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Luca Tomassini

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Il ritorno all'horror di Grant Morrison, la recensione di Nameless - Senzanome

Un asteroide proveniente dallo spazio profondo viaggia a gran velocità in rotta di collisione verso la Terra. Sulla sua superficie sono incise delle antiche rune, che annunciano la fine del mondo secondo la lingua dei maya. Chiunque le legga, a partire dagli astronomi degli osservatori, viene posseduto da un’implacabile follia omicida, che si propaga come un virus: massacri di ogni sorta cominciano ad essere compiuti in ogni parte del globo. Un individuo misterioso, un esperto di occulto autoproclamatosi “Senza Nome” per non essere colpito dagli effetti della magia nera, viene reclutato dal milionario Paul Darius per far parte di un composito team di astronauti al quale viene affidata la missione di recarsi sull’asteroide per scoprire il mistero delle rune e distruggere eventualmente il meteorite. Ma l’intera missione potrebbe essere soltanto un’allucinazione dovuta ad una seduta spiritica finita male. O forse è la seduta spiritica un’allucinazione di Senza Nome, alla deriva nello spazio dopo il fallimento della missione e la morte del resto dell’equipaggio? La risposta potrebbe trovarsi nelle trame della Dama Velata, donna misteriosa il cui unico scopo sembra quello di gettare Senza Nome nell’abisso della follia.

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Nameless, il nuovo lavoro di Grant Morrison per Image Comics portato in Italia da Saldapress, segna il ritorno dello scrittore scozzese all’horror puro, attraversato da quelle influenze esoteriche che lo hanno sempre affascinato e che hanno rappresentato spesso il sottotesto delle sue opere. Affiancato da Chris Burnham, già suo complice in Batman Inc., conclusione della sua straordinaria e pluriennale gestione delle serie del Cavaliere Oscuro, Morrison crea un’opera che parla direttamente al subconscio del lettore, infettandolo con mostruosità e carneficine che sebbene facciano pensare al ciclo di Cthulhu di H.P. Lovecraft, sono ispirate in realtà, come ammette Morrison nella post-fazione del volume, alla mitologia maya e polinesiana, alla filosofia nichilista e pessimista del XXI secolo, e all’opera delle scuole di magia tifoniana successive ad Alesteir Crowley, da sempre nume tutelare dello sceneggiatore di The Invisibles.

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È lo stesso Morrison, nella già citata post-fazione, a fornire entusiasticamente le linee guida a chi volesse approfondire questi argomenti: le indagini sull’albero della vita e i tunnel di Set di Linda Falorio e Kenneth Grant, cabala, tarocchi, il linguaggio enochiano o “lingua degli angeli”, portato alla luce nel ‘500 dall’astrologo reale John Dee dopo aver sperimentato alcuni viaggi visionari. E poi ancora Xibalba, l’oltretomba governato dagli spiriti della malattia e della morte secondo la mitologia maya, il mito del Tonal e del Nagual derivato da Carlos Castaneda. In cima a tutto, la rivincita del femminino sacro, l’immagine cabalistica di Binah, archetipo tanto della madre che allatta quanto della madre distruttrice, usata da Morrison per incitare la popolazione femminile a distruggere l’archetipo della cultura maschile dominante ed innescare una salvifica rivoluzione. Argomenti complessi che meritano un approfondimento in altre sedi. Quello che ci interessa sottolineare qui è la struttura della narrazione scelta da Morrison, l’assenza di consequenzialità e il crollo del tempo lineare tipica dei sogni o, in questo caso, degli incubi.

Il collegamento più spontaneo è quello con il surrealismo, altra influenza dello scrittore fin dai tempi di Doom Patrol, e con film sperimentali appartenenti a quella corrente come gli allucinanti Un Chien Andalou e L’Age d’Or, nati dalla collaborazione tra Bunuel e Dalì; il tutto declinato in salsa decisamente horror. La storia sembra un incrocio tra Alien, L’esorcista e Seven, diretto però da David Lynch: un mix da fare accapponare la pelle. Se qualcuno si prendesse la briga di tradurre Nameless su pellicola, ne uscirebbe fuori il film horror definitivo. C’è il sospetto di una certo compiacimento da parte dell’autore ma gli si può facilmente perdonare: Morrison è l’autentica rockstar del fumetto contemporaneo, e il fascino delle sue opere deriva principalmente dal fatto di essere eccessive e provocatorie. Nameless è il flusso di una coscienza sconvolta e infettata da immagini ancestrali ed inquietanti, un viaggio nell’inferno del subconscio a cui ci si approccia prima con titubanza, poi con compiaciuto abbandono.

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Un viaggio che non sarebbe stato ugualmente affascinante senza le illustrazioni di Chris Burnham, a cui è affidato il sostegno grafico all’immaginazione orrorifica dello scrittore scozzese. Il tratto del disegnatore di Officer Down ricorda molto quello di Frank Quitely, altro collaboratore storico dello sceneggiatore di Glasgow, ma tende più al grottesco: straordinariamente a suo agio tra interiora e bulbi oculari strappati, Burnham è bravissimo a suggerire l’orrore senza mostrarlo in primo piano, nascondendolo in campi lunghi agli occhi del lettore distratto, salvo poi farlo balzare sulla sedia facendo esplodere davanti ai suoi occhi immagini di crudeltà e supplizio. Anche grazie al suo apporto Nameless è una scheggia di ansia e terrore che si conficca nel cervello del lettore senza abbandonarlo, e che anzi necessita di più letture per decifrare ulteriori livelli di significato che potrebbero sfuggire ad una prima fruizione.

Ricordiamo che il fumetto è disponibile in edizione brossurata (pp. 168 euro 15.90) e cartonata (pp. 192, euro 24.90).

La storia della Image Comics, parte 2: Declino e rinascita

  • Pubblicato in Focus

Dopo avervi narrato la nascita e l'ascesa della Image Comics, ecco la seconda parte del nostro approfondimento sulla casa editrice americana che quest'anno celebra i suoi 25 anni di vita. Ricordiamo che Napoli Comicon, di cui siamo media partner, dedicherà una mostra di tavole originali alla Image.

Image Comics: la storia
Parte 2: Declino e rinascita

Come vaticinato in precedenza da molti analisti, a metà degli anni ’90 scoppia la bolla speculativa che investe e ridimensiona fortemente l’industria del fumetto americano. Il boom del quinquennio precedente risultava essere solamente l’effetto di un mercato drogato da speculatori senza scrupoli, senza un reale allargamento del bacino di utenza. Sul finire degli anni ’80 era iniziata la pratica, in voga soprattutto in casa Marvel, di stampare copie alternative dello stesso albo, diversificate solo da una copertina alternativa, le cosiddette variant: queste potevano avere un’illustrazione differente, oppure un disegno con un rilievo gold o platinum. Spesso gli albi venivano imbustati con delle trading cards allegate, e il lettore doveva acquistarne più copie se voleva completarne la collezione. Si trattava di strategie commerciali che avevano poco a che fare con la qualità degli albi e che attirarono l’attenzione di affaristi e profittatori altrimenti per nulla interessati al settore. Vengono quindi ordinate molte copie di uno stesso albo, sperando che col tempo l’edizione speciale di uno di questi possa aumentare di valore, speculando sul prezzo. Il boom del mercato dei comics non risulta corrispondere ad un reale aumento del numero degli acquirenti o tanto meno dei lettori. L’effetto domino si scatena quando interi scatoloni di albi restano invendute nei magazzini delle fumetterie, che cominciano a chiudere una dopo l’altra. Ne scaturirà, dopo anni di vacche grasse, un’inesorabile contrazione del mercato che lascerà solo macerie dietro di sé, portando alcuni colossi come la Marvel a dover dichiarare bancarotta.

La Image, pur non avendo mai speculato troppo su cover variant e affini, risente comunque della crisi del settore, aggiungendo ai problemi oggettivi dell’industria contraddizioni mai risolte all’interno dell’azienda. L’editore deve fare i conti con un progressivo disamoramento, salvo qualche eccezione, dei soci fondatori dalle serie che hanno creato. Il caso più emblematico è l’annunciato cross-over con la Valiant Comics, conosciuto come Deathmate, di cui vengono ordinate milioni di copie in prevendita dai distributori, certi di andare sul sicuro vista la mania di cui i fumetti Image sono oggetto. La Valiant consegna i propri capitoli mentre la Image buca clamorosamente le consegne, compromettendo l’evento e recando un danno enorme ai rivenditori che avevano prenotato gli albi. Quando la serie viene completata sono passati molti mesi e l’interesse intorno al cross-over è svanito, lasciando migliaia di albi invenduti sugli scaffali delle solite, incolpevoli fumetterie. La difficoltà nel rispettare le consegne sarà una piaga che da quel momento in poi affliggerà costantemente le serie targate Image. Molti dei soci fondatori, d’altronde, ormai pensano ad altro.

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Todd McFarlane ha lasciato i disegni di Spawn nelle mani del pur capace Greg Capullo per lanciarsi nel settore del merchandising e delle action figure tratte dalle sue creazioni, oltre a frequentare Hollywood nella speranza di cedere vantaggiosamente i diritti di sfruttamento di Spawn a qualche studio cinematografico. Stesse aspirazioni coltivano Marc Silvestri e Rob Liefeld: quest’ultimo in particolare è una fucina di idee, tanto da fondare un ulteriore etichetta, Maximum Press, per la realizzazione di progetti personali. Gli altri soci adombrano il sospetto che Liefeld abbia sottratto del denaro dalle casse della Image per finanziare la Maximum Press, facendogli prima causa e poi allontanandolo dalla casa editrice che aveva contribuito a fondare. Improvvisamente, una crepa attraversa quel granitico blocco di talenti che aveva saputo sfidare e sconfiggere il colosso Marvel. Una prima avvisaglia si era già avuta quando Jim Lee e Liefeld, senza avvertire i soci, avevano accettato la proposta della Marvel di correre al capezzale di quattro moribonde serie classiche: è il 1996 e la Casa delle Idee annuncia il ritorno a casa di dei due autori per realizzare Fantastic Four, Iron Man, Avengers e Captain America con il collaudato stile Image. L’evento passa alla storia come il progetto Heroes Reborn, la Rinascita degli Eroi, e ottiene una visibilità e un successo clamoroso, che le quattro serie classiche, in epoca di predominio delle testate mutanti, non conoscevano dai tempi di Stan Lee e Jack Kirby. Ma McFarlane e gli altri soci avrebbero presto incassato un colpo ancora peggiore. Nel 1999 Jim Lee annuncia di aver venduto la sua etichetta, la Wildstorm Productions, alla DC Comics, sottraendo alla Image uno degli studi che la componevano e uscendo di fatto dalla casa editrice. Alla base c’è una valutazione personale di Lee, che vede profilarsi all’orizzonte un periodo duro per gli editori indipendenti e ritiene che i suoi personaggi troveranno una miglior collocazione all’interno del DC Universe; l’artista verrà coinvolto inoltre in progetti di altissimo profilo e di grande successo per la casa editrice, come Batman: Hush del 2002, e inizierà una scalata ai vertici dell’azienda in cui oggi riveste il ruolo di Editore Responsabile. La fuoriuscita della Wildstorm e di Jim Lee è una mazzata quasi fatale per la Image, che in un colpo solo perde la sua vera superstar e il suo disegnatore di punta, un parco personaggi di tutto rispetto che era stato valorizzato negli anni da scrittori come Warren Ellis e Alan Moore, e, come se non bastasse, i nuovi progetti di questi ultimi che erano di imminente uscita proprio per la Wildstorm: la linea America’s Best Comics, interamente curata da Moore e le  nuove e attesissime serie di Ellis, Planetary e The Authority. Entrambe, come la sotto-etichetta di Moore, avrebbero visto la luce presso la nuova Wildstorm inglobata nella DC.

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Alla fine degli anni’90 la Image è una realtà editoriale in declino: ha rappresentato meglio di qualsiasi editore lo spirito del decennio che si sta chiudendo ma fatica a rinnovarsi. L’idea di un universo supereroistico con cui sfidare il duopolio Marvel/DC è ormai fallita, soprattutto dopo l’abbandono di Lee; inoltre l’epoca degli anti-eroi violenti e arrabbiati è finita. Kingdom Come di Mark Waid e Alex Ross ha suonato la carica per il ritorno in pompa magna degli eroi classici: in casa DC, Grant Morrison scrive il rilancio della JLA, immaginandone i membri come dei di un pantheon; parallelamente, alla Marvel, Kurt Busiek e George Pérez, la più “classica” delle coppie immaginabili, riportano gli Avengers alla loro perduta grandezza. Tutto ad un tratto gli antieroi Image, così cool fino a pochi anni prima, sono fuori moda come il Sega Mega Drive. Spawn vivacchierà ancora per qualche anno grazie alle matite di Capullo prima di uscire per sempre da quella top ten degli albi più venduti che lo aveva ospitato fin dalla sua nascita; perderanno appeal anche gli eroi misticheggianti della Top Cow di Marc Silvestri come Witchblade e The Darkness, che avevano conosciuto una fugace stagione di successo grazie ai disegni, tra gli altri, del prematuramente scomparso Micheal Turner.
Lee se n’era andato, come Whilce Portacio che abbandonerà per qualche anno il mondo del fumetto in seguito ad un grave lutto famigliare. Liefeld era stato cacciato. Silvestri ed Erik Larsen torneranno occasionalmente alla Marvel per qualche progetto speciale. Il solo McFarlane resterà sempre coerente con se stesso e non lavorerà mai più con nessuna delle due major.
Ma la Image aveva ancora qualcosa da dire. Bisognava solamente chiudere con i supereroi e cercare nuove strade.

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All’inizio del nuovo millennio si fa strada nell’industria del fumetto un nuovo modo di scrivere, definito decompresso, che adotta i ritmi dilatati e dialogati di serie televisive come NYPD Blue. Maggior artefice del successo di questa nuova tendenza è Brian Micheal Bendis, che dopo essersi fatto un nome con fumetti noir indipendenti in bianco e nero come Jinx, Torso e Goldfish, viene scelto da McFarlane per i testi di una serie spin-off di Spawn, incentrata sulle indagini dei detective Sam & Twitch. La consacrazione dello scrittore di Portland avviene però con Powers, serie a metà tra poliziesco e fumetto di supereroi che impone un nuovo corso in casa Image. I dialoghi serrati di Bendis e lo stile squadrato e cartoonesco del disegnatore, Micheal Avon Oeming, si distaccano notevolmente da quanto prodotto dalla casa editrice fino a quel momento. Sotto la grande “I” avevano già fatto capolino prodotti dalle ambizioni più autoriali, basti pensare a The Maxx di Sam Kieth, Astro City del duo Busiek - Anderson, Rising Stars e Midnight Nation di J. Michael Straczynski, ma è Powers a rappresentare meglio di ogni altra serie la nuova Image degli anni 2000. Bendis farà talmente parlare di sé che verrà cooptato da Joe Quesada e Bill Jemas per la Marvel del nuovo corso post-bancarotta, realizzando Ultimate Spider-Man, l’aggiornamento delle origini del tessiragnatele per gli anni 2000, cambiando per sempre il linguaggio del fumetto di supereroi con una run leggendaria di Daredevil e dando il via alla rinascita degli Avengers con un ciclo decennale che è causa diretta del ritorno del gruppo sotto i riflettori e delle iniziative cinematografiche ad esso collegate.

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L’esplosione di Bendis è solo uno dei meriti della Image del nuovo millennio, che per la prima volta decide di mettere in secondo piano l’aspetto grafico per investire pesantemente sulla sceneggiatura e su autori che possano portare nuove idee e una ventata di freschezza. La svolta decisiva avviene con la nomina di Jim Valentino ad Editore Responsabile. Valentino, con un passato nell’editoria indipendente già prima della sua esperienza in Marvel, decide di allargare lo sguardo oltre l’orizzonte del fumetto di supereroi e di mettersi alla ricerca di progetti alternativi e di nuovi talenti. Oltre a Bendis, la Image pubblica in quegli anni i primi lavori di un giovane predestinato, Robert Kirkman, come Tech-Jacket, Brit e soprattutto Invincible. Ma è con The Walking Dead del 2003, su disegni di Tony Moore prima e Charlie Adlard poi, che avviene la consacrazione dell’autore. Si tratta di una serie post-apocalittica, in un mondo devastato dove pochi superstiti devono farsi strada tra orde di zombi e la cupidigia degli esseri umani, oltretutto in bianco e nero, su cui nessuno sembra voler scommettere. Grazie al passaparola e all’abilità di Kirkman nel tenere il lettore incollato alla sedia e a tornare per il numero successivo, la testata diventa la più venduta della Image e il simbolo della rinascita della casa editrice, ispirando inoltre il serial televisivo omonimo trasmesso in USA dall’emittente AMC.
L’operato come Editore di Valentino mira a rafforzare quindi Image Central, cioè il gruppo di testate non collegate agli studios dei soci fondatori. Nel 2004 gli succede Erik Larsen, che continua la sua opera di scouting: sua è la scoperta di Jonathan Hickman, autore presso Image di The Nightly News, Pax Romana ed East of West, nonché futuro sceneggiatore di Fantastic Four e Avengers per la Marvel. Larsen riesce anche a fare da mediatore tra Liefeld e gli altri soci, che ne accettano il ritorno anche se non più come partner associato ma come semplice artista. I personaggi dell’autore possono comunque fare ritorno a casa, sotto l’ombrello Image.

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L’Image dei giorni nostri prende definitivamente corpo con l’arrivo, come editor, di Eric Stephenson e con la nomina, come partner associato, di Robert Kirkman e del suo studio Skybound. L’operato di Stephenson guarda al superamento del fumetto di supereroi, ormai presenti in minima parte nel catalogo Image, al varo di progetti di qualità e più vicini alla sensibilità indie e, cosa più importante, alla ricerca costante di nuovi talenti ma anche di nomi più consolidati, che possono essere “soffiati” a Marvel e DC offrendogli la proprietà delle proprie opere, controllo creativo e altre condizioni vantaggiose che le due major non potrebbero, né vorrebbero, proporre. Non deve stupire quindi se un numero sempre più consistente di sceneggiatori abbandonano le testate dei due colossi per portare i propri progetti personali all’ombra della grande “I”: è il caso di Brian K. Vaughan e Fiona Staples con Saga, space-opera amatissima da pubblico e critica; di Matt Fraction e Chip Zdarsky con Sex Criminals, divertente attacco al comune senso del pudore tipico del puritanesimo americano condito da crime – story; di  Jeff Lemire e Dustin Nguyen con Descender, rivisitazione fantascientifica della favola di Pinocchio e di Jason Aaron e Jason Latour con Southern Bastards, straordinaria saga di eredità paterne e bassezze umane arricchita da tocchi alla True Detective. E la lista potrebbe proseguire a lungo.

Anche se con esiti diversi dalle premesse iniziali, il sogno di una zona franca, un’isola felice dove gli autori possano lavorare liberi da qualsiasi vincolo si è infine realizzato. Il sogno dei soci fondatori rimasti, Marc Silvestri, Jim Valentino, Erik Larsen e naturalmente Todd McFarlane, che resta saldamente in sella come Presidente.
La vicenda di un consorzio di studios facenti capo a sette artisti straordinari, dediti al culto dell’immagine e di un’estetica superficiale che si trasforma nel faro del fumetto indipendente e di qualità è uno di quei paradossi e di quelle parabole che possono accadere solo nel magico mondo dei comics americani.
Citando Todd McFarlane all’indomani dell’abbandono di Jim Lee:
“Whilce ha lasciato. Rob ha lasciato. Jim è ritornato alla Piantagione (la DC Comics, ndr). Ma la Image Comics continuerà per sempre. Abbiamo costruito un'entità che va oltre il singolo individuo”.

La storia della Image Comics, parte 1: Nascita e ascesa

  • Pubblicato in Focus

In occasione dei 25 anni della Image Comics, Napoli Comicon dedicherà una mostra alla nota casa editrice indipendente. Comicus, fra i media partner della manifestazione partenopea, realizzerà una serie di articoli a tema. Partiamo oggi con un approfondimento sulla nascita della Image e sui suoi primi anni di vita.

Image Comics: la storia
Parte 1: Nascita e ascesa

Agli inizi degli anni ’90 il mercato del fumetto americano registra le vendite più alte della sua storia. A fare da traino a questo trend è il successo, presso la Marvel Comics, di alcune serie realizzate da giovani artisti dall’approccio grafico rivoluzionario, come Todd McFarlane, Jim Lee e Rob Liefeld. Accomunati dalla capacità di far letteralmente esplodere su pagina i propri disegni, grazie ad un tratto potente e adrenalinico, pur con le loro specifiche peculiarità, i tre illustratori sono i maggiori responsabili del rinnovamento grafico che investe il settore a partire dalla fine degli anni ’80, quando vengono messi sotto contratto dalla Marvel per lavorare su alcune delle serie più prestigiose dell’editore. Su Amazing Spider-Man McFarlane rivoluziona il look dell’Uomo Ragno, tornando alla versione di Steve Ditko ma aggiornandola per i tempi moderni, ritraendolo in pose impossibili che lo avvicinano ad un aracnide, allargando a dismisura le lenti della sua maschera e introducendo la ragnatela spaghetti, che da quel momento in poi sarà una caratteristica del personaggio. Liefeld e Lee operano invece nel settore “mutante” della casa editrice, quello di maggior successo: il primo trasforma New Mutants da una serie incentrata sulla crescita e sulla formazione di un gruppo di giovani mutanti a una saga su un gruppo d’assalto paramilitare, introducendo nuovi personaggi come Cable e Deadpool, che diventano presto beniamini del pubblico; il secondo forma su Uncanny X-Men un binomio perfetto con Chris Claremont, realizzando eroi ed eroine di una bellezza impossibile e illustrando meravigliosamente il saluto finale dello sceneggiatore alla serie che ha scritto per 16 anni.

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Per la prima volta dai tempi di Jack Kirby, un artista diventa popolare e oggetto di culto presso i fan quanto i personaggi che disegna, ma con una differenza sostanziale: le vendite delle serie realizzate dai tre autori sono stellari. La Marvel capisce di avere in casa la proverbiale gallina dalle uova d’oro e annuncia l’uscita, per l’estate del 1991, di tre nuove serie: Spider-Man, curata per i testi e disegni da Todd McFarlane; X-Men, che si fregerà dei disegni di Jim Lee; X-Force, nata dalla ceneri di New Mutants e realizzata da Rob Liefeld. Ciascuno dei tre numeri d’esordio segna un record di vendite, nell’ordine di milioni di copie: il podio viene conquistato da X-Men 1 con otto milioni di copie, a tutt’oggi l’albo più venduto della storia del fumetto americano. Lee, Liefeld e McFarlane hanno talento come artisti, ma se la cavano discretamente anche come uomini d’affari: sanno bene quanto il loro apporto sia determinante al successo delle serie da loro realizzate, e vorrebbero vedere il loro lavoro adeguatamente ricompensato. Il perno del loro malcontento ruota soprattutto intorno alla questione delle royalties, cioè il riconoscimento di un compenso in denaro per lo sfruttamento di personaggi di propria creazione. Inoltre c’è un problema creativo: McFarlane e Liefeld, in particolare, vogliono il controllo delle testate da loro curate, senza la mediazione di alcun editor. La Marvel non è d’accordo con la posizione dei tre autori ritenendoli semplici impiegati, per quanto talentuosi, e individuando il motivo del successo delle serie da loro curate nel fascino dei personaggi di proprietà della compagnia. Ci troviamo in un momento storico in cui la Marvel è in causa addirittura con Jack Kirby, co-creatore dei principali personaggi dell’azienda, a cui non vengono riconosciuti i diritti d’autore. Una riunione drammatica nella sede della casa editrice tra McFarlane, Lee, Liefeld e Terry Stewart, il presidente, sancisce l’insanabile rottura tra la Casa delle Idee e i tre artisti, che abbandonano l’azienda sbattendo la porta. Ma Liefeld e soci avevano un piano di riserva.

L’artista, che già da tempo aspirava a pubblicare personaggi di sua creazione, aveva ricevuto un’offerta dalla Malibu Graphics, piccolo editore di fumetti in bianco e nero, per pubblicare fumetti originali di cui l’autore avrebbe mantenuto controllo creativo e diritti d’autore. Liefeld aveva avuto modo di confrontarsi su questa proposta con McFarlane, il cui malcontento era pari al suo, e aveva chiesto consiglio a Jim Valentino, in quel momento al lavoro in Marvel su Guardians of the Galaxy ma con un passato nell’editoria indipendente. L’insoddisfazione e il timore di non cavalcare quel grosso business che era diventata l’industria del fumetto nei primi anni ’90, frutto di una bolla speculativa che in pochi anni avrebbe mostrato le sue conseguenze disastrose per il settore, attanagliava anche altre star della Marvel, come Erik Larsen, successore di McFarlane su Amazing, Marc Silvestri, che aveva lasciato il posto di disegnatore degli X-Men a Lee per essere dirottato su Wolverine, e Whilce Portacio, amico e collaboratore di Lee su X-Men, nonché disegnatore di X-Factor. Liefeld e McFarlane, dopo aver persuaso definitivamente la superstar Jim Lee, seppero intercettare le inquietudini degli altri artisti, convincendoli a seguirli. Il dado era tratto, e in un giorno di metà febbraio del 1992, con un comunicato, la Malibù Graphics annunciò la nascita di un’etichetta indipendente, un marchio autonomo che sarebbe stato creato e gestito dai sette fuoriusciti della Marvel, i sette membri fondatori: la Image Comics era nata.
La casa editrice si costituisce come un consorzio di sei studios facenti capo ognuno ad un socio fondatore:

-   Todd McFarlane Productions di Todd McFarlane
-   Extreme Studios di Rob Liefeld
-   Wildstorm Productions di Jim Lee, al cui interno trova spazio anche Whilce Portacio
-   Top Cow Productions di Marc Silvestri
-   Highbrow Entertainment di Erik Larsen
-   ShadowLine di Jim Valentino.

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La scommessa iniziale è quella di creare un universo supereroistico in grado di rivaleggiare con quelli di Marvel e DC, permettendo nello stesso tempo agli artisti di mantenere i diritti d’autore sui personaggi, il controllo creativo delle serie, oltre a percepire un maggior guadagno grazie al pieno sfruttamento delle royalties. E nella maggior parte dei casi, la scommessa viene vinta.
La prima testata a debuttare sotto la grande “I”, il logo della Image, è Youngblood di Rob Liefeld, gruppo di eroi che lavorano per il governo Usa, il cui numero 1 diventa l’albo indipendente più venduto della storia del fumetto americano fino al quel momento. Segue a ruota Spawn di Todd McFarlane, bizzarra ed efficace commistione tra fumetto si supereroi e horror, che batte il record di Liefeld. Si viaggia nell’ordine di milioni di copie, e il duopolio Marvel/DC comincia a vacillare. Altro grande successo è WildC.A.T.S. di Jim Lee, il cui numero 1 si piazza al secondo posto degli albi più venduti nel 1992, dietro solo al celebre numero contenente la Morte di Superman. Fatta eccezione per la creatura di McFarlane, frutto di un’ispirazione genuina, i supergruppi di Lee e Liefeld sono evidentemente modellati sugli X-Men e su gli altri gruppi mutanti della Marvel, il marchio più popolare e remunerativo della storia della casa editrice. La formula è ben nota: si mettono insieme un mentore, un carismatico leader sul campo, un solitario misterioso e affascinante, varie bellezze dal fisico perfetto e un forzuto inarrestabile. Se Liefeld condisce il tutto con improbabili e provocatorie distorsioni anatomiche, Lee può contare su uno stile che coniuga potenza steroidea ma anche grazia e delicatezza nel realizzare forme perfette che blandiscono la pupilla del lettore. Una formula collaudata a cui non si sottraggono Marc Silvestri, con la sua Cyberforce e, in una declinazione sci-fi e paramilitare, Whilce Portacio con i suoi Wetworks. Buon successo raccolgono anche Savage Dragon di Erik Larsen, unica serie tra quelle iniziali tutt’ora in corsa insieme a Spawn, e Shadowhawk di Jim Valentino, bizzarro caso di vigilante urbano afflitto dal morbo dell’AIDS.

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Il messaggio della Image degli inizi è chiaro fin dalla scelta del nome: potere agli artisti e all’immagine, che deve essere preponderante sui testi. È il trionfo dell’estetica, per quanto ipertrofica: salvo poche eccezioni, i primi albi Image sono un tripudio di vigilanti muscolosi, ipertiroidei e dediti all’azione, perennemente arrabbiati, con denti digrignati e occhi a fessura, pronti ad aggredire qualche nemico. Se latitano sceneggiature degne di questo nome, maniacale è invece la cura della confezione: fa il suo ingresso la carta patinata e si investe nella colorazione al computer, grazie a pionieri come Steve Oliff e Brian Haberlin. I fumetti Image sono bellissimi da guardare, ma imbarazzanti nel momento in cui se ne affronta la lettura. È l’esito finale, in terra americana, di quel revisionismo del supereroe il cui processo è ormai giunto a compimento senza aver più nulla da dire, se non specchiarsi superficialmente in pose tanto aggressive quanto ridicole, per quanto ben accette da milioni di adolescenti che vi vedono riflesse le proprie inquietudini ed insicurezze.

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Consci di questi limiti e delle loro modeste capacità alla macchina da scrivere, McFarlane e soci correranno ben presto al riparo chiamando al proprio capezzale i migliori scrittori su piazza: ecco arrivare Alan Moore, Frank Miller, Neil Gaiman, Dave Sim e Grant Morrison sulle pagine di Spawn, ancora Moore su Supreme di Liefeld, dove trasformerà un misero emulo di Superman in un omaggio commosso alla Silver Age dei comics, e su WildC.A.T.S., dove realizza il ciclo definitivo della squadra di Lee in coppia col mirabile Travis Charest. Intanto sulle pagine di Stormwatch, serie di secondo piano della Wildstorm di Jim Lee, arriva l’innovatore inglese Warren Ellis, che la trasforma in una saga di supereroi governativi e cospirazioni che lascerà una traccia tale da influenzare anche le serie mainstream di Marvel e DC, tanto da poter essere annoverata tra i cicli di storie più influenti del decennio.
La Image chiude la prima metà degli anni ’90 consolidandosi in una quota di mercato di tutto rispetto, e diventando a tutti gli effetti il terzo polo del settore. Dì lì a poco, però, la crisi del settore, problemi interni e l'abbandono di alcuni fondatori creeranno una notevole crepa nelle fondamenta Image Comics, che la porteranno a una fase di declino. Ma la rinascita è vicina.  Di questo, però, ve ne parleremo la prossima settimana in un nuovo articolo.

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Nel 1982 un giovane sceneggiatore inglese di nome Alan Moore aveva concepito, sulle pagine della rivista Warrior, un revival di Marvelman, vecchio personaggio della Silver Age inglese modellato sull’americano Captain Marvel della Fawcett Comics, poi passato nel catalogo della DC col nome di Shazam. Inconsapevolmente o meno, lo scrittore di Northampton aveva dato il via al cosiddetto periodo revisionista del fumetto supereroistico, che culminerà anni dopo ne Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller e in Watchmen dello stesso Moore. La storia del fumetto americano prende una piega decisiva, che ne segna i futuri sviluppi, quando Len Wein, autore classico della Marvel e DC degli anni ’70 e allora editor-in chief di quest’ultima, chiama Moore al capezzale di un personaggio di sua creazione, Swamp Thing, la cui serie era sull’orlo della cancellazione. Fin dalla sua prima storia, Lezione di anatomia, che è tanto un titolo quanto una dichiarazione di intenti, Moore infonde alla serie della Cosa della Palude una qualità letteraria e un lirismo fino ad allora sconosciuti al fumetto americano mainstream, fatta eccezione per alcuni precursori come Don McGregor. Ma soprattutto, colpisce la visione critica nei confronti dell’american way of life fornita da un autore europeo. È esattamente quello che chiede una nuova generazione di lettori, cresciuta abbastanza da contestare, oltre ai genitori, anche le figure istituzionali ed ingessate del comicdom americano.
Il successo di critica e pubblico dei lavori di Moore è tale che i vertici della DC organizzano un tour in terra d’Albione alla ricerca di nuovi talenti, in grado di tirare a lustro qualche altro vecchio personaggio del proprio catalogo. La spedizione, capitanata dal presidente Jehnette Kahn, l’editor Karen Berger, futura responsabile della creazione della linea Vertigo, e il veterano Dick Giordano raccoglierà frutti prelibati nelle persone di giovani autori che di li a pochi anni diventeranno nomi di riferimento del settore come Neil Gaiman, Peter Milligan, Jamie Delano e, ovviamente, Grant Morrison.

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È il 1987 e Morrison è l’autore di fumetti iconoclasti e provocatori come Zenith, il giovane supereroe creato per la rivista 2000 A.D., che preferisce le pagine dei rotocalchi o un’apparizione a Top of the Pops piuttosto che combattere per il bene comune. L’approccio del giovane Morrison al fumetto, contraddistinto da venature punk e anti-tatcheriane, è paragonabile al grido di Sid Vicious che fa consapevolmente scempio della classica My Way di Frank Sinatra. Esattamente il tipo di sensibilità che porterà con se nella sua prima avventura americana, Animal Man. La narrazione che Morrison stesso fa di quel viaggio in treno che lo porta dalla natia e per molti aspetti provinciale Glasgow fino a Londra per incontrare la dirigenza DC è entrato nella mitologia dei “dietro le quinte” della storia del fumetto, e lo immaginiamo simile al tragitto che Jimmy Somerville dei Bronski Beat compie nel videoclip della coeva Smalltown Boy mentre si allontana, per sempre, da una ristretta dimensione di provincia. Durante il viaggio Morrison pensa su quale personaggio del catalogo DC incentrare una proposta, e dai suoi ricordi di bambino avido lettore di fumetti americani emerge il personaggio di Animal Man, apparso per la prima volta sull’antologica Adventure Comics, character dalle caratteristiche al limite del ridicolo di cui Morrison può essere moderatamente certo di essere uno dei pochi a serbarne memoria. Il funzionamento dei poteri del buon Buddy Baker, infatti, è molto semplice: assorbire le capacità di qualsiasi animale si trovi nelle vicinanze. Il lancio della nuova serie di Animal Man è quindi a rischio zero, salvo che per la reputazione di Morrison e la possibilità futura di ritagliarsi un posto al sole nell’industria del fumetto americano: in caso di insuccesso, l’alter-ego di Buddy Baker sarebbe semplicemente tornato nel dimenticatoio da cui l’autore scozzese l’aveva prelevato. Per fortuna di Morrison, della DC e dei lettori, nulla di tutto questo accadde.

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Alan Moore aveva dimostrato, nel suo ciclo di Swamp Thing, che il fumetto mainstream poteva essere un contenitore di tematiche adulte e attuali, come quelle a sfondo ecologiche e ambientaliste. Morrison segue la scia del Bardo di Northampton, scegliendo un personaggio così naif da prestarsi ad essere l’avatar dell’impegno civile del Morrison di quel momento. Emergono nettamente, nella prima sequenza di storie ospitate dal volume con cui RW Lion ripropone al pubblico questo fondamentale ciclo, le posizioni dell’autore contro la vivisezione, in un momento in cui Morrison sta per diventare vegetariano, scelta che viene fatta propria anche dall’eroe protagonista, identificazione tra scrittore e il suo personaggio di cui si contano pochi precedenti. Meat is Murder, cantano in quegli anni gli Smiths e il loro leader Morrissey, ispirazione fondamentale nella carriera di Morrison che sarà evidente anche in prove successive. Ritroviamo molte delle esperienze della vita di Morrison nell’esistenza quotidiana di Buddy Baker, outsider che vive in una villetta di periferia con moglie e figli, lontano dalle metropoli in cui agiscono gli altri eroi del DC Universe, tra vicini annoiati perennemente collocati su una sdraio a bordo piscina o alle prese con qualche barbecue. Come Moore prima, l’autore scozzese comincia presto la decostruzione non solo del fumetto supereroistico mainstream, ma dello stesso stile di vita americano, basato su una violenza innata che si annida anche un luoghi apparentemente insospettabili e tranquilli. È il caso del rischiato stupro della moglie di Buddy, colpevole solo di essersi avventurata nel parco vicino alla sua abitazione, da parte di un gruppo di violenti cacciatori, situazione salvata solamente dall’intervento del vicino.

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Se le prime quattro storie costituiscono un corpus a parte, in cui Morrison, attraverso didascalie poetiche ed ispirate, tenta di imitare il lirismo tipico di Moore e si prodiga a favore della difesa dei diritti degli animali, nel quinto episodio, Il Vangelo del Coyote, l’autore opera una svolta verso un surrealismo meta-narrativo che sarà il tratto caratteristico di tutta la sua produzione successiva. Trovate come quella del coyote dei cartoni animati giunto per caso nella nostra dimensione che si immola cristologicamente per la salvezza del mondo possono esistere solamente nel mondo morrisoniano: d’altronde parliamo dell’autore che, nella successiva Doom Patrol, farà scontrare il gruppo protagonista contro una “confraternita” di cultori del dadaismo. Già in questo volume troviamo tracce del Morrison che sarà, lisergico e citazionista, colto e surrealista. Dove trovare, peraltro, un alieno di Thanagar (il pianeta da cui proviene Hawkman) che minaccia la terra con una bomba modellata sulla teoria dei frattali, citando inoltre l'esoterista Alesteir Crowley, altro "nume tutelare" dell'autore? Il tutto inserito nel contesto del DC Universe del 1987. Siamo in era pre-Vertigo e le testate DC rivolte ad un pubblico maturo vivono ancora nello stesso universo di Batman, Superman e soci. Ecco quindi apparire Martian Manhunter, che recluta Animal Man per la Justice League, il villain Mirror Master e lo stesso Uomo d’Acciaio in un rapido cameo. Uno scenario composito nel quale Buddy Baker sembra aggirarsi spaesato e attraversato da un persistente senso di inadeguatezza.

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Se leggendario è il peso avuto da queste storie nella storia del fumetto americano,  lo è altrettanto l’imperizia grafica del suo disegnatore, Chas Truog. Narra la leggenda che Truog sia stato scelto proprio per le sue scarse capacità, in modo che i suoi non eccelsi disegni non distogliessero il lettore dai testi di Morrison. E il caso divenne paradigmatico di come a volte pessimi disegni non solo non pregiudicano un ottimo script, anzi lo esaltano. In alcune episodi, per fortuna, Truog viene sostituito dal buon Tom Grummett, veterano della DC conosciuto per il suo lavoro su Teen Titans e Superman.
Riletto a 30 anni dalla sua uscita, Animal Man non ha perso nulla di quella carica iconoclasta e detonante che investì il fumetto americano, sconvolgendolo per sempre.

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