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Luca Tomassini

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La recensione di Spider-Man: Homecoming

  • Pubblicato in Screen

“Cazzo! Hanno messo un costume anche a lui? Non ci posso credere” esclamava Riggan Thomson, alter-ego di Micheal Keaton nel superbo Birdman di Alejandro Gonzalez – Inarritu, nel prendere atto che attori del calibro di Robert Downey Jr. e Jeremy Renner sono da tempo tra i volti più rappresentativi dei cinecomic. L’origine della fama dello stesso Keaton si deve, d’altronde, alla sua interpretazione del Cavaliere Oscuro di Gotham City in quel Batman di Tim Burton, datato 1989, che può essere considerato il primo, grande successo di massa dell’era moderna per un adattamento cinematografico di un personaggio dei fumetti. Se la grande prova dell’attore di Beetlejuice nel film di Inarritu era stata letta da tutti come il tentativo di prendere le distanze dal genere che gli aveva dato il successo, la sua presenza in Spider-Man: Homecoming, terza versione cinematografica delle avventure del Tessiragnatele di casa Marvel in 15 anni, ha destato un certo scalpore fin dal suo annuncio. D’altra parte, la consapevolezza di poter contare sulle qualità di un veterano come Keaton per la parte del villain, donava certezze ad un progetto sulla cui bontà sono state nutrite fin dall’inizio dubbi e perplessità, visto che esce a soli tre anni di distanza dall’ultimo capitolo del fallimentare dittico a firma Marc Webb – Andrew Garfield.

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Le vicende che hanno portato alla nascita di questa terza iterazione della saga di Peter Parker, dopo quelle di Sam Raimi e di Webb, sono note: la necessità da parte della Sony di continuare a girare film con protagonista l’Uomo Ragno per non perderne i diritti di sfruttamento cinematografico e la presa d’atto, dopo l’esito non soddisfacente degli ultimi due film, di dover chiedere l’aiuto di chi il Ragno lo conosce bene. Da qui l’accordo, siglato dalla dirigente Amy Pascal con Kevin Feige per la cessione dell’aspetto creativo ai suoi Marvel Studios, mentre la produzione e la distribuzione sarebbero rimasti saldamente in mano alla Sony. In sostanza, a Feige e soci spettava la scelta del “tono” della pellicola, degli interpreti, nonché del regista, un condottiero capace di condurre la nave in porto. Ora che arriva finalmente sugli schermi, com’è questo Spider-Man: Homecoming? Ci sono cose che ci hanno convinto ed altre meno.

Diciamo subito che a livello stilistico si tratta di un tipico “prodotto Marvel Studios”, rispettoso del materiale di provenienza ma capace di non prendersi troppo sul serio. Il marchio del Marvel Cinematic Universe è ben impresso dalla solita, carismatica presenza di Robert Downey Jr./Tony Stark, qui nel ruolo del mentore del giovane Peter Parker. La storia, inoltre, prende le mosse dalle vicende del primo film degli Avengers, datato ormai 2012, di cui è una diretta conseguenza. L’approccio scelto dagli sceneggiatori John Francis Daley e Jonathan M. Goldstein è quello del teen movie alla John Hughes, il regista specializzato in commedie adolescenziali peraltro evocato in una scena del film, quando Spider-Man, durante un inseguimento, ruzzola nel giardino di una villetta dove viene proiettato Una pazza giornata di vacanza, film dell’ 86 con Matthew Broderick diretto proprio da Hughes. E come in un film del regista di Breakfast Club, il setting ideale è quello del liceo: è qui che ritroviamo Peter Parker, ragazzo del Queens, che vive le sue giornate tra la scuola, dove non è certamente tra in ragazzi più popolari, e la vita con sua Zia May, con la quale divide un appartamento in uno squallido condominio di periferia. Quello che la zia non sa è che Peter è segretamente Spider-Man, l’amichevole Tessiragnatele di quartiere che ha già vissuto un’ avventura con gli Avengers in Captain America: Civil War e che dovrà tornare in azione quando la città verrà minacciata dai loschi traffici di Adrian Toomes, contrabbandiere di tecnologia aliena lasciata incustodita durante la battaglia di New York del film del 2012 e di cui si è servito per trasformarsi nel temibile Avvoltoio.

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Se ci sono cose, in Homecoming, che finiranno per conquistare anche gli spettatori più scettici, una di queste è sicuramente la prova di Tom Holland, viso acqua e sapone e modi da bravo ragazzo. Il giovane attore riesce a trovare una propria via per portare sullo schermo un personaggio iconico e amato come Peter Parker, evitando di esasperarne sia una goffaggine che nell’interpretazione di Tobey Maguire era spesso scivolata nel grottesco, sia di indugiare nell’autocompiacimento emo tipico della versione di Andrew Garfield. Questo Parker è un ragazzo di periferia come tanti, che prova un incontenibile sense of wonder di fronte alle meraviglie di cui è costellata la sua nuova vita: un eroe springsteeniano della classe operaia, come lo definisce Tony Stark con una battuta fulminante e azzeccata che ha fatto scoppiare l'applauso in sala. E vederlo volteggiare al ritmo di Blitzkrieg Bop dei Ramones è francamente irresistibile. Michael Keaton dona spessore ad ogni scena che lo vede protagonista, dando vita ad un villain carismatico e rapace, come l’animale a cui si ispira. L’Avvoltoio, nelle storie classiche di Stan Lee e Steve Ditko, era il secondo criminale affrontato dall’Uomo Ragno e la scelta del regista Jon Watts e dei suoi collaboratori non avrebbe potuto essere filologicamente più corretta. Un applauso al dipartimento degli effetti speciali e alla costume designer Louise Frogley per la resa del personaggio, un riuscitissimo mix tra la versione classica, richiamata dalla pelliccia intorno al collo, e un moderno look da aviatore che coglie l’essenza predatoria del villain. Spettacolare, d’altronde, è anche la resa del costume del Tessiragnatele, mai così vicino alla sua controparte cartacea, in particolare alla versione classica di John Romita Sr., di cui riprende alcune espressioni iconiche grazie all’idea, semplice ma geniale, di far muovere le lenti della maschera dell’eroe come se facessero parte dell’obiettivo di una macchina fotografica.

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Buona prova anche quella del cast di supporto, a partire dai giovani compagni di scuola di Peter Parker tra tutti spicca Jacob Batalon nella parte di Ned Leeds, simpatica spalla di Peter, che nulla ha però a che fare col classico personaggio di Lee e Ditko ma sembra essere derivato piuttosto dal Kong creato da Brian Micheal Bendis e Mark Bagley in Ultimate Spider-Man, il remake delle avventure del Ragno aggiornato agli anni 2000 firmato dalla coppia di autori ormai 17 anni fa. Lo spirito dell'opera di Bendis e Bagley aleggia fortemente sulla pellicola, di cui sembra essere stata l'ispirazione principale. La classe di Peter è formata da un melting pot razziale del tutto coerente con la composizione sociale di un quartiere popolare come il Queens. Tra gli altri, citiamo Tony Revolori, già visto in Grand Budapest Hotel, nella parte di Flash Thompson, e Zendaya nella parte di Michelle, protagonista di un rumor finora non confermato che continuerà, c'è da scommetterci, a suscitare grandi polemiche tra i lettori storici del fumetto. Piacevole ma ininfluente ai fini della trama la presenza di Marisa Tomei nella parte di Zia May, personaggio storico opportunamente ringiovanito vista la giovane età di Peter nella pellicola.

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La sceneggiatura di Daley e Goldstein, a cui ha contribuito, tra gli altri, lo stesso Jon Watts, scivola via gradevolmente tra momenti spettacolari e divertenti, spingendo decisamente sul pedale della commedia. Per volontà dei produttori le origini di Spider-Man non vengono mostrate nuovamente: se la scelta è da comprendere, perché una terza versione delle origini in 15 anni sarebbe stata irricevibile, finisce comunque per togliere spessore alla pellicola. Ricordiamo che la storia di Peter Parker è una storia di potere e responsabilità, di errori e di conseguenze: tutti nodi che dovranno essere affrontati nei prossimi capitoli della serie, per non allontanarsi troppo dallo spirito del personaggio. La trama, non dovendo soffermarsi su elementi già visti in precedenza, è funzionale al collocamento del personaggio nell'affresco del Marvel Cinematic Universe. in questo senso, la nuova pellicola ragnesca si differenzia nettamente da quelle che l'hanno preceduta diventando a tutti gli effetti un nuovo capitolo del grande serial cinematografico Marvel.

Nonostante i dubbi derivanti dal suo scarso curriculum, che conteneva solamente i poco visti Clown e Cop Car, la prova di Jon Watts può considerarsi più che buona. L’insidia, per ogni regista che presta la propria opera ad un film targato Marvel, è sempre quella di venire assorbito da un processo produttivo più grande di lui che uccide sul nascere ogni vocazione autoriale, vedi il caso Edgar Wright/Ant-Man, finendo per essere risucchiati nel flusso narrativo di un universo cinematografico che rischia di livellare ogni talento. Ci sono almeno due momenti di grande cinema nel film, che segnalano il talento di Watts. Il primo è la scena del salvataggio al monumento di George Washington. Il secondo, che rivela la provenienza del regista dal thriller, è quello in cui Keaton e Holland sono in macchina insieme, in borghese, e il villain è attraversato dal dubbio circa la vera identità del ragazzo. Il volto dell’uomo è illuminato dalla luce rossa del semaforo, che si fa verde quando Toomes non ha più dubbi. Una piccola sequenza d’autore estratta da un blockbuster estivo che fa ben capire che, pur contenti del “ritorno a casa” del Ragno, il rinnovato franchise di Spider-Man potrà avere un futuro solo se lasciato libero di trovare la propria voce, per quanto all’interno del Marvel Cinematic Universe.

Nato dalla collaborazione di Sony Pictures e Marvel Studios, Spider-Man: Homecoming sarà diretto da Jon Watts ed è previsto per il 6 luglio 2017. Alla sceneggiatura troviamo John Francis Daley e Jonathan M. Goldstein (Vacation) mentre il protagonista della pellicola sarà Tom Holland. Nel cast anche Marisa Tomei (Zia May), Zendaya (Michelle), Laura Harrier (Liz Allen), Tony Revolori (Flash Thompson), Jacob Batalon (Ned Leeds), Robert Downey Jr. (Tony Stark/Iron Man), Michael Keaton (Avvoltoio), Kenneth Choi, Michael Barbieri, Donald Glover, Logan Marshall-Green, Martin Starr, Isabella Amara, Jorge Lendeborg Jr., Hannibal Buress, Abraham Attah, Angourie Rice, Martha Kelly e J.J. Totah. Il film sarà inserito nel MCU.

Un rilancio riuscito a metà, la recensione di Karnak - Il punto debole in ogni cosa

A distanza di 50 anni dalla loro creazione per mano di Stan Lee e Jack Kirby sulle pagine di Fantastic Four, Gli Inumani hanno conosciuto nell’ultimo lustro una popolarità mai vissuta precedentemente. Citati a più riprese nella serie tv Agents of S.H.I.E.L.D., a breve avranno l’onore di un serial ad essi interamente dedicato, ad accompagnare la grande quantità di iniziative editoriali che la Marvel dedica ormai stabilmente alla razza segreta più famosa del proprio universo. Il tutto rientra in una precisa strategia della Casa delle Idee, che non potendo contare sui diritti di sfruttamento cinematografico legati agli X-Men, da tempo stabilmente in mano alla Fox, ha progressivamente depotenziato le serie mutanti a favore degli Inumani, cercando di farne i nuovi outsider di successo dell’editore. Ma la trasformazione di Freccia Nera, Medusa e soci da tradizionali comprimari a protagonisti della ribalta non ha dato i frutti sperati, sia dal punto di vista commerciale che da quello qualitativo.

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Nella pletora di progetti dedicati agli Inumani, il più atteso era certamente la serie dedicata al loro membro più misterioso, Karnak, realizzata dalla penna prestigiosa di Warren Ellis per le matite di Gerardo Zaffino. Diventata in corsa una miniserie di sei numeri a causa dei ritardi dovuti a divergenze creative culminate con l’abbandono dell’illustratore, sostituito da Roland Boschi, arriva finalmente in Italia grazie a Panini Comics.

Come nelle sue più recenti prove su commissione, vedi la straordinaria run di sei numeri su Moon Knight, Ellis si avvicina a un personaggio dalla lunga vita editoriale sottoponendolo ad un processo di revisione che, pur non tradendone la rappresentazione tradizionale, mira ad individuare e ad estrarre quell’idea specifica che lo caratterizza facendone il perno su cui costruire l’intera serie. Karnak, guerriero appartenente alla famiglia reale degli Inumani, rappresentava in tal senso un candidato ideale al revisionismo ellisiano, in virtù di una psicologia complessa ma mai esplorata appieno nei suoi oltre 50 anni di vita. Inumano atipico, per volere paterno non è stato sottoposto al tradizionale rituale della Terrigenesi, procedimento grazie al quale i giovani della sua razza acquisiscono capacità fuori dall’ordinario grazie all’esposizione alle nebbie terrigene; uomo normale tra esseri speciali, ha colmato il gap con i suoi concittadini con lo studio, la meditazione e l’allenamento, diventando il primo tra i guerrieri di Attilan, capace di individuare il punto debole in ogni cosa e frantumarla. Toltosi la vita durante gli eventi di Inhumanity, è stato capace anche di individuare una crepa nell’oltretomba e tornare tra i vivi.

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Ellis alza ulteriormente la posta trasformando Karnak nel Magister della Torre della Saggezza, rettore di una scuola di filosofia il cui indirizzo è un incrocio tra nichilismo, realismo speculativo e decostruzionismo alla Jacques Derrida. Le capacità particolari del personaggio vengono quindi spostate sul piano astratto: il guerriero inumano riesce ad individuare le falle e le contraddizioni nella struttura del pensiero e nelle convinzioni degli avversari per poi abbatterle. È proprio nella sua torre che lo troviamo ad inizio volume, quando viene distolto dal suo ritiro dall’agente Coulson dello S.H.I.E.L.D.. La spia chiede il suo aiuto per ritrovare un ragazzo rapito da una setta interna al gruppo terroristico dell’A.I.M. e restituirlo ai suoi genitori. Si tratta però di un giovane fuori dal comune, che ha acquisito poteri speciali in seguito al rilascio della bomba terrigena da parte di Freccia Nera durante Infinity. Ma Karnak scoprirà presto che il ragazzo potrebbe non essere una vittima e che le cose sono molto diverse da quelle che sembrano.

Ellis ci accompagna attraverso l’affascinante indagine psicologica di un personaggio che reinventa completamente, trasformando il vecchio comprimario di Fantastic Four in un asceta del pensiero a metà strada tra un monaco ed un santone. Un guru dalla forte connotazione filosofica le cui convinzioni verranno messe a dura prova dagli eventi. Lo sceneggiatore inglese ci ricorda costantemente che c’è un punto debole in ogni cosa, anche in un guerriero che si è dotato di un sistema di pensiero apparentemente inattaccabile: e se lo avesse fatto per nascondere il suo senso di inadeguatezza e la sua immaturità emotiva? La risposta arriverà in un finale che lascia interdetti per un cinismo inusuale in un prodotto mainstream.

Potremmo obiettare che le questioni filosofiche poste dall’autore attraverso la bocca di Karnak non vengono adeguatamente sviluppate e si perdono in un finale non del tutto all’altezza, ma necessario per smascherare la natura ipocrita del protagonista. Ritroviamo invece tutti gli elementi caratteristici della scrittura di Ellis, dalla tensione narrativa incalzante ai dialoghi taglienti, vedi gli scambi di opinione tra Karnak e Coulson, perfetto contraltare ai deliri autoreferenziali dell’inumano.

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La continuità grafica soffre purtroppo del repentino abbandono di Gerardo Zaffino, figlio di Jorge, maestro del fumetto argentino autore di alcune storie del Punitore negli anni ’80, pubblicate anche in Italia dalla Star Comics. Dotato di un segno grezzo e sporco, arricchito dall’abbondante uso di neri e retini, Zaffino si è rivelato subito la scelta ideale per illustrare le vicende di un personaggio così complesso e ambiguo. Il passaggio dal suo stile a quello più tradizionale e pulito di Boschi, con un intermezzo del nostro Antonio Fuso, è il punto debole dell’intera miniserie. Il francese è autore di un buon storytelling ma senza particolari guizzi, che suscita il rimpianto per la riuscita finale di un’opera che, pur con qualche difetto, occupa un posto di rilievo tra i progetti più interessanti della Marvel odierna.

Le novelle di Dino Battaglia, la recensione di Lovecraft e altre storie

Continua la riproposizione da parte delle Edizioni Npe dell’opera di Dino Battaglia, maestro veneziano del tavolo da disegno che ha lasciato un solco profondo nella storia del fumetto italiano, nonostante i 34 anni ormai trascorsi dalla sua prematura scomparsa. Dopo i primi tre volumi dedicati rispettivamente alle trasposizioni realizzate dai racconti di Poe e Maupassant e a L’Uomo della legione, prima storia realizzata da Battaglia per la collana Un uomo, un avventura di Sergio Bonelli, è la volta di Lovecraft e altre storie, raccolta antologica di racconti brevi a sfondo fantastico in cui l’influenza dello scrittore di Providence è palese, nonché dichiarata fin dal titolo, solo nel primo episodio. Le altre novelle, che a una prima lettura non sembrano contenere alcun nesso tra loro, sono in realtà accomunate dal mostrare al lettore le conseguenze, dall’esito sempre tragico, delle scelte dei protagonisti. In questo senso, non è fuori luogo inserire questi brevi parabole nella categoria dei racconti morali.

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In Omaggio a Lovecraft, un guidatore sfortunato è costretto da una pioggia torrenziale a fermarsi in una cittadina apparentemente deserta, fino al tragico epilogo; in La Malizia del diavolo Battaglia si rifà alla tradizione delle miniature medievali per raccontare la storia di un fante e del furto della sua borsa piena d’oro, punita dal diavolo in persona; in Totetanz l’artista si produce in una nerissima danza macabra, genere tipico della pittura medievale, in cui le anime degli uomini danzavano con la morte che le trascinava verso il suo regno. In questo racconto dalle atmosfere gotiche, il pittore Peter è intento a derubare il vecchio e avaro maestro Annekeen quando quest’ultimo lo trova con le mani nel sacco; non avendo altra scelta che ucciderlo, Peter sogna di usare l’insperata ricchezza per convincere la vedova di Annekeen, Marion, a scappare con lui. Peccato che l’anima del defunto tornerà per tormentare l’apprendista. Ne Il Patto, la Contessa Mansi teme che la sua bellezza, ammirata da tutti, possa un giorno sfiorire. Per allontanare il pericolo, la Contessa stringerà un patto dalle conseguenze nefaste. Il volume si chiude con gli adattamenti di due classici: in Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde l’autore mette i suoi chiaroscuri al servizio dell’omonima novella di Robert Louis Stevenson, mentre ne Il Golem Battaglia si confronta col più celebre mito del folklore praghese, ispirandosi in parte all’omonimo capolavoro del cinema espressionista tedesco girato da Paul Wegener nel 1920, per cercare poi una via personale nell’illustrare con la consueta efficace i vicoli fumosi della Praga del ‘500.

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In Lovecraft e altre storie ritroviamo le stesse atmosfere gotiche del precedente volume dedicato agli adattamenti da Poe, inquietanti ed ammalianti allo stesso tempo. Pur scegliendo di adattare racconti classici, è un sentimento senza tempo come l’angoscia del vivere quello che Battaglia illustra con maestria nelle sue novelle. Bisogna considerare l’arco temporale nel quale si sviluppa la carriera dell’autore, dal dopoguerra fino alla prematura scomparsa, all’alba degli anni ’80: anni in cui il nostro paese esce in macerie dal secondo conflitto mondiale, per arrivare fino alle violenze degli anni di piombo e della strategia della tensione. Pur non trattando direttamente tematiche politiche e sociali nei suoi lavori, è l’inquietudine strisciante per un presente non facilmente decifrabile e un futuro incerto, sublimata dalla paura della morte, che impregna tutta l’opera di Battaglia e i racconti contenuti in questo volume in particolare. E nessuno meglio di lui è riuscito a mettere su carta questa angoscia, grazie alle atmosfere spettrali ed opprimenti delle sue storie, realizzate con un uso dei chiaroscuri e di toni grigi che ha fatto scuola. Abbandonata “l’ossessione” per i neri pieni tipica del suo apprendistato su strisce come Asso di Picche nell’immediato dopoguerra, come sottolineato da Angelo Nencetti nella sua brillante introduzione, Battaglia si apre alle influenze artistiche più disparate: guarda alla grafica mitteleuropea, subisce l’influsso del Liberty e dell’Art Nouveau e ammira l’opera di artisti come Duilio Cambellotti e il Gustavino, uno dei più grandi illustratori del dopoguerra per libri di grandi case editrici come Mondadori e Rizzoli. Proprio da quest’ultimo apprende la tecnica che diventerà la cifra stilistica tipica della sua opera, cioè quella di creare effetti chiaroscurali grazie ad un uso misto di “neri” realizzati a pennino a cui andava ad aggiungere sfumature a secco di matite e pastelli.

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La svolta finale verso la mezza tinta avviene quando la casa editrice inglese Fleetway commissiona a Battaglia degli adattamenti di Shakespeare e racconti mitologici, incoraggiandolo in quella direzione. È in questo periodo che l’autore conosce il lavoro di illustratori come l’inglese Aubrey Beardsley e l’irlandese Harry Clarke, famosi per i loro adattamenti delle opere di Poe. Se degli inglesi apprezzava la compostezza formale, Battaglia ammirava anche le illustrazioni di autori mitteleuropei come Bruno Paul e Adolf Munzer, capaci di riproporre su carta quei tormenti e i toni passionali che erano stati tipici dello Sturm und Drang, grazie ad uno stile che faceva del grottesco la propria caratteristica precipua. È possibile ritrovare queste e altre influenze nello straordinario lavoro dell’artista veneto, un intellettuale del tavolo da disegno la cui arte sapeva parlare però a tutti. E a distanza di quasi cinquant’anni dal primo apparire di questi racconti, siamo ancora rapiti dalle atmosfere gotiche, dai foschi paesaggi, dai luoghi spettrali, dalle misteriose presenze, “metafore delle nostre più profonde inquietudini, esplorazioni negli oscuri meandri della psicologia umana e negli orrori malcelati di una condizione esistenziale lacerata, contraddittoria ed enigmatica” (Gianni Brunoro).

Un plauso al lavoro delle Edizioni NPE, che stanno riproponendo ad una nuova generazione di lettori i lavori di Battaglia, Sergio Toppi e, prossimamente, Attilio Micheluzzi, facendoli così uscire dallo scrigno della memoria al quale erano stati confinati dopo conclusione della gloriosa epoca delle riviste d’autore e donandogli una nuova giovinezza.

Il revisionismo supereroistico di Jeff Lemire, la recensione di Black Hammer 1

Il vecchio Abe si sveglia come sempre di buon mattino, nella sua fattoria nella contea di Black Hammer. Lavora i campi, dà da mangiare agli animali e munge le vacche. Questa è la sua vita da 10 anni, dopo averne passato il resto in città, e non la cambierebbe per nulla al mondo. Peccato che il resto della sua strana famiglia non la pensi così: nulla di anomalo, considerando che si tratta di un gruppo di supereroi sotto mentite spoglie, scomparsi molti anni prima durante una crisi dimensionale e riapparsi in questa isolata contea, nel bel mezzo del nulla. Abe era Abraham Slam, atletico combattente del crimine; sua nipote Gail è in realtà Golden Gail, adulta bloccata nel corpo di una bambina di 9 anni. Ci sono poi il Colonnello Weird, bislacco cosmonauta ormai fuori di senno che va e viene da una sorta di limbo spazio-temporale, la para-zona; Barbalien, marziano mutaforma e Madame Dragonfly, strega che vive in una capanna a breve distanza dalla fattoria. 10 anni prima questo gruppo di eroi si era riunito a Spiral City per scongiurare la minaccia dell’Anti-Dio, un essere quasi onnipotente che con un nome così, nessuno lo vorrebbe come nemico. Scomparso nell’esplosione con cui si era concluso lo scontro, il composito quintetto viene considerato defunto dal resto del mondo salvo riapparire misteriosamente in un contesto di provincia in cui i supereroi non sono mai esistiti. L’unico partecipante alla battaglia di Spiral City di cui non si hanno più notizie è Black Hammer, il più grande eroe della città che si è sacrificato per salvare i suoi compagni. Di lui rimane solamente la sua arma, un martello nero, appunto, e il mistero che aleggia sulla sua sparizione avvolge l’intera vicenda. Constatata l’impossibilità di allontanarsi dalla contea e di fare ritorno a casa, il gruppo non ha altra scelta se non quella di camuffare il proprio aspetto agli occhi degli altri abitanti e di iniziare una nuova vita, come la più singolare e insolita delle famiglie.

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Leggendo Black Hammer di Jeff Lemire e Dean Ormston tornano alla mente classici del revisionismo supereroico come Miracleman e Watchmen, opere la cui influenza arriva fino ad oggi come un’onda lunga. Dal primo apparire di questi lavori seminali, la figura del supereroe è stata decostruita e dissezionata da una schiera di autori più o meno brillanti, che lo hanno eletto a simbolo dei complessi cambiamenti della società nel corso dei decenni. Quello che rende Black Hammer diverso da tutto quello che è stato già visto, nonostante le numerose citazioni e strizzatine d’occhio ai classici del genere di cui è infarcito, è l’ambientazione rurale, assolutamente inedita, filtrata dalla grande capacità da narratore di Lemire: è la lettera d’amore dello scrittore al fumetto di supereroi con cui è cresciuto, condita però della sensibilità tipica della scena indie nella quale si è fatto le ossa. Come ricorda lo stesso autore nella bella postfazione al volume, dichiararsi fan sfegatati di fumetti di supereroi era considerato quanto meno controcorrente, nell’ambiente dei comics indipendenti in cui il fumetto mainstream di Marvel o DC è visto come il fumo agli occhi. Black Hammer era in gestazione nella mente di Lemire fin da quei primi anni della sua carriera, in cui esordiva con piccole storie ambientate nella provincia canadese come Essex County, “racconti di famiglie e paesini”, come li ha definiti lo stesso autore, connotati da un forte sapore autobiografico e malinconico e dalla consapevolezza dell’impossibilità di cambiare il proprio destino.

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Black Hammer è la sintesi brillante delle due anime di Lemire: essenzialmente, è Essex County con i supereroi. L’amore per il genere è evidente fin dalla presentazione dei personaggi, topoi presi a prestito dagli amati albi in quadricromia di Marvel e DC. Abraham Slam, atletico pugile senza poteri che ha modellato il suo fisico alla perfezione per offrire il suo contributo durante la Seconda Guerra Mondiale, è ispirato tanto a Capitan America quanto a Wildcat della Justice Society Of America; Il Colonnello Weird è un omaggio all’eroe dello spazio della DC Adam Strange, mentre i suoi trip nella para-zona sono un tributo alle lisergiche tavole di Steve Ditko per il Doctor Strange della Marvel; il marziano Barbalien è Martian Manhunter, il J’onn J’onnz della Justice League, mentre Golden Gail è una sintesi tra Capitan Marvel e Mary Marvel e, come loro, acquisisce straordinari poteri urlando una parola magica. Ultimo membro della gallery allestita da Lemire è Madame Dragonfly, che richiama tanto la maga Madame Xanadu dei fumetti DC quanto le megere anfitrione dei fumetti horror anni ’50 targati EC Comics, e che consente all’autore di aggiungere un tono soprannaturale alla storia.

Fra tutti i personaggi che compongono questa strana “famiglia”, Abe è l’unico che si è adattato alla loro nuova vita, anche perché come giustiziere in calzamaglia era ormai datato e prossimo alla pensione, mentre gli altri passano le giornate a rimpiangere quella precedente. È difficile, per chi ha solcato i cieli, adattarsi ad un contesto rurale e retrogrado di cui si è misteriosamente prigionieri, come in una versione aggiornata di The Dome di Stephen King o del Truman Show di Peter Weir. Particolare cura viene data dallo scrittore alla caratterizzazione di Gail, donna adulta intrappolata nelle sembianze di una bambina di 9 anni, attraversata da pulsioni che dovrà sopprimere per salvare le apparenze. Con delicatezza e amore verso questi personaggi e le loro debolezze, Lemire ci accompagna pagina dopo pagina nella vita quotidiana di una famiglia “disfunzionale”, i cui membri sono costretti a convivere loro malgrado. I momenti migliori della serie sono proprio quelli in cui la narrazione del vivere di tutti i giorni prende il sopravvento sulla dimensione prettamente “super”, come nelle scena, raccontata magistralmente dallo scrittore, in cui Abe porta a casa la fidanzata Tammy, la cameriera della Tavola Calda locale, per presentarla alla “famiglia”: la situazione darà luogo ad una serie di equivoci, travestimenti e parapiglia che non hanno nulla da invidiare a produzioni teatrali come Rumori Fuori Scena. Notevole è il cambio di registro che l’autore è capace di imprimere alla serie, passando con disinvoltura da scene di vita campagnola a ricordi della gloria che fu, solcando i cieli della metropoli: ognuno dei sei albi che compongono il volume è incentrato su ciascuno dei personaggi principali, in modo da passare alle atmosfere golden age dei primi supereroi con Abraham Slam e Golden Gail, alle avventure spaziali di Barbalien e Colonnello Weird, fino alle tinte horror dei Racconti della Cripta di Madame Dragonfly.

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Black Hammer non sarebbe stato lo stesso senza l’apporto delle matite di Dean Ormston, scelta singolare eppure perfetta per un autore di “scuola Vertigo” che non aveva praticamente mai lavorato su una serie di supereroi. L’artista di Books Of Magic e Lucifer, con le sue linee sottili e un tratto volutamente non appariscente e dimesso, in particolare nelle scene rurali, conferisce un sapore indie e underground all’opera, riuscendo nell’impresa di fornire un commento metatestuale per immagini al lavoro di Lemire: basti pensare alle splendide e “false” copertine d’epoca che, citando svariati periodi della storia del fumetto, riporteranno la memorie del lettore all’analogo lavoro svolto da Rick Veitch sul Supreme di Alan Moore. Il comparto grafico viene suggellato dall’apporto cromatico dei colori di Dave Stewart, che formano con le matite di Ormston un binomio inscindibile: Stewart fa un uso sapiente del colore per differenziare le varie fasi del racconto di Lemire, scegliendo toni spenti e opachi per le scene di quotidianità provinciale, virando verso tonalità accese e squillanti per le sequenze prettamente supereroistiche ambientate a Spiral City, quasi a rimarcare che ci sono ricordi, in ognuno di noi, che bruciano più vivi delle realtà stessa. E forse è proprio questa la chiave del grande successo di critica e di pubblico di Black Hammer, quella di parlare a tutti quelli che, guardando il cielo, sognano di spezzare le catene che li trattengono a terra. Lemire e Ormston suggeriscono che non bisogna rassegnarsi a considerare il proprio futuro alle spalle, e nel farlo restituiscono freschezza e stupore infantile ad un genere logoro e usurato come il fumetto di supereroi. Per questo bisogna ringraziarli, senza perdersi troppo in analisi critiche o metatestuali che fanno gonfiare di orgoglio autoreferenziale il petto dei critici.

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