Già dopo aver letto la prima manciata di pagine di Dimentica il mio nome, quinto libro a fumetti di Zerocalcare edito da BAO Publishing, ci si rende conto di avere di fronte un’opera di grande intensità emotiva.
Subito il racconto si fa forte, aprendosi con l’evento principale della storia, un lutto raccontato in modo così intimo e diretto da colpire il lettore come una pallonata in pieno diaframma, di quelle che spezzano il fiato. Un evento sì personale, ma che, allo stesso tempo, ci accomuna tutti inevitabilmente: subito quindi avviene quella sensazionale sincronizzazione fra autore e lettore, che consente di trovare subito un senso di fisiologica familiarità.
Si entra immediatamente in un labirinto fatto di malinconia e ricordi, di perdita e mancanza, raccontati con semplicità, senza che Zero rinunci al suo taglio ironico e alle sue bombe di cultura pop che lo hanno reso famoso in tutto il Paese.
Parlare di se stessi, della propria vita e del proprio passato è opera ardua per chiunque decida di fare della scrittura la sua vita, perché è così facile cadere nella più scontata banalità.
Dobbiamo sottolineare come l’intera produzione precedente del fumettista romano abbia avuto come pietra angolare la sua vita, presente e passata, ma questa volta Zerocalcare decide di osare di più, addentrandosi in acque perigliose e agitate, per navigare le quali è richiesta una certa esperienza e una considerevole dose di coraggio.
Nonostante le insidie però, l'autore, da buon capitano, decide di dispiegare le vele e salpare per questo viaggio, viaggio del quale il lettore si sentirà ospite mai indesiderato.
Nel corso di questa lunga traversata, Zerocalcare ricostruirà il passato misterioso e straordinario della sua famiglia, fatto di verità nascoste o parzialmente omesse, di sofferenza e amore, di fantasmi e morte.
Attorno alla morte della nonna, c'è un racconto composto da molti piccoli tasselli, o più semplicemente capitoli, che, alla fine, andranno a comporre un mosaico meraviglioso nella sua interezza.
Dimentica il mio nome è un’opera straordinariamente complessa, che, inoltre, arricchisce ulteriormente la “mitologia” attorno al mondo di Zerocalcare: per la prima volta, ad esempio, ci vengono narrate le “origini segrete” dell’Armadillo, vera e propria coscienza del protagonista, e, oltre alla presenza di personaggi storici come Secco, Cinghiale, Mamma Cocca e altri, ritorna sempre Rebibbia, protagonista silenziosa e onnipresente nella produzione dell’artista.
Rebibbia, quartiere periferico di Roma, che è quasi un universo a sé, un microcosmo nel quale Zerocalcare si muove e verso il quale avverte un forte e chiaro senso di appartenenza.
Interessante è anche il confronto storico fra epoche e generazioni diverse, rappresentate dalla nonna e dallo stesso Zero: il lavoro di ricerca fatto è notevole e, grazie a questo, riesce facile apprezzare a pieno le fisiologiche difficoltà di comprensione e comunicazione fra mondi diversi e distanti, separati da diversi decenni, fatti di guerra, segreti e incertezze.
Specifichiamo una cosa: nonostante i tanti che lo vedono come una sorta di “profeta generazionale”, all’autore di questa carica non gliene frega un accidente, poiché sua intenzione è semplicemente quella di raccontare una storia, quella sua e della sua famiglia.
Questo gli consente di non sfociare mai nell’ipocrisia o nella retorica, dato che Zerocalcare non si esime dall’auto-critica, dal sottolineare molteplici aspetti che lo rendono una persona come tutti, fatta anche di difetti e controsensi: l’umanità e l’onestà intellettuale con la quale ci viene presentato Dimentica il mio nome costituisce l’aspetto più prezioso dell’opera.
La tematiche presenti nel libro sono molteplici, il duplice filo rosso che però accompagna tutta la storia è quello fatto dalla paura e dal dolore, cancri dell’anima umana, che si intrecciano continuamente fra loro, attanagliando e soffocando la nostra mente.
La paura, quella strana forza che cresce dentro di noi, silenziosa e spietata, che ci paralizza nei momenti decisivi, rendendoci a posteriori vittime di rimpianti e rimorsi. “La paura uccide più della spada” sentenziava il maestro Syrio Forel ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin (a proposito, spassosissima la citazione di Game of Thrones), e questa frase è più vera che mai: quante volte nella nostra vita abbiamo rinunciato a qualcosa solo per paura? Paura di sbagliare, di fallire, di rischiare, di rimanere soli? Quante volte abbiamo avuto paura di vivere, quando la vita ci metteva nella scomoda posizione di dover mettere tutto in discussione?
Qui l’autore mette sul piatto tutte le sue paure, e il suo dolore, come detto. Il dolore che inevitabilmente tutti noi dobbiamo subire prima o poi, chi più, chi meno.
Ma il dolore fortifica, o almeno così dicono. Il dolore ci permette di costruirci addosso un’armatura indistruttibile e inossidabile, che ci rende progressivamente uomini e donne vere, forti e coraggiosi. Che poi, quand'è che smettiamo di essere qualsiasi cosa eravamo prima per evolverci ad adulti manco fossimo Pokèmon? Alla fine, perché nessuno ci dice davvero che, sotto quell’armatura di granito, siamo sempre noi stessi? Perché nessuno ci dice che quell’armatura è forgiata nel distacco e nella disillusione, nella perdita di speranza e di capacità di sognare e amare?
Nessuno ci rivela questa scomoda verità perché il dolore puzza più del letame, e la cosa più comune di fronte a questo è ignorarlo e fuggire a gambe levate. Lo facciamo tutti.
E così, inesorabilmente, perdiamo qualcosa, accorgendocene sempre troppo tardi.
Questo è anche il caso del Nostro, il quale trovava rifugio nel “Pisolone”, simpatico sacco a pelo della Giochi Preziosi dalle sembianze di dolce animaletto, tanto in voga negli anni ’80. All’interno del Pisolone, Zero era al sicuro dalle sue ansie e paure, sentendosi protetto dal crudele mondo là fuori.
Ma nessuno può scappare per sempre, e, anzi, il continuo fuggire in cerca di rifugio non è altro che un modo per permettere alle paure di crescere e moltiplicarsi indisturbate, e dove si annidano le paure, si sa, crescono i mostri, pronti ad attaccarci nel momento più inaspettato.
Volendo per un attimo eliminare tutti questi elementi , per puro gioco mentale, dall’equazione generale, Dimentica il mio nome rimane comunque una storia avvincente e scorrevole, in tutte le sue 234 pagine di durata. La trama costruita da un blocco centrale, sul quale si incastrano flashback e sottotrame secondarie, si dimostra estremamente fluida e ben architettata, cosa che dimostra quanto Zerocalcare sia cresciuto anche sotto il profilo meramente tecnico dello storytelling.
Come buona parte della produzione dell’autore, anche Dimentica il mio nome è quasi interamente in bianco e nero, e a questo proposito possiamo rilevare come lo stile grafico, pur rimanendo fondamentalmente invariato, sia diventato più pulito e armonico.
Quasi interamente, si è detto, perché a dire il vero una traccia di colore (l'arancio) c’è: questa scelta dal punto di vista cromatico ha un significato molto specifico, ma non vi si può rivelare di più senza cadere vittime del “Demone dello Spoiler”.
Si tratta di un evento davvero raro quando si riesce a ridere e piangere contemporaneamente, e leggendo questo libro ci si trova catturati proprio in uno di questi momenti.
Terminata la lettura, con gli occhi lucidi e il sorriso stampato in faccia, si avverte la quasi irresistibile pulsione di cercare, con un gesto o anche semplicemente un pensiero, tutti coloro che amiamo (o abbiamo amato) nella nostra vita, soprattutto se questi affetti non ci sono più.
Perché il ricordo è la abilità più preziosa in dotazione all’essere umano, anche se a volte fa male; e l’affetto e il calore umano, sono la cura più efficace contro la sofferenza che il vivere spesso comporta.
La malinconia è quindi quella sensazione che ci accompagna nel corso dell’intera lettura, quel vortice di sensazioni che ci scava dentro e ci fa avvertire un inspiegabile senso di vuoto che abbiamo necessità di riempire con qualcosa, per non soccombere: questa è la vita, dopotutto.
E, a questo proposito, è bellissima la metafora della vita paragonata a un albero: alla nascita è semplicemente un seme, nel tempo cresce forte e rigoglioso, ma, invecchiando “l’albero si attorciglia, il tronco si fa nodoso, contorto, le radici spaccano quello che ci sta intorno, fino a che non riesci più a capire com’era la pianta originale”.
Dimentica il mio nome parla di crescita, attraverso la perdita, la paure e il dolore, districandosi fra rimorsi e rimpianti, riuscendo a convivere con la malinconia e imparando, a poco a poco, a percepirsi in modo diverso, comprendendo l’importanza vitale delle piccole cose.
Quest'opera è una gemma assai preziosa nel panorama fumettistico nazionale degli ultimi anni (di sicuro) e (probabilmente) di sempre.