei riflessi del cielo ho trovato le stelle al di là del giorno, ho cercato la luna che si mostrava ancora pallida e bianca, ho trovato l'impazienza nell'attesa di questo istante, scritto su misura, ritagliato nel mio angolo di palcoscenico, con indosso il mio sorriso più bello per cantarvi i miei ricordi, tutta sola, rannicchiata in un chiaro di luna che ha i riflessi degli artigli di Logan.
Ma era ancora giorno e il pittore sulla riva del lago continuava a giocare con i colori, allora come una bimba piccola mi sono avvicinata e gli ho chiesto...
- lei sa come si dipinge un sogno?-
e quando lui mi ha risposto che non è possibile ho pensato a Peter, lui mi avrebbe detto che i sogni li dipingi nella forma che più ti piace, perché sono tuoi.
E ho capito che io non li volevo dipingere... li volevo raccontare.
La canzone di una giornata di sole e profumo di erba umida, una giornata passata ad attendere un momento speciale, in cui avrei potuto raccontare... il mio sogno –
Gli occhi di legno caldo di Kitty Pryde sostarono nel vuoto per qualche secondo, rincorrendo l’armonia di quello scorcio di assoluta normalità, di un giorno speso in un sole distratto, pensò che avrebbe voluto addormentarsi in quella sensazione. Si lasciò scivolare dolcemente fino a terra, gli occhi chiusi, le ginocchia strette al petto, il sorriso addormentato sulle labbra, mentre abbracciava se stessa. L’oscurità scese su di lei come un benevolo crepuscolo.
Logan e Rahne
Sinclair: Richiamo
Era buio. Completo. Totale, assoluto come il silenzio che lo pervadeva. Durava così da almeno dieci minuti. Ogni tentativo di fare conversazione si era spento da un paio di minuti. Del resto, se anche il pubblico avesse voluto vociare fino a sgolarsi, questa volta non avrebbe fatto differenza ai fini dello spettacolo in sé.
Ma ai protagonisti di questo spazio sarebbe piaciuto poco. E questo non avrebbe fatto bene allo spettacolo.
‘Prendere o lasciare’, era stato l’ultimatum; naturalmente, avevano tutti preso. Un’eccezione alla regola che, nessuno ne dubitava, sarebbe stata ben spesa.
Un cono di luce investì il primo degli attori: un uomo di bassa statura, vestito con una camicia a quadri, le maniche arrotolate all’altezza dei gomiti, e blue jeans sbiaditi. In mano reggeva un sigaro acceso. La sua capigliatura nera era folta e selvaggia, come il suo sguardo. Il suo sorriso era quello di un predatore fatto e finito. Stava appoggiato a qualcosa, ma quel qualcosa era al di fuori del cono di luce.
- Solo per la cronaca, il mio nome è Logan, alias Wolverine. Ne ho avuti sicuramente degli altri, e ancora più sicuramente il mio solo ‘vero’ nome è quello che ebbi alla nascita…Ma si tratta di particolari ormai irrilevanti.
- Sono stato un cacciatore, un lupo, un sicario, un soldato, agente speciale…ma credo proprio di avere speso più tempo come X-Man. Non mi posso lamentare.
- Qualunque cosa abbia fatto in passato, chiunque sia stato, non ho davvero motivo di farne un’ossessione. Me ne preoccuperò, come al solito, quando uno dei nostri nemici vorrà sbattermene in faccia qualche presunto particolare -
Il cono di luce si spense. Un altro si accese dall’altro lato del palcoscenico.
Il secondo protagonista era un’attrice: una bellezza femminile, appena sbocciata nella maturità. Una ragazza vestita con una camicetta crema, semplice, ed una gonna verde lunga fin sotto alle ginocchia. Nessun ornamento su di sé, ma ciò non la rendeva meno attraente: il suo volto era fresco, acqua e sapone, ed i suoi occhi verdi, intensi, erano al contempo dolci e fermi. I suoi capelli, rossi come il fuoco, erano lunghi fino alle spalle e tenuti fermi da una semplice fascia nera.
- Io sono Rahne Sinclair, una mutante…in un certo senso, ed una X-Baby - Sorrise. - Almeno, lo ero quando entrai alla scuola del Prof. Xavier; una di cinque ragazzi uniti per portare avanti il sogno degli X-Men.
- Credevo di essere una ragazza maledetta da una mutazione che mi permetteva di diventare una lupa…e invece, sono sempre stata una vera licantropa, una figlia del cosiddetto Popolo. Mia madre era una lupa, mio padre un umano, e questo fa di me una mutante, come il Principe Namor, mezzo umano e mezzo Atlantideo.
- Sono molto orgogliosa di quello che ho fatto fino ad ora…e di quello che sono. Anche se ci è voluto molto tempo, per accettarmi -
Cambio di luce su Logan, che ora indossava il familiare costume da Wolverine, marrone e nero. - La mia filosofia è ‘carpe diem’, vivi la tua vita approfittando al meglio delle occasioni che ti vengono offerte. Forse è per questo che ho passato un certo numero di anni come un selvaggio, o forse è stata colpa di qualcuno dei miei tanti nemici che neanche so di possedere.
- Ho imparato a controllarmi, e nonostante le occasionali ricadute sono il migliore in quello che faccio: cacciare e combattere; ed uccidere. La belva vive dentro di me, e non credo che me ne libererò mai -
Luce su Rahne. La ragazza, ora, era nella sua forma transitoria, parte umana e parte lupa dal pelo rossiccio. Indossava il suo vecchio, classico costume nero e giallo da ‘studente’. - Mio padre mi ha insegnato ad odiare il lupo, ed io l’ho assecondato. Ero ripugnata di me stessa, ma volevo, no, bramavo di potermi trasformare, per assaporare il mondo in modi che come umana non potevo permettermi. Non avevo paura del lupo, alla fine: avevo paura di quello che gli altri avrebbero pensato di me.-
Luce su Logan. - Il mio universo iniziava e finiva con me stesso. Ho vissuto allo stato brado, contento di potere vivere senza dare fastidio a nessuno…tranne a chi osasse portare la distruzione a ‘casa’ mia. A volte le mie psicosi sono state alimentate ad arte per trasformarmi in un assassino. A volte, a mente lucida, ho ucciso per autodifesa, ma in quei casi è sempre stato in nome della legge della foresta, mai per un qualche ‘alto principio’ di mia invenzione. Non ne vado fiero, ma non me ne vergogno.-
Luce su Rahne. - Mio padre, il Reverendo Craig, non ha mai mostrato amore nei miei confronti; voleva domarmi, ingabbiarmi ed espormi. Ero la bestia dello zoo che era diventata la sua vita. La mia levatrice, la dottoressa Moira McTaggart, mi ha salvato dalla pazzia; lei mi aveva vista nascere, e fu lei ad adottarmi per darmi un futuro. Combatté da sola contro la follia di un uomo ed il pregiudizio della popolazione dell’intera isola di Muir. Ancora oggi non so come ce l’abbia fatta, ma il suo esempio mi ha dato la forza di tirare avanti per me, per lei, e per un ideale.-
Luce su Logan. - Le mie memorie più lontane sono opache, come un sogno. Non ricordo nulla dei miei genitori. E la mia vita, prima che io diventassi una cavia per il progetto ‘Arma X’, è fatta di così tanti eventi che si sovrappongono, si perdono in una loro bizzarra continuity. Ricordo l’amore di alcune donne, ed il tradimento di altre. Ricordo bene quello che provai con Heather Douglas, e la gioia che mi diede la mia Mariko. Ci sono uomini che sarebbero impazziti per perdite meno tragiche delle mie…ma la vita va avanti, che ci piaccia o no, ed io ho scelto fin dall’inizio di non farmi sopraffare-
La luce su Wolverine, questa volta, non si spense. Il cono di luce di Rahne si accese accanto al suo. Dove lui sembrava sprizzare energia nervosa anche quando sembrava rilassato, lei, anche nella sua forma lupina, irradiava serenità. - Incontrai Wolverine per la prima volta quando gli X-Men, creduti morti in una missione nello spazio, fecero ritorno alla Scuola, cogliendoci tutti di sorpresa. Come succede in ogni improvvisazione fra super che si rispetti, la prima cosa che fecero i nostri due gruppi fu di azzuffarsi proprio in casa; alla fine, tutto fu chiarito-
Wolverine continuò, - Ragazzini in gamba, ancora da affinare per bene, ma con un sacco di talento. Lo sapevo, ne avevo visti tanti come loro. Ma, fra tutte, Rahne era la più intrigante…Oggi sappiamo la verità, ma allora ebbi qualche problema a inquadrarla come mutante: il suo odore era tutto sbagliato. Così, quando fummo tutti un po’ più calmi, decisi di scoprire qualcosa di più di lei…-
Il cono di luce di Wolfsbane si spense. Quello di Logan sbiadì lentamente, mentre allo stesso tempo il palco prese vita. Tecnologie aliene trasformarono il limitato ambiente nella dettagliata riproduzione di una delle stanze degli studenti, mentre un semplice contatto telepatico mediato da Jean Grey permetteva al pubblico di afferrare le emozioni dei protagonisti.
Wolverine, adesso, si trovava sulla soglia appena aperta -un lavoro da professionista, non c’era da aspettarsi di meno. Come si era immaginato, Rahne se la dormiva della grossa…
Si avvicinò alla finestra, e la aprì; solo per il gusto di farlo, questa volta non si preoccupò di andarci leggero. Ovviamente, la ragazzina non se ne accorse; lui non sapeva se sorriderne o preoccuparsene per davvero… - Lo sai, piccola? La gente come te non campa molto a lungo in questo mestiere-
Non appena ebbe parlato, lei spalancò gli occhi! La sua reazione fu pressoché istantanea: emise un ringhio inumano, e schizzò fuori dalle coperte già nella sua forma lupina, riuscendo persino a sorprendere l’anziano X-Man!
- Cribbio!- lei stava mirando alla sua gola! Se Wolverine si fosse trovato nella stessa situazione qualche anno prima, avrebbe rischiato di ferire la lupa per difendersi -invece, si controllò abbastanza da usare le braccia come leva e volgere l’inerzia di lei a proprio vantaggio.
Con un uggiolio di sorpresa, Rahne terminò il salto fuori dalla finestra! Le sue zampe si agitarono a vuoto, per un momento, poi le abitudini ripresero il controllo, e Wolfsbane atterrò elegantemente come una gatta. Wolverine arrivò un attimo dopo. - Davvero niente male, piccola. Sapevo che c’era una vena dura, in te-
Wolfsbane passò alla forma transitoria. - Sei impazzito? Stavo quasi per…- si portò le mani alla bocca. La sua rabbia si trasformò in angoscia. - O mio…- di nuovo divenne lupa, e fuggì a gambe levate verso il bosco.
Wolverine scosse la testa. Sorrideva.
La raggiunse presso il laghetto della proprietà. Lei se ne stava lì, rannicchiata contro un albero, vestita di una camicia da notte ormai macchiata di fango ed erba. Non stava piangendo, ma era molto pallida ed il suo respiro era irregolare e scosso dai singhiozzi. Il suo sguardo era fisso.
Wolverine si accosciò accanto a lei. - Non ti fa sentire bene né la prima, né le altre volte. Neanche quando è solo per mangiare-
- …-
- Uccidere non è immorale, piccola. È una misura estrema, qualcosa che va fatto per necessità, non in preda all’ira, non per vendetta e non per ‘giustizia’. E tu stavi difendendoti, là dentro-
Il respiro si chetò. Rahne, lentamente, cessò la posizione fetale. - Non vuoi punirmi..?-
Logan sorrise. - No. Anzi, volevo scusarmi, per avere pensato che fossi completamente indifesa-
Rahne tornò alla forma transitoria. - In orfanotrofio, il Reverendo faceva delle visite a sorpresa, durante la notte. Ci svegliava con una bacchettata, poi cominciava a predicare sermoni terribili, cupi…Era capace di spegnere ogni nostra scintilla di ottimismo. Gli altri bambini ed io volevamo piangere, ma chi lo faceva si beccava un’altra bacchettata per la sua ‘debolezza morale’. Lo odiavo, e volevo tanto ucciderlo…-
- Pensavi che fossi io, poco fa-
- Sì-
Wolverine si alzò in piedi. - Ma non lo hai mai fatto. Ti sei trattenuta. E non credo che saresti andata fino in fondo anche questa volta. Sei molto più controllata di quanto pensi…ma non fare l’errore di considerarla una virtù: la repressione non lo è mai. Impara a rimanere a contatto con la tua rabbia, o verrà il giorno in cui dovranno metterti il guinzaglio per tenerti ferma. Credimi, ne so qualcosa-
L’odore della vegetazione sbiadì in un’ultima folata di vento. La stessa vegetazione, il cielo, le stelle, scomparvero. Rimasero solo gli attori, l’uno vicino all’altra, avvolti nei loro coni di luce. Le loro mani congiunte scomparivano nel buio fra loro.
Wolverine disse, - Nel bene e nel male, nonostante le opinioni dei miei detrattori, sono cambiato. Non avendo scelta, ho avuto modo di guidare gli X-Men, ho superato la morte di Mariko, ho salvato l’Universo -tanto per cambiare- e non vivo più alla giornata. Ho un obiettivo, portare avanti il sogno di pace fra umani e mutanti. Da qualche parte dietro di me c’è una vita per la quale nutro un certo interesse, ma ora sento di avere dei legami forti in cui riconoscermi. Sono soddisfatto-
Wolfsbane disse, - Mi ci è voluto tempo, ma ho appreso la lezione di Logan. Mi sono innamorata, e più di una volta; alcune volte è stata una semplice infatuazione, un capriccio. Altre due volte è stato vero, e la seconda sta ancora andando avanti. Sono stata una Nuova Mutante, un membro di X-Factor e poi di Excalibur. Ora il mio cuore, la mia anima ed il mio corpo appartengono ad un nuovo branco, del quale vi parlerò, un giorno. Combatto per un altro sogno, ed esso non è meno importante della coesistenza fra umani e mutanti. Sono felice-
Le luci si spensero. Un ululato si diffuse dal palco. Gli applausi dalla platea quasi lo sommersero.
Trascorsero alcuni istanti di oscurità, gli applausi cessarono, i rumori si spensero. In quella quiete approssimativa, un lampo squarciò il palcoscenico buio, rivelando agli occhi del pubblico la sagoma di Rogue, avvolta nel suo vestito rosso, quasi esile in quel bagliore accecante, in piedi, le braccia lungo il corpo, lo sguardo puntato in alto, gli occhi verdi sgranati, quasi spiritati, nella luce bianca. Le sue meravigliose labbra si schiusero in un impercettibile sospiro, perfette, intoccabili
“ Corri…” mormorò, mentre il riverbero abbagliante dei riflettori si trasformava in un porpora cupo
Rogue : Special K
(no, non c’azzeccano nulla i cereali!)[1]
di Frank Webley
“Corri velocissima per il corridoio viola. Alterni la corsa a brevi planate per muoverti ancora più velocemente. Vorresti ricorrere al volo più a lungo, ma il corridoio è troppo stretto e il soffitto è molto vicino. Non senti nemmeno la fatica, nemmeno le gocce di sudore che scendono dalla fronte, la milza ti fa male ma spingi ancora di più per soffocare il dolore. La tua unica ragione adesso è correre, correre e correre…
Coming up beyond belief
On this coronary thief
More than just a leitmotif
More chaotic, no relief
Il corridoio viola finisce in un’immensa stanza rotonda senza pavimento. Le pareti sono bianche ma piene di parole scritte in nero e in stampatello, allineate perfettamente formando parole, nomi, pensieri. Sotto di te un enorme vuoto in cui, volando ti precipiti alla velocità di un razzo. Gli occhiali da sole che tenevi tra i capelli son la prima cosa che perdi nella “caduta”. I vestiti iniziano a strapparsi via da te lasciandoti completamente nuda. Senti dannatamente freddo e, nonostante tu stia volando ad una velocità pericolosamente forte pure per i tuoi standard, pensi solo che devi farlo…che è la cosa più importante, devi farcela Rogue… è questione di vita o di morte… e non solo della tua!
I'll describe the way I feel
Weeping wounds that never heal
Can the savior be for real
Or are you just my seventh seal
A poco a poco si strappa da te anche i capelli, la carne, le ossa, tutto il corpo….rimani solo tu, la tua essenza… ancora più nuda, ancora più libera, anche dal freddo. Finalmente arrivi a destinazione: l’enorme precipizio termina in un enorme mare rosa in cui tu, non potendo frenare in tempo, ti tuffi. Non è acqua quella attorno a te, ma una gigantesca marea di melma rosa carne. Per un attimo ti senti affogare, soffocare dalla melma che si muove appena ti muovi, poi ricordi di non aver polmoni e di non poter respirare e, dandoti lo slancio (non sai come, visto che non hai piedi e punti su cui appoggiarti!) ne esci fuori con un balzo.
No hesitation, no delay
You come on just like special K
Just like I swallowed half my stash
I never ever want to crash
Il mare di melma ti reclama fortemente, ti chiama senza una voce con mille nomi, nessuno dei quali è tuo. Plani verso una caverna dalla quale vedi provenire una forte luce gialla che ti attira tantissimo. Mentre il tuo corpo e i tuoi vestiti si riformano senti, non tanto per il sesto senso assorbito da Miss Marvel anni fa, che quella è la tua meta…
No hesitation, no delay
You come on just like special K
Now you're back with dope demand
I'm on sinking sand
Appena entri nella caverna di luce ad accoglierti c’è Remy… Dio quanto sono belli i suoi occhi, per non parlare del suo… ROGUE!!! Non farti distrarre da quella canaglia! Hai una missione da compiere! Molto più importanti delle sue mani affusolate, del suo naso aquilino e del suo gran bel…ROOOOGUE!!!
Gravity
No escaping gravity
Gravity
No escaping... not for free
I fall down... hit the ground
Make a heavy sound
Every time you seem to come around
Non fai in tempo a dire “Remy” che il tuo cajun ti inizia a colpire con i suoi artigli d’adamantio, lo eviti volandogli alle spalle, lo afferri per l’impermeabile e lo lanci addosso a Magneto che stava giusto attaccandoti con il suo scudo. Raccogli il disco a stelle e strisce e lo lanci verso una crepa nella parete. La crepa a contatto con lo scudo inizia ad allargarsi e da essa tutti i tuoi amici (!) iniziano ad attaccarti.
I'll describe the way I feel
You're my new Achilles heel
Can this savior be for real
Or are you just my seventh seal?
Prima Ciclope con la sua telecinesi, poi Logan con quelle sue dannate carte, poi Jean con le sue dannate tempeste e Ororo che mi appare ogni istante in un luogo diverso. Ti circondano e iniziano a stringerti sempre di più, sempre di più, sempre di più…
No hesitation, no delay
You come on just like special K
Just like I swallowed half my stash
I never ever want to crash
Ad un certo punto, sopraffatta totalmente dalla forza dei tuoi compagni inizi a pensare di lasciarti andare, di arrenderti… niente potrà fermarli…tutti assieme sono troppo forti e tu sei troppo stanca. Vorresti lasciarti andare…volare via…
No hesitation, no delay
You come on just like special K
Now you're back with dope demand
I'm on sinking sand
NO! Non puoi arrenderti così! Sei Rogue, eri un membro della Confraternita dei Mutanti e sei uno dei membri più potenti degli X-men. Blocchi tra i denti le dita dei guanti per sfilarteli e inizi a tirare i tuoi super pugni mischiando alla loro potenza il tuo potere di assorbimento dell’energia vitale: il risultato è devastante sia per te, ogni volta che le tue nocche colpiscono i tuoi “amici” senti le loro anime entrarti nel cervello come due trapani nelle tempie, che per loro.
Gravity
No escaping gravity
Gravity
No escaping... not for free
I fall down... hit the ground
Make a heavy sound
Every time you seem to come around
Dopo averli sbaragliati tutti continui a perlustrare volando la caverna fino a quando non ne vedi l’uscita. Voli verso l’apertura e, una volta uscita, non riesci a credere ai tuoi occhi: sei appena uscita dalla narice sinistra di una Rogue gigante che sta dormendo su di una sedia. Ora ricordi tutto! Devi svegliarti! Inizi a gridarti a squarciagola:”ROGUE! ROGUE SVEGLIATI! ANDIAMO DOLCEZZA SVEGLIATI…
No escaping gravity
No escaping gravity
No escaping gravity
No escaping gravity
“Rogue, Rogue svegliati tocca a te” Gambit ti smuove il braccio facendo attenzione a non toccare la tua pelle. Ti alzi di soprassalto dalla sediolina dietro il palco con le cuffie ancora nelle orecchie che sparano a tutto volume i Placebo. “COSA? DOVE…?” agitandoti mezza addormentata finisci a tre millimetri dal naso di Gambit che ti guarda con gli occhi spalancati spaventato per il contatto. Poi i vostri sguardi si incrociano più dolcemente, vi scambiate un divertito sorriso e lui, con la sua voce bassa e suadente, un po’ roca per il tabacco, dice: “Allora chèrie, lo vogliamo proprio sprecare così questo momento?” Tu vorresti avvicinare le tue labbra alle sue e sentirle baciarti, ma all’ultimo momento allontani sorridendo il cajun: “Speraci bello… per entrambi! Il vestito di scena dove cavolo è?”
Gravity
Gravity
Gravity
Gravity
“Hai provato sulla sedia dove eri seduta?” dice Gambit ridendo. Ti vesti di fretta e furia appoggiata alle quinte e mentre lui ti mangia con gli occhi vedendoti seminuda, ricambi il suo sguardo con un’occhiataccia facendo finta di essere offesa. Lui fa finta di niente e si gira. Mentre stai per entrare trafelata sul palco tentando di ricordare la parte dai una pacca un po’ pesante nello stomaco del tuo voyeur ed entri”
Negli occhi della ragazza si accese una scintilla, poi un sorriso nacque sulle sue labbra, alzò la mano destra verso l’alto ed esclamò con la sua voce chiara e profonda “Sipario!”
Le due tende di velluto rosso si chiusero in un istante su
di lei.
Betsy Braddock:
Dentro, nell’ombra
di SergioGambit
Silenzio.
Le tende si aprono, i riflettori rimangono spenti. Ogni luce nel locale rimane spenta, l’ho voluto io, per la mia esibizione. Ed io sono lì, sul palco, dietro, nell’ombra. Non credo nessuno mi veda, non credo nessuno voglia davvero vedermi. Si aspettano qualcosa, e qualcosa gli darò, ma da qui. Non mi muovo, non parlo, non respiro, quasi. Passano i minuti, non un suono.
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
...
...
...
La quiete diventa prima imbarazzata, poi scomoda. Alcuni cominciano a muoversi sulle loro sedie, a disagio, cercando di trovare una posizione che non li faccia sentire fuori posto, altri hanno già capito. O meglio... hanno smesso di capire. Li sento, ogni loro pensiero, ogni loro piccola debolezza, che trova spazio e forma qui, nell’ombra.
...chissà come reagirebbero se glielo dicessi...
...quel piccolo arrogante... come si permette...
...gli sarà piaciuto stavolta?...
...serpi... sono tutte serpi...
Eccoli, è il loro show questo, la loro esibizione personale. Ed io? Io sono solo un’ombra, inconsistente, senza peso né forma, senza occhi, bocca, naso. Ho solo un colore, il più forte di tutti, quello che rifiuta di mescolarsi con gli altri e li fa tutti propri. Quello all’interno del quale tutto si confonde e nasconde. Quello in cui prosperano le insicurezze e le bassezze dell’uomo. Quello in cui cresce la verità.
Eccomi, quindi, un’ombra, un niente, uno specchio che ti mette a nudo. Ma io in tutto questo dove sono?
Non riesci a vedermi? sono proprio lì.
Nell’ombra
Dal buio del palco, sommesso, vago, iniziò a salire un rumore. Forse il pubblico non riusciva a sentirlo, ma nelle sue orecchie suonava, implacabile e netto, come una risacca continua. I colpi regolari delle carte che cozzavano l'una con l'altra mentre Remy le mescolava, il fruscio del mazzo, un suono sempre più forte, nel buio… buio che si illuminava a tratti di un riverbero di fuoco attorno alle sue mani, le carte sfregate l'una con l'altra come pietre focaie, incendiate per un istante di energia. La magia si interruppe bruscamente quando le luci si accesero di colpo, mostrando al pubblico Remy Le Beau, seduto per terra, quasi abbandonato su se stesso, le carte aperte a ventaglio tra le sue mani ruvide e delicate, la piega decisa delle sue labbra, stirate da un sorriso ironico, provocante, sensuale, insistente e menefreghista a un tempo…
Remy Le Beau:
Pesca una carta
di Sergio Gambit
Pesca una carta.
Dai avanti, prendine una, ho dispiegato il mazzo tra le mie mani proprio per te, per fartele vedere meglio.
Basta allungare una manina, afferrare quella che ti piace di più e tirarla indietro.
Senza farmela vedere, mi raccomando.
E’ il solito vecchio trucco non? hai presente, tu scegli la tua carta ed io la indovino.
Non è neanche magia, giochetti da quattro soldi piuttosto.
Quindi non essere timido, scegli la tua carta, a me basta uno sguardo per capire quale hai preso.
Cosa vuoi essere, un re? un cavaliere? un pungente sette di fiori o ti accontenti di un misero quattro di quadri?
Non importa, io sono qui per te, è la tua serata, questa, sei tu lo spettatore.
Noi? Solo piccoli miseri commedianti, esistiamo grazie a te, per il tuo divertimento.
Allora, questa carta?
Dai su non tirarti indietro, non ci vuole niente a prenderne una.
Cos’è... non vuoi scegliere? Ti sembra troppo definitivo?
Bien, non c’è problema, guarda qua, un altro gioco.
Famosissimo.
Ecco, ce ne sono tre sul tavolo, vedi?
Coperte.
C’è un asso tra queste, guarda qua, di cuori, il migliore.
Ora le mescolo, puoi anche non guardare, non è necessario se non vuoi scegliere.
Il resto del mazzo? oh è tutto qua sotto, dietro queste tre carte, ma attento, che di asso ce n’è uno solo.
Ecco, ora le carte sono mescolate abbastanza, coperte, devi solo indicarmene una.
Avanti è gratis! non costa niente prenderne una, e poi un’altra, e un’altra ancora.
Ma devi fare una scelta.
Comprenez, è importante che tu la faccia, prima o poi.
Il mazzo è lì per un motivo, puoi sapere cosa c’è dietro o puoi semplicemente estrarne una a sorte, ma devi giocare il gioco parce que...
parce que ...
... parce que è tutto quello che hai... ecco!
Moi? oh io ho già scelto tempo fa, non si direbbe vero?
Vuoi sapere cosa? Eh... cavolo... non so se posso dirtelo... sai ho una reputazione da mantenere e non vorrei...
Ok va bene... avvicinati un po’... ecco così...
Guarda qua... nella manica... lo vedi vero?
Non ha colori, non ha bandiere, non ha bisogno nemmeno del mazzo, sta fuori, lui.
Le joker.
Immaginati la scena... la partita è diventata impegnativa, la posta in gioco si è alzata, un veloce movimento del polso ed ho in mano la carta decisiva, quella vincente.
Vincente, già, vincente.
E’ la mia carta, è quella fuori dal mazzo, è quella vincente.
Roba di cui andare fieri, vero?
Quindi un consiglio, mai giocare con un jolly, non si sa mai cosa potrebbe spuntargli in mano da un momento all’altro.
Tranne che... beh sì tranne che a poker.
Lì i jolly mica si possono usare, no no.
Il poker è il gioco dei signori... sono intelligenti loro... niente jolly lì.
Niente jolly...
Ma perché continuare a parlare di me, è la tua serata questa, e te la sto rovinando con le mie stupide ciance che ti staranno uscendo dalle orecchie.
E’ la tua serata, questa.
Alors...
Pesca una carta.
Sean Cassidy: Le
cose che non vedrò mai di lei
Sul palco semi buio l’ombra di un uomo era ferma, in parte celata dietro una colonna. Osservava la scena da lontano e le figure della sua vita che vi si muovevano sinuose, la sagoma in ombra della figlia che, ferma in un angolo del palco lo osservava sorridendo non vista. Dal classico palcoscenico di una vita mosse un passo lento, poi un altro ed entrò silenziosamente nel cerchio di luce dei riflettori, strinse i pugni e sbatté le mani al petto.
- Muovermi... andare da lei... e dirle qualcosa... Sarebbe un'idea, una bella idea, un'idea geniale. stupida Idea-
Sean Cassidy Fece un passo avanti, tentennando e poi tornò indietro, restando di spalle.
- Mia figlia. Theresa. E non posso parlare. Non riesco a parlare. Non so parlare. Cosa posso dire a una figlia che in realtà non ho mai avuto? Ho davvero il diritto di chiamarla figlia se non l'ho vista nascere? Se le mie orecchie non hanno sentito le sue prima parole, le mie braccia non hanno accolto i tuoi primi abbracci, le mie mani non hanno sorretto i tuoi primi passi. Qualcuno altro ti ha cresciuta. Qualcun altro ti ha consigliata. Qualcun altro ha visto i momenti più belli della tua vita-
Sean si voltò verso Theresa, allungò una mano, come per ghermire l'aria che la distanzia dalla figlia, poi la ritirò indietro.
- Com'è beffardo il destino. Con la mia voce, così forte da far tremare le mura e da incrinare i vetri, non riesco a pronunciare le parole che vorrei giungessero al tuo cuore. Non riesco a dirti che ti voglio bene... e continuo a pensare alla tua vita. Penso alla tua infanzia, alla tua pubertà, alla tua adolescenza, penso a tutti quei giorni speciali della tua vita in cui io non c'ero, penso alle cose di te che avrei voluto vedere e che non vedrò mai.-
Theresa uscì di scena e Sean si mosse al centro del palco.
- E adesso te ne vai. Ora che sentivo dentro di me di avere la forza di farmi avanti, di affrontarti, di dirti quello che sento.... Ma chi voglio prendere in giro. Non avrò mai il coraggio di affrontare i tuoi occhi, perché quando li guardo ti immagino bambina e ti vedo già con quella fiamma che vi arde
dentro. Una fiamma che mi ricorda la mia colpa, che mi accusa della mia mancanza e che mi ricorda che io non c'ero...-
Sean si avviò lentamente verso le quinte - Puoi dire che mi perdoni, ma so che non è vero... so che la mia colpa continuerà a pesare sulle mie spalle in eterno... lo so perché...- si fermò un attimo - Perché il primo a non riuscire a perdonarmi, sono io...-
Theresa Rourke Cassidy e Danielle Moonstar:
The day the music died
Il palcoscenico era ancora in ombra quando Danielle Moonstar cominciò a cantare a labbra chiuse dietro l'oscurità, le note sottili erano antiche come le sue origini, e quando i riflettori cominciarono lentamente ad illuminare la scena la trovarono seduta a terra ad intrecciare fili colorati. Gli occhi, bassi sul suo lavoro, sembravano chiusi, i capelli raccolti in lunghe trecce nere le cadevano sulle spalle. Quando i fari ebbero dato completamente luce alla scena allora Danielle smise di cantare, lasciò i fili intrecciati a terra e si alzò allontanandosi piano.
In quel momento il pianoforte di Jono intonò la musica che per tutta la serata aveva suonato, di nascosto nell'ombra del suo pianoforte a coda, Theresa entrò, dissolvendo la sua voce in note
I met a
girl who sang the blues
And I
asked her for some happy news
But she
just smiled and turned away
I went
down to the sacred store
Where
I'd heard the music years before
But the
man there said the music woudn't play
And in
the streets the children screamed
The
lovers cried , and the poets dreamed
But not
a word was spoken
The
church bells all were broken
And the
three men I admire most
The
Father , Son and the Holy Ghost
They
caught the last train for the coast
The day
the music died
Al
centro del palco Theresa cercò alcune sagome conosciute per trovare il fiato e
cantare ancora, parlando, con la voce chiara e palpitante, si abbassò a
raccogliere il lavoro abbandonato dalla compagna e tornò a guardare il pubblico
- And I
was sining...
Ognuno
dei membri di X-Force ha un bracciale di fili colorati legato al polso...
giallo fortuna per Sam, il rosso dell'amore è quello di Tabitha, Jimmy porta
quello blu della pace, Roberto il bianco della libertà e a me è toccato il
verde speranza.
Ce li regalò Dani, comprandoli in una di quelle bancarelle che sembrano uscite da uno strappo temporale degli anni sessanta nei mercatini delle pulci.
Ancora oggi sto chiedendomi cosa provai quando me lo legò al braccio dicendomi di esprimere un desiderio, è qualcosa che non riuscirei a spiegare e raccontare, e a dir la verità nemmeno voglio... ma ricordo cosa ho desiderato
If
you're goin' to San Francisco
Be sure to wear some
flowers in your hair
If
you're goin' to San Francisco
You're
gonna meet some gentle people there
Eravamo
seduti sul pavimento polveroso di un magazzino a Frisco; davanti ai miei occhi,
quelle scatole accatastate e le mura con le finestre alte che facevano entrare
poca luce, avrebbero potuto assomigliare ad un abbozzo di casa, e non avrei mai
immaginato che di lì a qualche giorno il pavimento dove si appoggiavano le mie
illusioni si sarebbe spalancato sotto i miei piedi inghiottendo me e la mia
voce.
Quando, guardando lo specchio dell'acqua dal Golden Gate, ritrovai un po’ di me stessa, capii quanto in realtà fossi persa...
la mia casa e la mia nuova famiglia stavano crollando sotto il peso del mio orgoglio e delle mie responsabilità, sapevo che non avrei fatto nulla per far capire loro quanto ci tenevo, se non andarmene.
I've
heard there was a secret chord
That
David played and it pleased the Lord
But you
don't really care for music, do you?
It goes
like this: the fourth, the fifth
The
minor fall, the major lift
The
baffled king composing Hallelujah
Mi
tolsi i fiori dai capelli e cominciai a litigare con la radio; cambiando
stazione di continuo; e con la mia gola, che bruciava più forte ogni volta che
tentavo di emettere un suono qualsiasi, che andava a suicidarsi con dolore tra
le mie corde vocali inermi.
Cominciai con il sentirmi inutile, poi rischiai di diventare pazza, ogni giorno, sola con me stessa senza poter dire - si- a chi mi offriva una tazza di tè caldo se non con un cenno del capo. Mi sentivo sola, e mi stavo dimenticando il desiderio che avevo espresso sul pavimento polveroso del nostro magazzino.
For the
roses were frail
And the
petals fell away
The
morning mist has kissed your grave
Rest now
in sleep
Our
secrets will keep
Till we
speak again tomorrow
Quando le notti si fecero più scure e malinconiche, chiusa nel mio silenzio scappai cantandomi una ninna nanna nella testa.
Arrivai pestando l'erba ghiacciata di brina, la mattina presto come quando ero una bambina... dietro Castel Cassidy, all'ombra di un nocciolo, dormiva ancora mia madre.
Guardavo la lapide con gli occhi brillanti per il vento e la commozione, come ogni giorno della mia infanzia in cui mi sentivo sola ero andata a trovare un fantasma, con l'orlo della gonna che si bagnava strisciando contro il prato freddo e umido.
Non potevo dirle nulla, ma le mie parole sarebbero riuscite a volare lo stesso, anche se non le avessi cantate alte per toccare il cielo.
Oh,
where have you been, my blue-eyed son?
Oh,
where have you been, my darling young one? -
Theresa
spense piano la voce, guardando entrare le figura imponente e morbida di suo
padre, lasciò sfuggire un sorriso
- ...mentre appoggiavo un giglio bianco sulla tomba di mia madre abbassai gli occhi, e nel rialzarli mi ricordai di quel desiderio, stretto tra i fili di un bracciale verde speranza. Mentre scorrevo lo sguardo su quel corpo che, nonostante tutto, conoscevo tanto bene, ritrovai un sorriso dimenticato da tanto, non potevo dirgli nulla, ma potevo abbracciarlo.
And it's
a hard, and it's a hard, it's a hard, and it's a hard,
And it's
a hard rain's a-gonna fall.
Senza
saperlo mio padre aveva realizzato il mio desiderio ed era arrivato, comparendo
dal nulla delle mie speranze, a dimostrandomi che non ero sola, e che quella
domanda, in un magazzino polveroso di San Francisco, era stata esaudita da
tempo… avrei sempre avuto qualcuno vicino
Bye, bye miss American Pie
Drove my Chevy to the levee but the levee was dry
And good ol' boys were drinking whisky and rye?
Singing this will be the day that I die
this will be the day that I die -
Il canto di Syrin riempì ancora per pochi istanti l’aria del teatro, sfumando nel silenzio mentre la ragazza tornava dietro le quinte, tenendo per mano la melodia del pianoforte di Jono, là, dove suo padre la aspettava. Le luci si abbassarono, senza spegnersi del tutto. Calde, ambrate, come un utero o un deserto all’alba di una tempesta di sabbia. Alfiere avanzò sul palco con passo sicuro, reggeva in mano una fiaccola di carta pesta, la appoggiò per terra, e con gesti antichi come il primo uomo del mondo, accese la luce al suo interno, una semplice lampadina. Nathan entrò dalla parte opposta, col passo affaticato del soldato stanco, lento, ma sempre fiero, eretto..
La luce, rossa come il deserto australiano, si schiarì fino a illuminare meglio i due uomini, le loro figure imponenti posate su quella sabbia immaginaria. Davanti a quel fuoco acceso, i due guerrieri si riposavano in vista di future battaglie.
Cable &
Alfiere: Ricordando i miei futuri
“Cosa stai facendo, Cable?” chiese Alfiere.
“Sto meditando: la filosofia Askani insegna a migliorare non solo il proprio corpo, ma anche la mente. Perché più sei padrone di essa in battaglia, maggiori sono le possibilità di vittoria”.
“Ti dispiace se parliamo?”.
“No, anzi, dopo le ultime traversie ci vuole proprio”.
“Perdonami la domanda, ma non ho mai ben capito quale fosse il tuo nome completo”.
“Nathan
Christopher Charles Summers Dayspring Askani’Son”.
“Più lungo non si poteva?”.
“Da quando in qua possiedi senso dell’umorismo?”.
“La vicinanza di Gambit può rivelarsi pericolosa…”. Alfiere simulò il gesto di raccogliere alcuni legnetti vicino a sé e li utilizzò per ravvivare il fuoco immaginario del loro bivacco, poi disse
“Sai, a volte penso quanto siamo simili noi due: due guerrieri, entrambi provenienti da un lontano futuro che non si avvererà mai, che continuiamo a lottare per gli stessi ideali che ci hanno forgiato in gioventù. Eppure ci conosciamo così poco l’ un l’ altro…”.
“Ad onor del vero io ho le mie radici proprio su questa linea temporale” spiegò Cable “Sono figlio di Ciclope e Madelyne Pryor, ma quando ero un infante venni infettato dal dannato Apocalisse con un virus tecnorganico. Perché continuassi a vivere mio padre fu costretto a spedirmi in un’altra era, affidato ad una persona che all’epoca lui riteneva essere una perfetta sconosciuta per lui. Non comprenderò mai a fondo il sacrificio che ha dovuto compiere, deve essere stata la scelta più difficile della sua vita”.
“Così venisti allevato dal clan Askani, vero?”.
“Sì, Apocalisse tiranneggiava quel mondo, l’ aveva reso praticamente un deserto dove la priorità era sopravvivere. E solo i più forti vi riuscivano. Io ero il Prescelto, avrei annientato la sua tirannia. Ma un uomo diventa forte e sicuro delle proprie possibilità solo se ha una famiglia accanto a sé. Il clan me la fornì: mio padre e Jean Grey, che a volte considero la mia vera madre. Non seppi la loro vera identità all’epoca poiché si finsero abitanti del luogo: Slym e Red i loro nomi, se non fossi stato giovane ed ingenuo l’ avrei sicuramente intuito. Mi hanno allevato come un figlio perché era quello che avrebbero voluto fare fin dall’inizio, eppure hanno per ben dodici anni dovuto tenere il silenzio su chi fossero davvero. Un altro immenso sacrificio, non so come ci siano riusciti”.
Nathan Summers cadde in un profondo silenzio, interrotto alcuni secondi dopo da Alfiere:”Ma non è stato vano”.
“No, non lo è stato: crebbi, divenni il miglior combattente di quell’era ed alla fine affrontai Apocalisse. E lo sconfissi definitivamente. Ma En Sabah Nur non era l’unico male di quel mondo, vi era un altro grande nemico, che mi conosceva molto bene poiché era il mio clone. Stryfe. Uccise la mia amata Anya, credetti che anche suo figlio Tyler avesse subito la stessa sorte: col senno di poi vorrei fosse stato così. Quel mondo futuro era troppo corrotto, non volevo che la mia era di provenienza dovesse subirne la stessa sorte: così tornai indietro nel tempo, non sapendo purtroppo che Stryfe mi aveva seguito, per debellare la tirannia di Apocalisse prima che essa ancora sorgesse. Sono riuscito anche in questo intento”.
Il fuoco di carta agitò le sue mani con intensità per qualche secondo nel silenzio assoluto, finché Nathan disse
“Il tuo mondo futuro è diverso dal mio”.
“Già” annuì Alfiere “Laddove il tuo è un deserto senza fine, la società in cui sono nato e cresciuto io è evoluta e tecnologicamente avanzata. Ma anch’ essa ha visto i suoi conflitti, soprattutto tra umani e mutanti. Finché si è giunti ad una tregua dopo la cosiddetta Ribellione Summers. Tuttavia esistevano ancora frange di ribelli che intendevano fomentare nuovamente il conflitto: per combatterle nacquero gli Xavier Security Enforcers”.
“Mutanti che cacciavano e combattevano altri mutanti”.
“Era l’unica cosa da fare allora. La mia vita è stata segnata da questo gruppo sin da bambino, sin da quando un loro agente salvò mia sorella Shard da una terrorista. Una volta che promisi a mia nonna in punto di morte che mi sarei preso cura di lei, la portai con me negli X.S.E. Il nostro destino venne segnato da quel giorno. Shard si innamorò di un giovane rampollo di una nobile famiglia, Trevor Fitzroy, implicato in numerosi affari sporchi. Nel frattempo io facevo carriera nel gruppo ed ottenni il comando di una mia personale squadra: i suoi due membri più valorosi erano Randall e Malcolm, i miei più grandi… amici”. Alfiere ritornò con la mente a quel tragico giorno in cui li perse. Sei troppo importante, dissero sacrificandosi. Si è sempre chiesto se tutto ciò fosse vero.
“Ma con noi il destino ama giocare sporco, vero?” interloquì Cable.
“Già. Fitzroy alla fine per evitare di andare in prigione mi fornì una informazione su un covo di ribelli, che io passai a Shard di modo che ottenesse davanti al gruppo quel lustro che cercava da tempo. Ma era tutto un trucco: mia sorella… venne uccisa dagli Emplari e pur di riaverla sotto forma di ologramma feci un patto col diavolo in persona, sotto forma del Testimone, andando a lavorare per lui. Terminato questo orribile impegno, riebbi mia sorella e iniziai a dedicarmi a quella che per me divenne da allora la mia missione principale: catturare Trevor Fitzroy”.
“E fu così che giungesti in quest’era, vero?”.
“Esatto: quell’ essere spregevole aveva appena massacrato un gruppo di studenti di Emma Frost ed io non riuscii a fermarlo. Mi sfuggì, una due, troppe volte. Alla fine lo raggiunsi in un' altra dimensione, un mondo dove lui regnava col terrore e lo schiavismo: lo uccisi, ma mia sorella Shard morì per la seconda volta, trasformatasi in pura energia da me assimilata per poter sconfiggere Fitzroy".
Di nuovo il silenzio cadde su di loro, finché Cable disse:”Sai, a volte penso quanto dovessimo sembrare più diversi del solito di fronte ai nostri compagni: nei primi tempi eravamo persone che prima sparavano e poi parlavano. Un comportamento illogico in quest’era, ma non in quella da dove provenivamo: lì non potevi parlamentare, discutere, dovevi solo combattere. Abbiamo creduto erroneamente di poter applicare quel modo di agire anche a questo mondo, ma sai una cosa? Sono felice di essermi sbagliato: non siamo certo i tipi più amorevoli della Terra, ma abbiamo capito che il sogno di Xavier, un sogno ormai inevitabilmente corrotto da dove proveniamo noi, qui poggia su basi sempre più solide. Hai visto, ogni giorno che passa veniamo accettati sempre di più: dopo quel discorso di Bestia in televisione ci sono sempre più persone che non provano repulsione verso di noi. Soprattutto bambini e questo è importante poiché è da loro che nasce il futuro. Il vero futuro”.
“Chissà, forse il futuro è davvero una incognita: fino a pochi anni fa non avrei mai pensato una cosa del genere”.
“Secondo me il futuro non conta: non ci saranno i Giorni di un Futuro Passato o le Ere di Apocalisse. C’è e ci sarà solo il presente e noi lotteremo fino alla fine perché esso non venga corrotto e rimanga permeato del sogno di integrazione”.
“Permeato? Da quando usi parole ricercate, Cable?”.
“La vicinanza di mio padre può rivelarsi pericolosa”.
Al che i due mutanti, solitamente seri e compassati, scoppiarono in un’ allegra risata che servì loro anche a smaltire le recenti tensioni.
“Ti va una sessione di allenamento?” chiese poi Nathan Summers.
“Con estremo piacere” rispose Alfiere.
La luce si spense, affievolendosi piano, mentre i due uomini
si allontanavano, insieme. E quando si riaccese sul palco ormai vuoto, il fuoco
del riposo era scomparso.
Sarah: come un
fiore
di Xel aka Joji
Buio.
Suono di passi sul palco di legno.
Occhio di bue, che mostrava Sarah, che si era appena fermata al centro della scena.
Il suo viso era pulito, la sua pelle candida.
- Potevo nascere bella come un fiore di campo...-
Si strinse le spalle con le mani.
- E come un fiore vivere un'esistenza placida e tranquilla, segnata solo dal soffio del vento. Lasciarmi dondolare nel più quieto degli ozi, ebbra della felicità che porta la pace...-
Contrasse il volto, la sua pelle si rigò come fatta di porcellana.
- Ma, tutto ciò mi è stato negato...-
Schegge d'ossa, fuoriuscirono dal suo corpo e lo deturparono, dalle braccia, dal volto, dall'addome, dalle spalle.
- Sarò all'ora come un nodo di rovi. Nessuno mi toccherà, per paura di venire punto, e farò sgorgare sangue da chiunque mi si avvicini.-
Le schegge sulle spalle ferirono le mani di Marrow, che iniziarono a sanguinare.
- Non avrà una vita calma e felice, bensì segnata dal dolore e dal rancore, farò male e mi sarà fatto male, da quelli che vorranno estirpare le mie radici..-
Si voltò e fece per uscire.
- Potevo vivere come un fiore di campo, ma sono nata tra i rovi e come tale vivrò... ma forse, un giorno, in mezzo ai rovi, qualcuno potrà trovare la più splendida delle rose.-
Si fermò un attimo, ponendosi di profilo, le schegge erano sparite dal volto, un sorriso malinconico si allargava.
Buio.
Jean-Paul Baubier:
Glass Clouds
di Sundy
Jean-Paul
Beaubier arrivò dal cielo, rimandando la stessa fredda soffusa luce degli
spettri delle favole, vestito del completo grigio antracite che il suo sarto
personale gli aveva cucito addosso, i capelli lucidissimi divisi con studiata
casualità sul capo, la pelle diafana che sembrava riflettere l’alone luminoso
che lo circondava. Discese silenziosamente da sopra il sipario, mosso dalla
magia invisibile del suo potere mutante, ma non toccò terra, i piedi rimasero
sospesi sulle assi del palco, un distacco di pochi centimetri che bastava a
separare completamente quella creatura luminescente dalla platea scura, occhi
seduti su sedie morbide che toccavano la dura terra. Jean-Paul Beaubier
assaporò l’amara ebbrezza che gli dava trovarsi a quella misera eppure
incolmabile distanza da loro, appoggiò gli occhi sul riflettore spento che non
aveva bisogno di illuminarlo, e iniziò a parlare.
- Io sono felice- la piega delle sue labbra sottili e l’equilibrio perfetto dei suoi lineamenti vagamente alieni non tradivano nessuna emozione, anche se il fremito della sua voce e il bagliore algido dei suoi occhi lasciavano trapelare una profonda quanto metabolizzata malinconia.
- Sono felice dal giorno in cui ho imparato a volare, perché da quel giorno in poi il cielo è stato mio, e nessun confine ha più potuto fermare i miei desideri. Nella solitudine del cielo gelido che sta sopra le nuvole basse delle montagne, esiste solo la libertà. Tutte le cose più pesanti vengono, prima o poi, risucchiate verso la terra, la libertà invece, continua a volare leggera ben oltre le montagne e le nuvole.- La voce di Jean-Paul era calma e chiara, ma una nota tagliente come le linee nette del suo corpo perfetto, come la luce fredda che emetteva, affilavano le sue parole, facendole stridere, orgoglio e dolore. - Io sono felice, perché è lassù che il mio cuore vive, perché quando voglio posso sentire il vento sulla pelle, posso respirarlo, toccarlo, farne mia ogni molecola. Io sono felice, perché posso volare oltre ogni confine l’uomo abbia costruito, e nella mia solitudine, al di là delle nuvole, sento che la mia luce è mia e mia solamente. Sono stato io a costruire sulle mie ali me stesso, il mio orgoglio, la mia dignità. E sono felice, perché so di appartenermi…- la scintilla di rabbia che aveva bruciato fino a quel momento negli occhi di vetro nero dell'elfo si spense in un secondo, la pelle sembrò ammorbidirsi nella sua fluorescenza, mentre un pensiero attraversava la sua mente, e la sua voce si addolciva impercettibilmente - ….avete un’idea di quanto possa essere bello il cielo, al di là delle nuvole, di quanto possa essere commovente lo spettacolo della danza del sole e delle stelle, inebriante il profumo del vento e della neve? La bellezza va saputa vedere, capire, vivere, e la bellezza si comprende solo aprendo il proprio cuore e lasciando cadere tutto ciò che lo appesantisce, tutto quello che vi pianta in terra come paletti, che vi fa combattere il vento, invece di seguirlo dove sareste liberi di scegliere il valore della vostra eccezionalità, di chiedere a voi stessi quanto possa essere bello… non avere confini-
La voce si spense in un’ultima cristallina puntura, e la luce che circondava la sua figura si affievolì gradualmente fino a spegnersi del tutto. Jean-Paul Beaubier socchiuse gli occhi mentre i suoi piedi scendevano fino a toccare terra, poi con un gesto morbido, si voltò e uscì di scena senza degnare il pubblico di un solo sguardo.
Cecilia Reyes: il
posto sbagliato
di Xel aka Joji
Un telefono poggiato su uno sgabello al centro del palco.
Iniziò a suonare.
Uno, due, tre squilli.
Continuò a trillare finché non si attivò la segreteria telefonica.
- Qui risponde la segreteria telefonica dello Xavier Institute, al momento non possiamo rispondere, siete pregati di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Vi richiameremo il più presto possibile-
- Sono Cecilia. Scusate se non sono venuta ma... Ecco, non so come dire... Non me la sentivo. Cioè... sarei voluta essere lì, con voi, per festeggiare, però... forse non è il mio posto... No, penso proprio che il mio posto non si affatto lì con voi. Non sono un X-man , e non sarei mai riuscita ad
esserlo. Non sono portata per vivere una vita speciale come la vostra, io sono portata per la semplicità della vita di ogni giorno, per il profumo del caffè appena svegli, per il sole tra le cime degli alberi, per...-
Un clic e la segreteria si spense.
Dopo qualche secondo il telefono riprese a suonare.
Uno, due, tre squilli.
Continuò a trillare finché non si attivò di nuovo la segreteria telefonica.
- Qui risponde la segreteria telefonica dello Xavier Institute, al momento non possiamo rispondere, siete pregati di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Vi richiameremo il più presto possibile-
- Certo che il tempo del messaggio è davvero poco... Comunque, per farla breve: siete speciali, gente! Tanto speciali. Troppo speciali per me... Vi ringrazio per ciò che avete fatto per me, ma io non posso proprio venire oggi... perché sarei nel posto sbagliato. Auguri di cuore.-
Clic.
Emma Frost: Sinful sinner
di Lucky
La
scena era illuminata soltanto in un angolo, un tavolino a tre piedi e
un'elegante sedia da giardino riempivano il cerchio di luce emesso dai fari,
sul ripiano una bottiglia di vino e un bicchiere vuoto... Emma entrò dal lato
opposto del palcoscenico, lenta, provocante, guardando dritto davanti a se,
senza incontrare gli sguardi della platea muovendo le lunghe gambe con una
classe pressoché unica, sciogliendo il fascino della Regina Bianca ad ogni
passo, ad ogni sguardo, battito di ciglia o impercettibile, languido, movimento
delle labbra.
Avanzò fino al tre piedi e si fermò dietro la sedia togliendo la bottiglia di bianco dal secchiello e versandosi con movimenti calcolati un bicchiere vino
- forse non vi sareste aspettati di vedermi... qui - con un ampio gesto felpato della mano, Emma indicò il palcoscenico
- ma anche se sono una novellina tra i figli dell'atomo, e anche se non mi vanno particolarmente a genio le confessioni ho pensato di partecipare anche io, e come protagonista, a questa maratona dei buoni sentimenti, del resto potrei cancellare questo episodio dalla mente di tutti voi quando avrò finito - Emma fece una breve pausa, e con un sorriso ironico si sedette al tavolino
- pardon... quasi tutti - aggiunse sarcastica lanciando uno sguardo non visto a Xavier e a Jean Gray. La sua voce bassa e accattivante si spense lentamente assieme alla luce, che si fece ombra sul tavolo e su di lei, il corpo perfetto chiuso in un attillato tubino bianco, le gambe nude accavallate, tacchi alti e i capelli lisci dietro la schiena.
Dall'ombra emerse il fumo grigio di una sigaretta
- il Professore mi aveva gentilmente chiesto di non fumare, ma si sa... sono una bambina cattiva - Emma aspirò dal bocchino e soffiò di nuovo verso il pubblico.
Le luci si abbassarono ancora e in quel momento il teatro sembrò perdere ogni suono; ogni minimo rumore era stato annullato dalla straordinaria potenza mentale della donna che gli stava davanti, avvolta nelle nuvolette di fumo della sua sigaretta e da una luce fioca che si era fermata poco prima di spegnersi.
* ...e il Professore non apprezzerà nemmeno questo mio giochetto... ma quale modo migliore per parlare di me se non quello di entrare nella vostra mente * la voce ardente e leggermente roca della Regina Bianca si insinuò nei pensieri delle persone, senza lasciare una via d'uscita a chi non ne aveva il potere, e abbandonando una domanda senza risposta che aveva la voce telepatica del Professor Xavier
* non userò il mio potere per rubare i vostri pensieri, ho imparato a mie spese che qui le cose potrei domandarle, senza temere che mi vengano negate * l'onda telepatica continuava ad attraversare le menti degli spettatori, intensa e rilassante al tempo stesso, liscia ed irruente
* tanto, tanto tempo fa * il tono canzonatorio, come se stesse per raccontare una favola per bambini, si mutò in un rauco lamento * per molti giorni ho fatto lo stesso incubo... ero sola in un angolo, immersa in una luce asettica che sentivo di dover fuggire. Ad un tratto davanti a me compariva Tarot, Marie-Ange, mescolando le sue carte * Emma cominciò a parlare più velocemente, rincorrendo le parole con frenesia * il viola del suo vestito tramutava in ombra la luce bianca da laboratorio che ci avvolgeva, estraeva due carte e me le mostrava * la voce rallentò di nuovo, diventando un sibilo soffocato * il giudizio, l'appeso, e con la voce sottile dell'incubo e il suo accento francese sussurrava - che cosa hai fatto..?- *
Con
un filo di voce Emma appese quell'ultimo flebile gemito nella mente dei
presenti. Le parole della donna, legate tra loro da penetranti sensazioni che
si insinuavano affilate e dolorose, si persero piano lasciando il suo pubblico
atterrito.
Emma era rimasta immobile sulla sedia, le emozioni terribili espresse nei suoi pensieri accatastati non trapelavano minimamente dal suo corpo, prese il bicchiere tra le mani e bevve un lungo sorso
* tutto questo tanto, tanto tempo fa, prima che il Professore, nella sua immensa misericordia quasi divina mi accogliesse nella sua casa della redenzione * l'accento della voce aveva acquistato di nuovo una nota pungente, quasi provocatoria * ...ma le bambine cattive non cambiano mai * spense la sigaretta dentro il bicchiere e si alzò liberando i presenti dalla sua stretta morsa telepatica - o forse quasi mai... - aggiunse schiudendo le labbra morbide e parlando normalmente
- quando il caro Charles mi tese la mano, mi domandai perché lo stesse facendo - mosse due passi lontano dal tavolo, il rumore dei tacchi risuonò sordo nella stanza - perché dare una possibilità a me, la Regina bianca accasciata nel suo laghetto di illusioni sciolte? I miei studenti erano morti, il mio orgoglio e la presunzione di un tempo si erano frantumati in una pozza di ghiaccio e lacrime sul pavimento - gli sguardi che prima rivolgeva al pubblico tornarono su se stessa, fissando a terra la punta delle decolté bianche, che si facevano rumorosamente spazio sulle assi del palco
-
...io non sapevo quello che sarebbe successo - la voce si confuse nuovamente in
un debole e stridente sussurro, gli occhi, lanciati a terra, cercavano nei suoi
passi calcolati un appiglio. Con la perfetta mimica della pazzia, Emma proseguì
il suo canto stonato - Marie forse lo aveva visto nelle sue carte... ma io non
lo sapevo - la recita era mossa intimi e inaccessibili sentimenti e da un'espressività
sorprendentemente fredda, coinvolgente, intensa, violenta. La voce sembrava
incrinata dal pianto, i passi si muovevano al tempo delle parole; lente,
pesanti, quasi tangibili - a modo mio quei ragazzi erano parte di me, a modo
mio mi sentii strappata dalla gelida solitudine in cui ero vissuta per gettarmi
in una nuova, più nera, profonda... - pronunciò l'ultima sillaba tenendola
sospesa in equilibrio sulle labbra e voltandosi di nuovo verso la platea tornò
o comunicare telepaticamente
* Charles mi raccolse dalla mia pozza di fango e dai miei istinti suicidi insegnandomi che dai cocci del mio passato potevo ricucire un futuro... in quel momento Emma Frost, annientata, polverizzata, compatita, non era altro che un pallido e patetico scarto della donna che sono diventata * accompagnava alle parole gesti vellutati della mano, sbriciolando l'aria tra le dita * la donna che stanotte, mentre voi la state a guardare un po’ stupefatti e un po’ preoccupati, vi snocciola con noncuranza i ricordi di dolori passati *
Respirando
profondamente tornò a prendere il suo posto sulla sedia da giardino accanto al
tre piedi e accavallò le gambe con grazia peccaminosa
*non gli chiesi mai perché aveva deciso di accogliere nella sua casa dei sogni una che gli aveva dato tanti grattacapi in passato, decisi che se non potevo arrivare alla sua mente e prendere con i miei metodi le risposte, avrei dovuto cambiare strategia, ma da sola * la luce si spense di colpo e si riaccese con un lampo, esaltando la pelle diamantina della nuova Regina Bianca e abbagliando gli occhi dei presenti, abituati alla penombra. Emma alzò un braccio alla luce artificiale dell'occhio di bue - fu il primo segnale di una... rinascita, mi piace definirla così quando mi sento in vena di romanticherie - la voce, di nuovo tagliente - non è mia abitudine a chiedere qualcosa se non conosco già la risposta. L'evoluzione e il gene X mi hanno fatto un dono che ha cambiato la mia vita - l'effetto della nuova mutazione della donna svanì dalla sua pelle, sussurrò di nuovo telepaticamente * una voce e pensieri in grado di penetrare la mente altrui, in grado di plasmare, modificare, aggiungere, cancellare... * la luce tornò ad abbassarsi con regolare precisione fino a restare soffusa come lo stoppino ardente di una candela * il Sogno del professore mi ha donato... * la luce si soffocò lasciando il palco buio ed un ultima piccola parola appesa nell'oscurità * una speranza *
Lunghi istanti di silenzio si consumarono nel teatro scuro, mentre le ultime parole di Emma bruciavano ancora nelle menti degli spettatori. Lentamente, un'alba infuocata sorse da dietro le quinte, accendendo la scena di riverberi vermigli. Una figura imponente discese dal cielo nero di quell'aurora artificiale, dominando con un gesto secco e sicuro il suo volo. Il lungo mantello nero che gli copriva le spalle fluttuava leggermente intorno al suo corpo.
Nessun rumore accolse la comparsa della figura sul palco, ad eccezione del fremito dei cuori di coloro che sapevano di trovarsi di fronte un uomo di cui pochi conoscevano il nome, ma tutti il potere. Stava immobile di fronte a loro come la statua di un generale del mondo antico, marmo e albastro, ma i solchi che segnavano il confine delle sue labbra si mossero e fremettero, mentre cercava le parole che sembravano mancargli, gli occhi chiari cercarono un luogo in cui fermarsi. Lo trovarono in un altro punto del mondo.
Magneto: Destini
di Pablo
- Notte. Un lampo accecante squarciò il manto erboso della collina, illuminando a giorno le fronde degli alberi. Lentamente una figura emerse da un piccolo rettangolo, piegata su se stessa. Non appena emerse tutta, il lampo si spense e l'uomo si accasciò sul prato, con il volto madido di sudore. Ansimò a lungo, prima che i suoi sensi iniziassero a recepire l'ambiente esterno. Lentamente, molto lentamente, aprì gli occhi, strinse tra le mani l'erba e sorrise.
Il suo nome era Erik Magnus Lensherr, ma il mondo l'avrebbe conosciuto come Magneto. L'avrebbe conosciuto, perché adesso non è ancora diventato tale, non ha ancora ricevuto lo shock che l'avrebbe indotto a diventare uno dei più feroci sostenitori della superiorità dell'homo superior, non aveva ancora discusso e litigato con Charles Xavier sulle possibilità di integrazione tra uomini e mutanti. Nulla di tutto ciò, perché adesso Magneto è solo Erik Magnus Lensherr, la sua vita è felice, ha una moglie e una figlia, non pensa più ai suoi poteri... ma tutto questo sta per cambiare, forse.
Si alzò in piedi e si guardo attorno con attenzione, cercando di riportare alla mente dettagli svaniti nel tempo. Dapprima lentamente, poi come un fiume in piena, i ricordi, i suoni, le immagini e gli odori lo assalirono, travolgendo i suoi sensi e le sue percezioni. Fu un lungo attimo, poi alla fine la sua mente riprese il controllo del suo corpo.
- Sono arrivato. - disse a bassa voce, quasi non volesse farsi sentire da se stesso.
Improvvisamente il lampo di luce si riaccese, inondando per la seconda volta la collina. Un quadrato luminoso si era aperto sul terreno, e dal suo interno stava emergendo una figura completamente eretta in piedi.
I suoi occhi fissarono Magneto con un tono di sfida e divertimento.
- Mi chiedo - disse con voce sprezzante il dottor Destino - per quale motivo non devo scatenare la mia ira su di te, Erik Magnus Lensherr, meglio noto come Magneto, sedicente signore del magnetismo.
I due uomini si fissarono. Magneto sapeva che aveva il vantaggio di poter manipolare i metalli, e quindi anche la sua armatura, ma sapeva anche che Destino possedeva ben altri poteri, in grado di usare a suo vantaggio le sue debolezze.
- Io... - Magneto si fermò, cercando di capire le sue stesse intenzioni - voglio salvare me stesso!
Destino si guardò intorno, poi senza dire una parola si diresse verso nord, attraversò il bosco e vide un villaggio. Magneto lo seguì silenziosamente.
- Siamo in Russia vero? (sicuro?) Un piccolo villaggio, dimenticato da Dio. - disse con tono solenne il signore di Latveria.
Magneto gli si affiancò e fissò con uno sguardo carico di rabbia il villaggio apparentemente tranquillo.
- E qui che è iniziato tutto. - affermò Destino con il tono di chi non ammette repliche o contraddizioni.
Magneto rivolse il suo sguardo verso di lui, e anch'esso era di quelli che non ammettevano repliche.
- Tua figlia Anya morta, tua moglie Magda fuggita con in grembo due piccole vite senza che tu lo sapessi, tu costretto a svelare la tua natura mutante. - Destino riassunse in poche parole gli eventi che si sarebbero scatenati di lì a poco - Ed ora sei venuto per cambiare la tua vita, ora che guidi quel gruppetto di ragazzi privi di spina dorsale che si fanno chiamare X-Men.
Magneto puntò il palmo della sua mano verso il petto di Destino.
- Sai che posso farti stritolare dalla tua stessa armatura?
Destino sorrise.
- Come credo tu sappia che mentre lo fai posso ucciderti con un rapido rito magico.
- Vale così poco la tua vita? - replicò il signore del magnetismo.
I due rimasero in silenzio, finché non sentirono delle urla provenire dal villaggio, e videro una coltre di fumo alzarsi dal centro di esso.
- ANYA! - urlò Magneto, muovendosi verso il villaggio, ma il sovrano di Latveria lo fermò afferrandogli la spalla.
- Lasciami stare! - gli disse - Devo salvare la vita di mia figlia, così che potrò abbandonare il mio fardello di odio e violenza!
Destino scoppiò a ridere, lasciando la presa su Magneto.
- Perché ridi?
- Perché sei un povero pazzo che non conosce i segreti dell'universo, e che magari pretende di comandarlo a suo piacimento. - Magneto rimase in silenzio, e così Destino proseguì - Cosa credi, che se salvi tua figlia e torni nel futuro, lo troverai cambiato come negli assurdi film americani? Credi che salvi tua figlia, tu e Xavier sarete ancora amici, che non creerai nessuna Confraternita dei Mutanti Malvagi, che il mondo vivrà in pace?
Magneto continuò a fissarlo in silenzio.
- No, non succederà niente di tutto ciò. Si creerà una linea alternativa, questo si, dove tu tua moglie e tua figlia vivrete insieme, dove tu vedrai nascere gli altri tuoi due figli, ma la tua vita, questa tua vita, non cambierà, ne ora ne mai.
Un lampo illuminò gli occhi di Magneto.
- Mi basta sapere che mia figlia sia viva, da qualche parte.
- Lo è già! In qualche infinito numero di realtà alternative l'incendio non c'è mai stato, tu hai salvato tua figlia, magari tu non sei mai venuto in questo sperduto villaggio.
La luce negli occhi di Magneto si spense. Girò la sua testa verso il villaggio, e sentì le grida di Anya tra le fiamme, poi lentamente svanirono tra i lampi di luce della piattaforma temporale che Destino aveva attivato.
Il volto di Magneto era illuminato da una solo luce laterale, che lo rendeva spettrale e ambiguo.
- Capii la lezione di Von Doom: il nostro passato non possiamo né cambiarlo né cancellarlo. Sono macchie indelebili sulla nostra pelle. A volte mi chiedo quanto però siamo padroni delle nostre azioni: io non sono riusciti a salvare mia figlia, morta in un banale e casuale incendio, perché avevo usato i miei poteri contro colui per cui avevo lavorato, perché non voleva pagare il mio lavoro, e lui ha cercato di vendicarsi stordendomi; mi sono vendicato io di loro, uccidendo tutti e facendo fuggire mia moglie, terrorizzata da ciò che ero diventato. Forse se non avessi reagito così, mia figlia sarebbe stata salva. Forse se non avessi ucciso tutti gli abitanti del villaggio, Magda sarebbe rimasta con me. Forse. C'è una teoria che sostiene che dal battito di ali di una farfalla in Cina potrebbe nascere un uragano sulle coste della California. In questo c'è qualcosa di filosofico, qualcosa che ci spinge a spiegare la nostra vita, le nostre scelte, il nostro futuro, come un enorme puzzle di cause-effetto, di cui noi abbiamo il controllo di una minima parte, e a volte neanche di quella. Perché in fondo credo, o forse mi piace credere, che indipendentemente dai miei errori, dalle mie reazioni rabbiose, se l'incendio non fosse scoppiato, se mia figlia fosse ancora ad aspettarmi in quella locanda, se mia moglie non avesse visto di che atrocità fossi capace, forse Magneto non esisterebbe. Forse.
Lentamente Magneto si alzò in volo sparendo dal palco nel buio. Poi, svolazzando lentamente dall'alto verso il basso, cadde una foto che andò a poggiarsi per terra. Era la foto di Anya.
* * *
Rimase poggiata per terra per un tempo pesante, pesante per coloro che dal pubblico la osservavano con la consapevolezza che nessuno si sarebbe chinato a raccogliere quell’immagine sbiadita dal tempo, netta nella memoria dell’uomo che l’aveva lasciata cadere, nel suo dolore, nel suo tormento.
Le tende si chiusero su di essa, lente, con un vago cigolio di cancelli nella penombra rossastra del palco ormai vuoto. La foto non si ribellò all’inesorabile avvicinarsi del sipario, rimase esattamente nella sua posizione, e il manto di velluto rosso la coprì, lasciando solo un angolo chiaro, visibile solo ad un occhio particolarmente attento. I primi applausi si alzarono dal pubblico ancora non del tutto convinto che lo spettacolo fosse finito, colpi isolati, deboli, che si fecero sempre più forti e numerosi, fino a riempire il vuoto del soffitto alto dell’auditorium col loro fragore.
Il sipario si riaprì sulla scena, occupata adesso dal pianoforte a coda, sul cui leggio era ancora appoggiata la partitura di una canzone che parlava di un requiem alla musica. Tutti avevano portato un dono. O lasciato un segno. Al posto dello sgabello, c’era una sedia a rotelle, familiare ai molti studenti presenti tra il pubblico. Impenetrabili lenti rosse e un ciondolo d’oro con una x cerchiata, appoggiati su di essa. Un cappello marrone e piccoli occhiali da vista. Una piuma. Un calzino blu. Il quadro di Piotr, lo zainetto di Kitty. Una clava da giocoliere che portava un rosario intrecciato attorno al manico. Un lupetto di peluche appoggiato su una divisa gialla e nera, ripiegata con cura. Un taglio netto nel pavimento. Un guanto lungo di pizzo rosso. Una fascia da polso che proiettava una lunga ombra. Un mazzo di carte da gioco in disordine, il joker che sporgeva leggermente, sorridendo. Una lettera accuratamente ripiegata. Un quadrifoglio verde speranza. Fili di cotone intrecciati. Un fuoco di carta. Una rosa rossa infilata in una scheggia d’osso. Un ciondolo, un gabbiano d’argento. Un apparecchio telefonico con la spia della segreteria che lampeggiava, muta. Un bicchiere di cristallo in cui galleggiava il moncone di una sigaretta spenta.
Davanti ad essi, la foto. Immobile, come incollata alle assi del palco.
Le tende si richiusero su quella catasta oggetti, ex voto o rifiuti che fossero. Durò solo un istante, eppure si riaprirono sul vuoto del palco ormai deserto, tra gli applausi e i fischi del pubblico. Qualcuno si alzò in piedi, qualcun altro si commosse, a qualcuno lo spettacolo non era piaciuto, e borbottava insoddisfatto, altri applaudivano con lo sguardo rivolto altrove.
La foto attese pazientemente, sul palcoscenico, che i rumori si spegnessero, le luci tacessero, il silenzio tornasse a riempire l’auditorium, mentre la notte si faceva più profonda. Solo allora risalì volteggiando fin dentro la sua tasca, chiuse gli occhi e si addormentò di nuovo.
Da qualche parte, in
un altro tempo, un’altra, più vasta platea applaudì l’esibizione celebrativa.
Una platea sinceramente entusiasta, composta dal vasto pubblico di creature
senza una colonna vertebrale, costrette, per muoversi, su speciali protesi
meccaniche. Il pubblico aveva atteso a lungo quest’annunciata perla sui loro
mutanti favoriti, ed ancora una volta il grande Mojo non li aveva delusi.
E ora, bastava aspettare solo per altri dieci anni…
NOTE!
[1] Cos' è allora lo Special K? Beh I ragazzi dei rave la chiamano anche Vitamina K, Kit Kat o addirittura Quietamina. Per medici e veterinari che la usano come anestetico il nome corretto é Chetamina. Viene sia usata appunto come anestetico sia nei rave party per “sballare”. Ma prima di tutto è la canzone dei Placebo che Rogue ascolta prima di addormentarsi e di finire nel mondo allucinogeno che è la sua testa! ( Frank Webley)
si ringraziano:
Mr T per la concessione di: Xavier, Scott, Jean, Bestia, Bobby, Emma, Logan, Peter e Magneto
SergioGambitt
per: Warren, Kitty, Rogue, Psylocke, Sean, Jono, Cable, Alfiere e Nightcrawler
Webley per:
Gambit
Sebastian
Shaw per: Marrow, Dani, Theresa
Xel per: Cecilia
Eriugena per: Northstar
Io e Sundy volevamo arrivare a 40 discrete pagine di word… il che avrebbe vantato una certa classe, ma non ci saremmo mai riuscite senza il titolo, vi dovrete “accontentare” di questo malloppo…
E ora qualche dovuto ringraziamento: il primo va a Carlo, che mi ha dato il benestare per questo progetto; il secondo a tutti coloro che, direttamente e indirettamente (come rosso che si è sorbito 30 e più pagine di materiale da visionare e revisionare ^^’) hanno partecipato alla sua realizzazione; poi agli autori che hanno compreso perfettamente l’idea che avevo in mente per questo lavoro e si sono piegati alle direttive della sottoscritta rompiscatole; a Sundy che si è sbattuta aiutandomi a completare il tutto in pochi giorni nonostante fosse sotto esame, un grazie speciale anche a Valerio, fautore del geniale colpo di scena finale e un omaggio (voluto giustamente dal Boss) a Stan Lee & Jack Kirby, che 40 anni fa ci dettero gli X Men e (perché no?) a Chris Claremont & Dave Cockum
grazie ai quali sono giunti sino a noi
E adesso… aspettate pure altri dieci anni! ^____-
Lucky