MIT
presenta
EROE
Di Valerio
Pastore
Regno di Valdoria, Territori di Hyperborea
Ho un problema.
Sono vivo.
La notte si avvicina, il vento è una carezza gelida e dolorosa, i sottili cristalli di ghiaccio sono come altrettanti pugnali, entrano nelle mie ferite, impediscono ad esse di chiudersi, per ora.
Il sangue copre il mio corpo come una seconda pelle. I cadaveri dei miei nemici mi circondano, il villaggio che occupavano è ora taciturno come le lande desolate intorno a me. Solo il vento mi parla, mi chiama, come se fosse una cosa viva che pensa di potermi mettere paura.
Non ho paura. Né del vento, né del gelo, né di quanto ancora mi aspetta prima di arrivare al mio obiettivo, alla fine del mio viaggio, lì sulla cima della Montagna delle Naiadi.
Ho viaggiato a lungo, ho seminato morte, innumerevoli sono i miei nemici, e non uno di loro è ancora vivo.
Ce l’ho quasi fatta.
Estraggo la spada dal cadavere di un soldato. La carne congelata fa un rumore così simile a quello delle ossa che la lama ha da poco tranciato.
Ho fame, ma quella può aspettare. Mi nutro del dolore delle centinaia di ferite che questa ultima battaglia mi ha inflitto. Il dolore mi dà forza, me la dà da trecento anni.
Ho cominciato allora, ad essere un eroe.
Avevo dieci anni. Abitavo nelle prospere terre del sud, l’unico figlio di una madre e di un padre amorevoli.
Mio padre era un eroe, il più grande e valoroso dei guerrieri imperiali. Naturalmente, quale figlio non prova tale devozione nei confronti del genitore? Ma era anche vero che mio padre era sopravvissuto a dozzine di battaglie, ne portava con orgoglio ogni cicatrice, e si era guadagnato una fattoria per la vecchiaia. Non avrebbe fatto in tempo a diventare ricco, ma avrebbe dato a me le sue ricchezze, avrei potuto diventare un buon mercante, un padre di famiglia senza dovere versare sangue nel clangore delle spade e nel lezzo dei cadaveri.
Mio padre rideva di gusto quando gli parlavo del mio desiderio di seguire le sue orme di guerriero, ma sapevo che ammirava la mia puerile determinazione. Non mi incoraggiava ad entrare all’accademia militare, ma non si faceva beffe della mia virilità. Una sola cosa, mi chiedeva: aspettare il momento giusto, fare una scelta da uomo, non da ragazzo.
E io finii col fare la mia scelta –molto prima di quanto credessi. E non avrei mai voluto farla, ora che ripenso a quel giorno, a quello che seguì.
Quel giorno, mio padre lavorava nei campi, io lo aiutavo, mia madre era al mercato. Una giornata come le altre...fino a quando non udimmo come un tuono giungere dai monti. Un lungo, interminabile verso di una bestia fatta di dozzine di zoccoli, di bocche urlanti e di mantelli agitati dal vento.
I predoni calarono su di noi come i mostri che erano, incubi incarnati, latori di morte. Neppure l’Impero era riuscito a liberarsi di loro, nel corso dei secoli.
Mio padre ed io corremmo verso casa, proprio mentre le prime frecce si levavano nel cielo, dirette verso di noi. Non avevo mai visto così tante frecce, era come l’ala di un uccello, così fluente e mortale, irta di punte...
Facemmo in tempo a chiuderci in casa, e le frecce ne trafissero le pareti come gocce di pioggia mortale. Mio padre mi chiuse nel piccolo rifugio che aveva scavato anni addietro, sicuro che un giorno avrebbe dovuto usarlo. Ignorò le mie preghiere, le mie urla, la mia rabbia, e mi lasciò solo con una candela.
Lo sentii prendere la sua spada dalla parete. Sapevo che avrebbe versato il sangue dei suoi nemici, e mi sentii di nuovo più tranquillo. Ora ero sicuro che il mio eroe mi avrebbe salvato. Avrebbe trattenuto il nemico fino all’arrivo delle truppe imperiali. Il suo nome mi avrebbe aperto le porte dell’accademia. Sarei diventato come lui!
In un certo senso, avevo avuto ragione.
Li aveva trattenuti, ma solo quelle forze che avevano deviato per la nostra fattoria. I loro corpi bagnavano di sangue il nostro campo appena arato. Le piante sarebbero cresciute forti, ma senza un uomo a raccoglierne i frutti.
Ancora oggi non ho un ricordo preciso di quello che era rimasto di mio padre. So solo che lo riconobbi dall’arma che ancora stringeva a sé, come a volerci proteggere per sempre...
Aveva protetto me, ma non mia madre, o nessun altro. La città dove ero cresciuto, i miei amici, mia madre... I predoni avevano fatto un buon lavoro. Non ricordo il corpo di mio padre, ma ricordo il silenzio che ormai dominava la città. Persino gli uccelli si tenevano lontani...
Non trovai mai il corpo di mia madre. Forse era meglio così; ormai la vendetta aveva messo radici nel mio cuore. Se avessi visto cosa era successo a mia madre, ne ero sicuro, la disperazione sarebbe arrivata subito dopo.
Volevo ricordare la morte eroica di mio padre, l’ultimo atto di amore per la sua famiglia, la sua gente. Con quel ricordo, avrei dato un senso alla mia esistenza, avrei fatto ogni giorno quello che lui aveva fatto per una vita.
Essere un eroe.
I piedi mi portarono presso un’abitazione che tutti conoscevano bene. Tutti la evitavano, tutti dicevano che spiriti maligni vi dimoravano, ma tutti andavano lì per una cura, un po’ di fortuna, o per della felicità.
La vecchia non aveva un nome, era solo ‘la strega’. Non era più giovane, si diceva che avesse mille e più anni, che fosse vissuta ai tempi del leggendario Kull di Valusia, ma non era neppure una grotttesca figura cadente. Non era sensuale, era...altera. Parlava con una voce bassa, calma ma forte come una scudisciata. Quando la strega parlava, la ascoltavi.
Lei ed io eravamo gli unici sopravvissuti. Posso immaginare che lei se la fosse cavata –se i predoni erano stati furbi, non avevano neppure bussato alla sua porta.
E come me, lei fremeva di rabbia per quella strage insensata –almeno così mi disse, perché il suo volto non lasciava trasparire nulla, i suoi abiti di fine tessuto azzurro erano intonsi e i suoi capelli come la notte lunghi e ordinati. Sembrava pronta per andare a una festa.
Ma a me importava una sola cosa, e le dissi che avrei fatto qualunque cosa, per ottenerla.
La strega mi ascoltò senza battere ciglio, e alla fine mi fece bere una pozione. Tutto qui, niente sangue, niente sacrifici, niente denaro, niente entità oscure. Tutto quello che da quel momento avrei dovuto fare, mi disse, era crescere fino a diventare un guerriero e combattere per la giustizia. La pozione mi avrebbe reso immortale. Nessuna ferita mi avrebbe ucciso. Dovevo solo fortificare il mio corpo, o sarei stato solo un immortale mingherlino; ricordo che mi fece ridere molto, mi fece sentire meglio.
Avrei dovuto approfittarne e ucciderla lì e subito. Ma le ero grato, ero sulla strada per diventare un eroe, il più grande di tutti, il protagonista di migliaia di ballate in tutti i regni da nord a sud. Conan il Cimmero avrebbe dovuto fare spazio al mio nome!
Da ridere, vero?
Forse non potete capirlo, non se prima non avete combattuto contro mostri di ogni genere, dopo avere sterminato negromanti, dopo avere vendicato l’onore di una città eliminando uno ad uno quei predoni che avevano cambiato la mia vita per sempre...
Perché che senso ha essere un eroe, se alla fine quelli che salvi muoiono lo stesso? Se le città che hai salvato cadono in rovina e sono sostituite da altre? Se i sovrani riconoscenti diventano polvere e al loro posto succedono degli stolti che non saprebbero cavalcare un asino?!
Potevo sopportare che, nonostante fossi immortale, non fossi immune al dolore fisico. Ma a che mi serviva soffrire, se alla fine il prezzo delle mie vittorie era un pugno di polvere? I bardi che cantavano le mie imprese si tramandavano sempre più errori, e alla fine nessuno sapeva chi fossi, la mia stessa gloria era sfumata nel mito! Conan era morto, ma tutti lo ricordavano!
Conan era più di un mito, era parte stessa della storia. E io? Ero solo uno sconosciuto errante a caccia di avventure, perché non potevo fare altro. L’unica famiglia che avessi mai messo su si era dissolta al tocco della Morte; scoprii che l’amore, glorificato da poeti e cantori, è una cosa effimera, una scintilla che si spegne insieme alla vita di coloro che lo alimentano.
La morte della mia prima ed unica moglie mi aveva spinto ad ubriacarmi in una taverna come mai avevo fatto, e lì avevo cominciato a dire troppe cose sulle mie origini.
E la gente mi aveva ascoltato.
Ed aveva avuto paura.
Di me. Di colui che era stato il loro eroe, che si era guadagnato il diritto a fare parte della loro comunità.
Loro erano spaventati. Io ero ubriaco, e furioso.
Ancora oggi, non so se fui io il primo a tirare fuori la spada, ma so che quando ritrovai lucidità, ero pieno di ferite, come adesso, e il fetore della morte era ovunque, e i clienti della taverna, insieme al personale, erano tutti morti.
E sapete una cosa? Non provai alcuna pietà per loro. Erano morti, al di là di quella terribile, interminabile tortura chiamata ‘vita’. Sarebbero morti comunque, io avevo risparmiato loro il declino della vecchiaia!
In quel momento, seppi cosa dovevo fare, quale fosse la mia vera missione!
Morire.
Dovevo solo trovare qualcuno che fosse capace di uccidermi.
Da quel giorno, ho vagato di villaggio in villaggio, di città in città. Eserciti, negromanti, persino una o due divinità minori –nessuno di loro mi ha battuto, nessuno può. Ma un po’ alla volta, tutti mi hanno dato un indizio, una traccia da aggiungere alle altre.
Fino a qui.
Anche questa volta, hanno provato a fermarmi. Invano. E naturalmente, nessuno di loro sapeva di me.
Per questo ho ucciso ogni singola persona di questo villaggio ai confini del mondo, giusto perché, almeno alla fine, mi ricordassero. Come con tutti i posti da me visitati.
Morirò, ma nessuno deve dimenticarmi! Sono diventato un eroe per voi, maledetti ingrati, non mi volterete le spalle, mai!
L’odore dei cadaveri è ambrosia. L’eco delle grida di uomini, donne e bambini una musica sublime. Anche a loro ho regalato una dipartita veloce, li ho consegnati fra le amorevoli braccia della morte.
E ora che le mie ferite sono di nuovo guarite, il mio sguardo vola verso le cime frastagliate.
E’ lì che abita la strega maledetta che mi diede l’immortalità.
E’ lì che mi dirigo, trascinando la mia spada nella neve insanguinata.
Sarà meglio che lei si ricordi di me...