Numero 3
ECHI DAL PASSATO - Parte 2:
OMBRE DI GUERRA
di Andrea Garagiola
Base segreta sotterranea nazista. Da qualche parte a sud-ovest del Belgio. 23 febbraio 1944.
Era buio in quell’ala della struttura sotterranea, solo qualche debole luce proveniente dai giganteschi macchinari disegnava debolmente i contorni dei grossi cilindri di vetro che occupavano la maggior parte della stanza. Al loro interno, completamente immersi in un’aberrazione chimica che voleva imitare il liquido amniotico materno, giacevano immobili decine e decine di figure umane.
Un boato assordante percorse ogni corridoio e ogni stanza della base, scuotendo la struttura fin dalle sue fondamenta. Poi grosse porzioni di cemento armato si staccarono dal soffitto per investire strumentazioni e cilindri. Molti di essi andarono in frantumi, la sostanza viscosa si sparse e le figure al loro interno vennero maciullate nell’impatto.
Il computer principale, al centro della grossa stanza, venne investito da un’enorme scheggia di cemento che lo trafisse completamente e fece scaturire uno spettacolo accecante di fumo e scintille. Quelle scintille furono solo l’esternazione di qualcosa che stava accadendo tra i circuiti di quel complicato computer, qualcosa che non era stato previsto da chi lo aveva progettato e, tanto meno, da chi aveva causato, qualche piano più sopra, l’esplosione che aveva dato origine a tutto. Ma questo poco importa, fatto sta che quando la polvere e il fumo di dissiparono e la stanza rimase sigillata sotto tonnellate di macerie insieme a tutti gli ospiti dei cilindri superstiti, uno di essi ricevette direttamente nel cervello una serie di informazioni provenienti proprio dal computer centrale ormai distrutto. E aprì gli occhi. [1]
Elivelivolo S.H.I.E.L.D. In volo sopra New York City, New York, USA. Oggi.
Era quasi l’alba e me ne stavo a fissare il panorama dalla vetrata del mio alloggio, un’altra notte di sonno sprecata. Sarà stata già la seconda o terza di fila e se ne prospettavano altre. I miei bei sogni avrebbero dovuto attendere ancora un po’. Quello era il momento degli incubi.
Passai diverse ore a interrogare quei cani dell’HYDRA che avevamo catturato quella stessa notte e non ne cavai nulla di utile. Diavolo, quanti bravi ragazzi mi erano morti a fianco, avevano sacrificato la vita per il loro paese e io, nel giro di una settimana, avrei già dimenticato i loro nomi per far spazio a quelli di altri giovani che sarebbero morti dopo di loro in quella stupida guerra. Una guerra infinita contro un nemico senza nome e senza volto... Che discorsi da vecchio, caro Nick.
Ringraziai velocemente qualcuno che da lassù mi osservava con infinita pazienza per Valentina che si era occupata di avvisare al posto mio le famiglie dell’agente Casey e degli altri caduti di questa notte, poi mi rivestii, accesi il mio sigaro del “buongiorno” e ritornai verso la plancia di comando. Il sonno non sarebbe arrivato e decisi di portarmi avanti con il lavoro. Cercai di sopprimere il ricordo del volto tra i file che mi aveva mostrato Valentina abbaiando contro gli agenti dell’HYDRA e sotterrandomi sotto una montagna di merda e sensi di colpa per la morte dei miei ragazzi, ma dovevo essere onesto, almeno con me stesso: volevo dimenticare. Dimenticare quel volto da ragazzino con i capelli biondi e tutto il dolore che quei ricordi mi portavano.
Berlino. 1942.
Il ricordo di Berlino mi perseguitava. Io e gli Howling Commandos eravamo stati spediti nella capitale nazista sulle tracce di uno sporco traditore, Sir Percival Hawley, Lord Ha Ha. Catturammo il bastardo, poi lui si prese la dose di piombo che si meritava. Ma questa è un’altra storia.
Quello che la mia mente mi stava costringendo a rivivere, fotogramma dopo fotogramma, come un loop senza fine, erano gli spari che ci investivano e la voce di Dino Manelli che mi chiamava. “Nick! Nick, hanno beccato Junior. È messo male”. Poi il rumore di mitragliatori ed esplosioni coprì tutto il resto. Schiacciammo in breve tempo quei maledetti nazisti, come sempre del resto, ma quella volta non ci fu nulla da festeggiare.
Stringevo la mano debole di Junior nella mia mentre i soccorsi lo stavano trasportando in barella, ma la presa che le sue dita avevano sulle mie si faceva ogni istante più debole. Poi la vita lasciò il suo giovane corpo per sempre. [2]
Non versai una lacrima, mi sono sempre dovuto dimostrare un duro, anche in occasioni del genere. Ma dentro di me stavo per scoppiare. Avevo perso un compagno. Un amico.
Perché qualcuno stava mettendo mano al passato di Junior e non voleva lasciare in pace quel povero ragazzo che aveva sacrificato la vita per il nostro paese?
In una bettola malfamata nei bassifondi. New York City, New York, USA. Oggi.
Mentre Nick Fury attendeva l'alba tempestato di pensieri e ricordi sull'elivelivolo, diverse decine di metri sotto di lui un uomo restava seduto in disparte, nella penombra, seduto ad un tavolo in uno squallido locale della città. Indossava un grosso impermeabile che nascondeva molto di lui. E questo lo faceva sentire protetto. Il bicchiere di scotch scadente che aveva sul tavolo era ancora pieno, quel beverone infernale che il suo vecchio sergente offriva a lui e ai suoi compagni dopo le missioni più pericolose era decisamente meglio. Ma quell’uomo non era lì per lo scotch, voleva stare in un posto tranquillo dove studiare sul suo palmare dei documenti che aveva rubato negli ultimi giorni, senza che nessuno gli desse fastidio. Quel locale era ottimo, tutti gli avventori erano troppo ubriachi o troppo stupidi, o entrambe le cose, per interessarsi a lui, e, finché fosse rimasto in disparte, senza causare problemi, nessuno li avrebbe causati a lui. Quel posto era secondo solo ad una bella e confortevole casa. Ma quell’uomo non aveva una casa. E nemmeno un passato.
Mentre stava sfogliando i documenti proprio con l’intento di ricostruirsi quel passato, il fumo che aleggiava normalmente per il locale si fece decisamente più denso e fitto. Qualcosa stava andando storto. In pochi istanti diventò impossibile vedere solo a pochi centimetri di distanza e scoppiò il panico tra gli avventori. Qualcuno aveva gettato un fumogeno. Poi quel qualcuno fece irruzione nell’edificio, affiancato dai sui sette compagni. Erano uomini senza nome e senza volto, mercenari ben armati e addestrati, spediti lì, in quel buco dimenticato da Dio, solo per lui. Per catturarlo o forse ucciderlo.
Il grosso impermeabile non lo faceva sentire al sicuro semplicemente perché avvolgeva la maggior parte del suo corpo e lo teneva riparato dalle intemperie, ma perché sotto di esso poteva nascondere due grosse pistole semiautomatiche calibro 12 e svariati caricatori.
Il commando lo aveva puntato, visori calati sugli occhi e fucili ad impulsi spianati. Questo voleva dire che lo volevano vivo. L’uomo nascose velocemente il palmare, poi aprì l’impermeabile, impugnò saldamente le due armi che nascondeva sotto e saltò in piedi sul tavolo, il bicchiere di scotch oscillò appena, senza versare una goccia di contenuto. Poi fece fuoco.
Il mercenario che era ai piedi del suo tavolo venne investito in pieno volto dalla prima raffica: tre pallottole conficcate nel cranio e una morte istantanea. Poi un altro dei suoi compagni ricevette lo stesso trattamento, solo che stavolta i colpi furono sei, tra collo e torace. Nonostante le uniformi protettive in kevlar, l’uomo che aveva sparato quei colpi sapeva cosa stava facendo e sapeva dove colpire, e per questo mercenario la morte venne più lentamente e dolorosamente del suo compagno.
L’uomo con l’impermeabile balzò da un tavolo all’altro con un’agilità al limite dell’umano, mantenendo una cadenza di fuoco costante e una percentuale di colpi andati a segno che aveva dell’incredibile. I mercenari caddero uno dopo l’altro trascinando nella caduta tavoli, sedie, bottiglie e bicchieri.
Ne rimase solo uno in piedi e, quando si rese conto di essere l’unico sopravvissuto, sentì una canna fredda di pistola premergli nella piccola porzione di casco libera all’altezza del mento.
L’uomo con l’impermeabile sapeva già chi erano e cosa volevano da lui questi mercenari, ma glielo domandò comunque. L’offesa di risposta del soldato, sputata a denti stretti con un leggerissimo accento russo, gli confermò la sua certezza. Chiuse la breve discussione con un unico e violento colpo di pistola che attraverso il cervello del mercenario e si conficcò sul soffitto del locale, portandosi dietro una discreta quantità di materia cerebrale.
Il fumo si era ormai diradato e quelli che erano rimasti all’interno del locale si trovarono davanti otto cadaveri, ma l’uomo che li aveva uccisi era sparito.
Fuori dal locale nascose nuovamente le due pistole, alzò il bavero dell’impermeabile e sparì nel buio dei vicoli di New York City.
Magazzini di stoccaggio della EdilPlast. Zona nord di New York City, New York, USA.
Alla fine uno di quei dannati rettili, l’ultimo dei galoppini, aveva parlato. Lo torchiai così a lungo e gli scaricai addosso tutta la mia rabbia che alla fine non ebbe altra scelta che crollare, schiarirsi la gola e mettersi a cantare come un usignolo. Non ne sapeva un granché, probabilmente era uno nuovo della combriccola, ma sapeva quanto bastava per rimetterci in pista e capire che diavolo avessero in mente i suoi superiori. Il poppante non sapeva cosa trasportassero le navi verso il Sud America, ma ci raccontò che i container che lui e i suoi compagni dovevano scortare fino ai luoghi di imbarco partivano tutti da alcuni magazzini di una società chiamata EdilPlast, una delle tante aziende fittizie che quei bastardi utilizzavano per coprire i loro sporchi piani. L’uccellino in tutina verde e gialla non sapeva quando sarebbe partito il prossimo carico, glielo avrebbero comunicato solo poche ore prima, ma sapeva che sarebbe partito al massimo tra due giorni. Decisi che era meglio non perdere tempo, se le misteriose merci sarebbero dovute salpare nel giro di pochi giorni, probabilmente i container avrebbero già dovuto essere posizionati all’interno dei magazzini. L’informazione era troppo impregnata di terrore e angoscia per essere falsa.
Io e Dum Dum eravamo appostati da diverse ore su un anonimo furgone beige arrugginito nei pressi dei magazzini EdilPlast. Con noi c’era solo l’agente Lurkin, un tizio poco incline a centrare un bersaglio, ma imbattibile per quanto riguarda i computer e la tecnologia. Ci serviva qualcuno che tenesse monitorata la zona, restasse in contatto radio con il quartier generale e che ci supportasse dall’esterno non appena fossimo entrati in azione. Evitai di organizzare una grossa operazione, la zona non era favorevole e, se per caso i magazzini fossero stati vuoti, avremmo rischiato di mettere in allarme gli agenti dell’HYDRA. Saranno stati stupidi, ma non fino a quel punto.
Era ormai calato il buio e intorno al magazzino ancora nessun movimento, da poco meno di un’ora mi era salita una strana sensazione, come di essere osservato. Mi guardai intorno in continuazione, ma non vidi nessuno. Forse era solo la mia immaginazione, un brutto scherzo del cervello che reclamava qualche ora di sonno, o forse uno spione dannatamente in gamba.
- Ehi, Nick... Tutto ok? – Avevo lo sguardo fisso su un’ombra immobile che si era creata tra un lampione e un muro ad un isolato da noi, quando Dum Dum mi parlò e mi fece trasalire. – Sembri agitato, qualcosa non va? –
- No, Dum Dum, è solo che siamo fermi da ore e ho le chiappe indolenzite... – Mentii svogliatamente. Una di quelle menzogne che un caro amico come Dum Dum avrebbe riconosciuto al volo.
- È per i fascicoli che ti ha mostrato Valentina, vero? Perché ti crucci tanto? – Dum Dum mi fissò con quello sguardo che solo lui riesce a fare, quel vecchio bastardo sa come scalfire il mio cuore di pietra. - Ogni settimana ci capita qualcosa di sempre più strano, è raro vederti così turbato... –
- Non so... – Mi girai verso Lurkin, aveva le cuffie e si stava aggiornando con il quartier generale, non avrebbe sentito nulla. Non che ci fosse qualcosa di male, ma stavano per uscirmi dalla bocca parole che custodivo gelosamente nella parte più riservata del mio cuore e volevo condividerle solo con Dum Dum. – È per Junior, è da così tanto tempo che è morto che ormai era solo un ricordo lontano. Ho perso tanti amici e persone care durante questa mia lunga vita, ma Jonathan è stato uno dei primi a cui fossi davvero affezionato che è morto sul campo di battaglia, combattendo al mio fianco. È stata come un’iniziazione per me, la sua morte mi ha permesso di arrivare un po’ più preparato a quella del compagno che mi avrebbe lasciato dopo di lui, e così via. Fino a trasformarmi in una macchina di metallo impenetrabile e impassibile. Perlomeno all’apparenza. Quando Junior se n’è andato non ero ancora così come sono ora, non ero capace di sopprimere e sconfiggere il dolore così facilmente. All’epoca ero ancora umano. La vista del suo nome, del suo volto, del suo passato, tra i file che l’attentatore ha rubato, mi ha fatto rivivere sensazioni e momenti che ormai erano solo un vago ricordo. Sensazioni e momenti in cui mi sentivo davvero vivo. -
- Nick... - Le parole di Dum Dum si bloccarono nella sua gola, non seppi mai se era perché non sapeva cosa accidenti rispondere a quella sdolcinata e melensa storia o se fosse a causa dell'agente Lurkin che ci interruppe.
- La saracinesca laterale si sta aprendo! - Lurkin continuava a monitorare la situazione sui suoi computer mentre ci indicava il magazzino. - Due agenti dell'HYDRA si sono appostati ai lati dell'apertura, sta per uscire qualcosa da quel magazzino e l'HYDRA è dentro fino al collo. -
- Non aspettavo di meglio... - Guardai nuovamente con la coda dell'occhio l'ombra che stavo fissando fino a pochi istanti fa, ma ora sembrava come svanita. - Dobbiamo entrare in azione, Dum Dum. Lurkin, chiama una squadra d'assalto, mentre noi cerchiamo di fermare quei bastardi prima che riescano a lasciare la struttura. -
Consolato Generale Russo, New York City, New York, USA.
L'agente Kulikovskij era in piedi, dritto sull'attenti, al cospetto dell'uomo che più di chiunque altro lo terrorizzava. Il ricordo di suo padre alcolizzato che quando era solo un bambino lo picchiava a sangue con la cinghia dei pantaloni era quasi un sollievo rispetto all'atroce e snervate attesa a cui il colonnello generale Fyodr Shelkov lo stava sottoponendo.
Shelkov era seduto sulla maestosa sedia girevole del suo ufficio, dava le spalle all'agente Kulikovskij e fissava il panorama dall'immensa finestra. La sua figura era completamente coperta dal gigantesco schienale. L'agente fissava con puro terrore quella sedia, in attesa di un minimo movimento del generale, con il penetrante ticchettio della lancetta dei secondi dell'orologio a muro come sottofondo. Secondi che parevano non finire mai. Kulikovskij sapeva che doveva dare una spiegazione per ciò che era accaduto, e doveva essere convincente. Poi dalla sedia si levò uno sbuffo di fumo.
La sedia compì una rotazione di 180 gradi e il duro sguardo di Shelkov penetrò quello di Kulikovskij.
- Non voglio sapere nulla del perché la missione è andata storta... Cercheresti di farmi bere una stronzata in modo da giustificarti il più possibile e mi ritroverei a dover scegliere se spedirti in qualche sperduto campo di prigionia in balia di bestie assetate di sangue che vanno in estasi all'idea di poter avere tra le mani un agente del governo, oppure se essere magnanimo e ficcarti una pallottola in fronte e disfarmi del tuo corpo... - Una goccia di sudore gelido scese dalla tempia di Kulikovskij, la gola divenne arida e il cuore si fermò. - Ma sei fortunato, non ho tempo da perdere perciò ti concedo una seconda possibilità. Domattina mi recherò nei nostri laboratori qui negli Stati Uniti per supervisionare l'avanzamento del progetto, voglio trovare nella struttura il numero 0003 prima di pranzo. Non deve assolutamente finire nelle mani dello S.H.I.E.L.D., devi fermarlo prima che si metta in contatto con Nick Fury o la prossima volta che ci vedremo avrò parecchio tempo da perdere per trovare la soluzione più spiacevole per mettere fine alla tua carriera... e forse anche alla tua vita. -
Magazzini di stoccaggio della EdilPlast. Zord nord di New York City, New York, USA.
Io e Dum Dum eravamo riparati dietro a dei container sul lato sud del magazzino. Pistole in pugno, osservavamo i due agenti HYDRA di guardia fuori dal portone, uno di loro faceva gesti verso l'interno per indicare via libera al mezzo che stava facendo manovra. Lurkin, dal furgone, ci assicurava che tutto stesse filando liscio.
L'intesa tra me e Dum Dum era ormai tarata al millesimo di secondo, senza emettere alcun fiato ci gettammo fuori dal nascondiglio: io mirai a quello di destra, Dum Dum a quello di sinistra, le nostre pistole silenziate fecero il resto dello sporco lavoro. I due agenti caddero come burattini privi di vita.
Il mezzo aveva ormai il muso fuori dal portone e si fermò, l'agente alla guida lasciò il posto e si ritirò all'interno del magazzino. Con cautela ci fiondammo all'entrata, usando il mezzo come riparo. Si sentiva qualche voce dall'interno, probabilmente quei bastardi si stavano organizzando. Mi sporsi dallo stipite del portone e una raffica di mitragliatore mi passò a pochi centimetri dal viso. Ho rischiato così tante volte la vita che ormai aver letteralmente sfiorato la morte non mi faceva più né caldo né freddo. Questo dannato lavoro priva le persone di umanità.
Mentre la mia testa cercava una risposta per il significato della vita, vidi Dum Dum che sparava all'impazzata verso l'interno della struttura. Almeno uno di noi due faceva il suo lavoro.
Dopo la raffica di Dum Dum i colpi all'interno cessarono per qualche istante e ne approfittammo per entrare e metterci al riparo dietro a delle casse.
- Tutto bene, Nick? - Dum Dum si sporse dal riparo e fece secchi due agenti mentre mi parlava come se stesse conversando durante la preparazione di un caffè. - Non so se lo hai notato, ma ci sono almeno una dozzina di tizi incazzati neri con noi per aver rovinato loro la festa... Che ne dici se spari qualche colpo anche tu? -
- Taci, brontolone! - Aveva ragione. Mi diedi da fare anche io e ne ammazzai un paio che stavano correndo su un balconcino con l'intenzione di girarci attorno. - Vuoi per caso fare a gara a chi ne uccide di più? Meglio che non mi sfidi, amico. -
- Naaa... Lascia stare... - Un altro per Dum Dum.
- Hai paura di perdere, eh? - Andai in vantaggio abbattendo altri due che ci stavano bersagliando da dietro alcune casse, nell'angolo opposto del magazzino.
- Ti piacerebbe... - Dum Dum sparò una raffica di fuoco di copertura per consentirmi di spostarmi dietro un grosso container a qualche metro di distanza. - Non mi sembra onesto vincere contro un menomato... -
Sentii in lontananza la battuta di Dum Dum poi, dall'alto alle mie spalle, mi giunse un rumore metallico. Mi girai di scatto, uno degli agenti dell'HYDRA si era portato sopra di me, su uno dei balconcini metallici che correvano sospesi in tutto il magazzino. Che stupido che ero stato, fissavo il foro della punta del suo fucile che puntava dritto alla mia fronte. Supplicai il mio braccio di fare più in fretta dell'indice di quell'agente, ma, quando la mano che impugnava l'arma era solo a metà del tragitto, un colpo partì.
Nave cargo Oceanic 7883. Al largo della Repubblica Dominicana. Oceano Atlantico.
Il comandante del cargo osservava il monitor che occupava tutta la parte alla destra del timone nella sala comando. Digitò velocemente il suo codice operativo sulla tastiera e il logo dell'HYDRA apparve per qualche istante prima di lasciare il posto al volto del Barone Von Strucker.
- Barone, siamo quasi giunti a destinazione... - L'uomo fece una pausa e si grattò la folta barba brizzolata. - Ho appena ricevuto un aggiornamento da uno dei nostri magazzini a New York. Lo abbiamo perso. Temo che il prossimo carico subirà dei ritardi... -
- Non preoccupatevi, comandante... - Il Barone ebbe una reazione tranquilla, completamente differente da ciò che si aspettava il comandante. - Abbiamo già accumulato diverse scorte di materiale... Ora il secondo obiettivo ha la priorità. Abbiamo individuato l'ubicazione dei laboratori, ci stiamo preparando per attaccare... Comandante, voi portate la nave a destinazione poi attendete ulteriori istruzioni... Passo e chiudo. Hail Hydra! -
- Hail Hydra! - E mentre il comandante abbassava il pugno, sullo schermo ricomparve l'inquietante immagine del teschio con i sei tentacoli.
Magazzini di stoccaggio della EdilPlast. Zona nord di New York City, New York, USA.
Il colpo di fucile mi colpì alla spalla, trapassandola. Ero certo che quel proiettile era puntato dritto alla mia testa, poi mi accorsi che l'agente che stava giocando al tiro al bersaglio con me era steso a terra. Guardai alle sue spalle, nella direzione in cui avrebbe dovuto esserci il suo assassino, ma vidi solo un lucernario aperto e nient'altro. Poi vidi scattare su una delle passerelle sospese un'ombra con un lungo soprabito svolazzante che sparava con due pistole semiautomatiche verso gli altri agenti HYDRA, dando una mano a Dum Dum a far piazza pulita di quei bastardi verdi e gialli.
- Chi cazzo è quello, Nick? - Dum Dum si portò anche lui dietro al container su cui poggiavo la schiena e mi tenevo stretta la spalla. - Che cazzo, sei ferito! Aspetta... Lurkin mi ha appena detto che la squadra sarà qui tra meno di due minuti. 'Sta fermo qui, io vado a vedere chi è quel tizio... -
- Aspetta... - Allungai una mano, ma Dum Dum non mi ascoltò. Sapevo che quel tizio era lì per me, ne ero certo. Ero certo, come lo ero che quell'ombra che ci osservava mentre eravamo appostati fuori sul furgone doveva per forza appartenere a quel misterioso individuo.
Dum Dum sparì dietro l'angolo del container, sentii un tonfo sordo alle mie spalle. La prima volta avevo rischiato grosso, ma questa volta non mi avrebbero fregato di nuovo. Mi voltai di scatto, incurante della fitta di dolore che la mia spalla aveva spedito al cervello. Prima ancora che qualsiasi altra cosa all'interno del magazzino si fosse mossa, io avevo già la canna della pistola puntata verso la fronte della figura alle mie spalle.
Poi puntai anche i miei occhi sui suoi e persi completamente le forze, la stretta sulla pistola si fece debole e l'arma mi cadde dalle mani.
- Nick... - Mi fissò dritto negli occhi, teneva le pistole puntate verso il pavimento. - Ti ho cercato per tanto tempo... -
- … - Cercai di sputare qualche parola, ma non ci riuscii. Mi stavo preparando ad affrontare il mio passato. Ad affrontare qualcuno che stava rivangando nella mia storia, nella storia del mio vecchio compagno morto durante la guerra, ma non ero pronto per trovarmi di fronte proprio Jonathan Juniper.
[ CONTINUA SU NICK FURY – AGENTE DELLO S.H.I.E.L.D. 4 ]
NOTE:
[1] - Evento che accade parallelamente a quanto descritto in Soldiers #6 – Di prossima pubblicazione su MarvelIT.
[2] - Vedi Il Sergente Fury e i suoi Commandos #4 - Casa Editrice Le Maschere (un doveroso ringraziamento all'onniscienza di Carlo per la preziosissima indicazione)