MarvelIT presenta:
WORLD OF MARVELS #1
di Xel aka Joji
Ogni notte, quando mi risveglio da un incubo, lo stesso
incubo, da quindici anni costante, ogni notte dicevo, allungo una mano verso
l'altro lato del letto, per cercare, sotto il tessuto del lenzuolo, quella curva
morbida che riporterebbe la calma nel mio cuore.
Ed ogni notte, da quindici anni, la mia mano si trova a
ghermire l'aria, e mi ritrovo da solo, nel pigiama intinto di sudore, a lottare
con la mia angoscia.
Siamo alla fine degli anni cinquanta e vivo con il mio
modesto stipendio da professore in un monolocale nel Queens.
Conduco una vita semplice, mi alzo presto, mangio a orari
fissi, una colazione abbondante, un pranzo leggero e una cena esigua, tutto
sotto il regime della dieta fissatami dal mio dottore, per evitare che i reni
mi facciano qualche altro scherzo.
Per il resto, esco poco.
Non amo i luoghi affollati, per la confusione, il frastuono,
gli odori, ma sopratutto per gli sguardi che mi sento puntare addosso ogni
volta,sguardi che sottolineano il mio camminare trascinando la gamba destra,
sguardi che sanno di pietà e compassione.
Preferisco restare a casa, con un lp di musica classica
nell'orecchie, e occuparmi della
mia ritrovata passione: lo scrivere.
Prima di iniziare l'insegnamento avevo scritto due libri,
erano andati anche benino, ma poi
mi sono trovato privo di ogni ispirazione e ho lasciato perdere.
La noia e la solitudine mi hanno spinto sulla macchina da scrivere: ne sono usciti
due romanzetti, nulla di eccezionale che comunque mi hanno permesso di
togliermi qualche piccolo sfizio.
Non ho riletto i miei libri, li trovo poca roba, però
continuo a scrivere, pur sapendo che il risultato non mi gradirà, perché
scrivere non mi da tempo per pensare ad altro.
Perché ogni volta che ho la mente sgombra, penso al passato.
E fa male.
Gli anni quaranta si profilavano all'orizzonte, e io vivevo
la mia vita da neo professore trentenne, pieno di fiducia nel domani,
sopratutto quando nel domani vedevo il giorno del mio matrimonio.
Lei si chiamava Katia, era mezza francese e io l'adoravo.
Ci eravamo conosciuti ai tempi dell'università, lei era in
America per un gemellaggio e il nostro non fu un amore a prima vista, proprio
per niente.
Non assomigliava affatto a quei film d'amore che si vedevano
al cinema, anzi, fu proprio l'opposto, eravamo cosi diversi, cinque anni di
differenza di età si sentivano pesantemente...
Ma le
differenze ci rendevano più simili di quanto pensavamo.
Le nostre differenti posizioni ci facevano iniziare lunghe e
interessanti discussioni che duravano anche ore, senza tuttavia che arrivassimo
ad annoiarci.
E il tempo passato a parlare, aveva finito per unirci.
E avevamo deciso che avremmo sancito il nostro sentimento
l'anno successivo.
Vivevamo già insieme, in un appartamentino in affitto a
Manhattan, fregandocene dei commenti dei vicini, scandalizzati della nostra
convivenza.
Avevamo anche
trovato la casa dove ci saremmo trasferiti una volta sposi: un monolocale nel
Queens; piccolino, certo, ma sarebbe stato tutto nostro.
Katia era un ballerina.
Anzi, era la più brava ballerina del mondo, e non lo dico
certo solo perché l'amavo.
Quando ballava sembrava volare, si muoveva sulle punte come
uno spiritello privo di consistenza poteva scivolare tra i flutti dell'aria.
E quando la guardavo, seduto in prima fila al teatro, tenevo
gli occhi e la bocca spalancati, stupendomi di conoscere davvero una persona
così speciale.
Per me, lei era tutto.
E per lei, ballare era tutto.
Ho una sola foto di Katia.
In un periodo di depressione, le ho buttate tutte, salvo poi
pentirmene il giorno dopo e cadere in una depressione ancora più profonda, da
cui sono uscito qualche settimana
dopo, quando, in un negozio di oggetti usati, intravidi una rivista la cui copertina
mi era dannatamente familiare.
L'aprii e trovai un vecchio articolo, una recensione della
prima del lago dei cigni, il debutto New Yorkese di Katia.
E a corredare l'articolo, una grosso foto di Katia nei panni
di Odette.
L'unica foto che mi rimane di Katia è un ritaglio sgualcito
e unto, che peò io conservo come
un tesoro.
Vivevamo in un mondo, io e Katia, che stava cambiando.
Stavano comparendo quelli che molti chiamavamo Meraviglie,
creature che sembravano uscire da racconti di fantasia, capaci di volare, di
sollevare palazzi e quant'altro ancora.
Ma a me e Katia, non interessava.
Vivevamo la nostra vita.
Avevamo il nostro piccolo.
Finché una di queste meraviglie non distrusse tutto.
Si chiamava Sub Mariner ed viveva nel mare
Lo seppi dopo, leggendo sui giornali, come ho detto nè io nè
Katia ci eravamo mai molto interessati a quell'argomento.
Voleva punire noi uomini di terra, ma ancora adesso mi
sfugge il motivo.
Fatto sta che scatenò un maremoto contro Manhattan.
Io e Katia eravamo in casa.
La radio annunciò l'emergenza.
Tutto quello che mi venne in mente da fare, preso dal
panico, fu di gettarci sotto un tavolo.
Ma quando Katia si accorse che Bijou, la sua gattina, era
uscita sulla scala antincendio, si alzò di scatto, dicendo che la doveva andare
a prendere.
Adorava quella gatta: l'aveva portata con se della Francia.
Io le corsi dietro: era dannatamente veloce.
Neanche il tempo di raggiungere la finestra e lei era gir
salita lungo la scala antincendio aveva raggiunto il tetto, chiamando il nome
di Bijou.
Quando la raggiunsi, al trovai con Bijou stretta al petto e
lo sguardo fisso verso il cielo.
Stava fissando l'enorme massa d'acqua, che si stava
sollevando per sommergere la città, dominata da quella figura dalla pelle
lucida e dallo sguardo cose severo.
Era uno spettacolo indescrivibile, affascinante e
terrorrizante al tempo stesso.
A strapparmi dalla contemplazione di quel fenomeno , fu il
pensiero di Katya.
L'afferrai per la vita e corsi e ripararmi con lei contro un
muro.
Non ho ricordi chiari di quello che successe dopo.
Sentii tutto tremare, davanti ai miei occhi si fece buio e
persi i sensi.
A risvegliarmi, furono le voci dei pompieri.
Aprii gli occhi e il mio primo pensiero fu che si fosse gir
fatto notte.
Poi uno spiraglio di luce mi accecò, e i mattoni che ci
ricoprivano vennero sollevati uno ad uno.
Io e Katya fummo portati d'urgenza all'ospedale.
Entrambi avevamo avuto dei danni alla schiena e ci
aspettavano lunghi mesi di riabilitazione per tornare a camminare come prima.
Bijou era uscita incolume.
Guardo la foto di Katia, passando un dito sopra il suo
volto.
La posa, statica, non le rende giustiza.
Mi chiedo come sia possibile bloccare su una pelliccola una
figura rapida e sfuggente come la sua.
Mi chiedo perché l'immagine sulla foto non si animi e lei
non esca dalla cornice per completare la coreografia.
Lei non avrebbe mai voluto vivere immobile.
E infatti non lo fece.
I mesi di terapia significavano per Katia smettere di
danzare.
E non avrebbe neanche avuto la certezza che una volta finita
la terapia, avrebbe potuto tornare sul palco.
Andavamo insieme a fare la terapia, e vedevo che i suoi
occhi erano spenti, privi di vita.
Cercavo di incoraggiarla, di dirle di farsi forse, ma lei si
limitava a rispondermi con dei sorrisi malinconici.
Intanto, ci trasferimmo nella casa nel Queens, ma Bijou non era con noi.
Una settimana dopo l'incidente, la vicina di casa a cui
l'avevamo affidata la perse di vista e fine sotto un camion.
Nonostante la staticità, non posso smettere di guardare la
foto.
Per il suo volto.
Perché è cosi che voglio ricordarla.
Raggiante e sorridente.
Non la maschera pallida e triste che era divenuta gli ultimi
giorni, quando ormai si sentiva priva di scopo nella vita, non mangiava, non beveva, rimaneva a letto a sentire le opere
sulle cui musiche non avrebbe mai più
potuto ballare.
Quando, in poche parole, si era lasciata morire.
E questi quindici anni, io li ho passati fingendo di aver
superato il dolore.
Ma non è vero.
In realtà ho interiorizzato il dolore, l ho stretto dentro
cercando di soffocarlo.
Ed è diventato odio.
Odio per colui che mi ha portato via Katia, Sub Mariner.
Pur essendo cosciente che il mio odio era vano, che non
avrei mai avuto occasione di sfogarlo, nella mia testa, mi vendicavo, infinite
volte, per ciò che mi aveva rubato, per la mia felicità, nelle mie fantasie lo
uccidevo, in
modi sempre più dolorosi.
Di certo non sono le fantasie che la gente attribuirebbe ad
un calmo professore di liceo.
Ma sono solo fantasie, mi dicevo, rimarranno solo nella mia
testa.
Finché non lo l'ho incontrato.
E' successo qualche giorno fa.
Ero andato a Manhattan, a portare all'editore il manoscritto
del nuovo libro e mi sono tardato rimanendo seduto in un parco.
La mia attenzione è stata attirata da alcune grida di
insulto.
Mi sono voltato e ho visto una banda di giovani prendere a
calci un Barbone che dormiva su un
letto di foglie secche.
L'uomo si é alzato, ha afferrato la mano di uno dei ragazzi
e con un gesto secco glie l'ha spezzata.
La banda é scappata via gridando.
Ma la mia attenzione non era più su di loro, era sul
barbone, era sul suo sguardo che li puntava e che mi faceva tremare, perché mi
riportava indietro di quasi vent'anni.
Era lo stesso sguardo di Sub Mariner.
Non sapevo come fosse possibile, ma sapevo che era lui.
Ho una pistola.
Non amo le armi di fuoco, l'ho ereditata da mio padre, ma
non l'ho mai usata.
FIno a stanotte.
L'ho presa e caricata con cura.
Ora la metterò
in un sacchetto di carta e andrò fino a Manhattan.
Troverò Sub Mariner e gli sparerò.
Gli toglierò la vita come lui l'ha tolta a Katia.
Prima di uscire guardo la sua foto.
Lo ritrovo nello stesso parco dell'altro giorno.
Sta dormendo, stavolta su delle copie del Daily Bugle.
Non si sveglia quando mi avvicino.
Tiro fuori la pistola e la punto.
Continua a dormire.
Il suo volto è sereno.
Io invece piango silenziosamente.
Le lacrime mi rigano il volto.
Tutto il dolore sta esplodendo.
Cosa cambierà se lo uccido?
Katia non tornerà.
Semplicemente toglierò la vita a una persona che dorme per
terra nei parchi di Manhattan .
Forse mi illudo, ma la vita che conduce, non c gir una
punizione?
Forse sta in qualche modo espiando le colpe del suo passato.
Non lo so, sono ragionamenti troppo complicati, ma quando,
dopo lunghi minuti di pianto, sento di non avere più lacrime, so anche di
essere stato svuotato di ogni sentimento di rancore.
E' allora che si sveglia.
Apri gli occhi di scatto, senza emettere un suono, mi guarda
in silenzio, ma lo sguardo non c grave e ammonitorio, nè tanto meno spaventato,
è semplicemente indagatorio.
Guarda la pistola.
Io deglutisco, faccio un cenno con la testa e faccio sparire
l'arma.
Poi mi volto e sparisco nella notte.
Ho smesso di lottare contro il ricordo di Katia.
Ho smesso di fare le cose per non pensare a lei.
Adesso sto scrivendo un libro su di lei..
Non sarà un Bestseller, ma mi permetterà di far vivere
ancora il suo ricordo, mi permetterà di farla conoscere alle persone che non
hanno avuto modo di conoscerla.
Sarà il modo per buttare fuori tutto quello che ho sempre
tenuto dentro.
Sarà il modo per tornare a vivere.