Italian/English version.
Intervista a cura di Daniele Croci.
Guy Delisle è tornato a casa. Dopo aver girato il mondo per lavoro o per necessità, da solo o più spesso al seguito di moglie e figli, ha deciso finalmente di mettere radici. Attivo già da diversi anni nel rigoglioso mondo del fumetto di non-fiction, ma definitivamente consacrato dal premio Fauve d'Or ad Angoulême nel 2012, l’animatore canadese Delisle ha saputo raccontare con leggerezza e la giusta dose di ironia le contraddizioni di paesi lontani culturalmente e geograficamente, nonché le difficoltà e lo straniamento di chi è costretto a spostarsi di anno in anno con tanto di bambini a carico. I suoi diari di viaggio a fumetti, amatissimi anche in Italia, hanno saputo descrivere la quotidianità di complessi e sovraesposti melting-pot culturali e politici come Gerusalemme, ma anche angoli remoti di mondo nascosti dai riflettori e dai mass-media occidentali, come la Corea del Nord o la periferia cinese. Il suo ultimo lavoro, Diario di un cattivo papà, uscito a Lucca 2013 per Rizzoli Lizard, racconta il definitivo approdo di Guy al mondo della paternità stanziale, nonché l’evoluzione a uno verso stile di vita finalmente sedentario. L’abbiamo raggiunto durante la kermesse toscana per fargli qualche domanda sul suo lavoro.
Salve Mr. Delisle, e benvenuto su Comicus. Prima di tutto, ci parli del suo ultimo lavoro, il Diario del Cattivo Papà (edito in Italia da Rizzoli Lizard, ndr). Perché si è spostato dal graphic journalism più o meno puro verso questioni personali, come la famiglia e il rapporto coi figli?
Abbiamo smesso di viaggiare in quel modo, quindi non ho più intenzione di fare diari di viaggio come prima. Non è che mi sono detto “Ok, scelgo di smettere”. Abbiamo deciso di fermarci per la famiglia, i bambini sono troppo grandi per viaggiare così tanto, e abbiamo pensato fosse ora di fermarci. Quindi mi sono detto: “Quale sarà il mio prossimo progetto?”. Ne ho uno grosso in ballo su cui sto ancora lavorando, ma mi capitò di realizzare una storia sulla paternità sul mio blog, la prima, e mi piacque molto; un sacco di persone mi scrissero dicendo “è divertente, mi è capitato come padre”. E ne feci un’altra, la seconda, e poi divennero un libro, quindi non fu come se avessi deciso: “Ok, ora farò un libro su quello”.
La sua famiglia, e specialmente il rapporto con i suoi figli costituiscono una caratteristica ricorrente dei suoi lavori. Come la paternità ha influenzato la sua produzione letteraria e giornalistica?
Mi piace molto lavorare coi piccoli dettagli e la vita quotidiana mi fornisce sufficiente materiale per le mie storie; quindi quando viaggio, ovviamente, mi muovo in una determinata area e parlo del paese in cui mi trovo. Ma ora che sono a casa e non viaggio così tanto, guardo alla mia vita quotidiana e sono i bambini. E penso “beh forse potremmo ricavarne qualcosa di divertente”, e tutto ciò è diventato un libro, e un secondo volume a gennaio.
Parlando di graphic journalism e fumetti non-fiction, pensa che possa essere un tipo di letteratura disegnata in qualche modo in grado di raggiungere un pubblico più ampio, e specialmente persone che normalmente non leggono i fumetti?
Direi di sì, perché quando iniziammo circa quindici anni fa, quando scrissi Shenzhen, vendemmo 2000 copie. Sapevo che persone della mia età avrebbero potuto trovare questo fumetto interessante, ma era difficile raggiungerle; ora, quindici anni più tardi, le cose sono cambiate, perché le persone della mia età ora comprano libri, e non hanno paura di farlo, dato che hanno letto così tanti graphic novel e sanno che possono trarne una soddisfazione differente: c’è la letteratura, ci sono fumetti differenti, e ci sono i graphic novel. Quindi comprarsi libri [a fumetti, ndr] è diventato parte della loro vita, quindi le cose sono sicuramente cambiate rispetto a quindici anni fa.
Secondo lei, qual è il vantaggio di una produzione di non fiction, giornalistica e documentaristica, che vuole in qualche modo rappresentare la realtà ma che non può affidarsi alle fotografie e alle riprese video? Non usa mezzi di riproduzione meccanica, deve disegnare ciò che vede.
Per me è lo humour, perché se si tratta di qualcosa di troppo serio non mi va di parlarne. Non che non sia interessato ma... Io leggo libri seri, ma non voglio fare fumetti così. Per quanto mi riguarda, mi piace quando c’è un mix fra le due cose, quando ho la sensazione di imparare qualcosa e nel contempo giro la pagina e mi sto divertendo. Questo è ciò che mi piace, e direi che è tipo di libro cui sono attratto. E non mi sento realmente un giornalista, un giornalista è una cosa diversa secondo me; se penso a un giornalista, penso a Joe Sacco, il cui lavoro ha un approccio differente rispetto al mio, anche se parliamo dello stesso paese; è sempre fumetto, ma credo di essere quasi l’opposto di quello che fa lui. Mi piacciono molto i suoi libri, ho letto tutto quello che ha fatto, ma il mio lavoro è diverso, e penso sia buono poter avere approcci differenti, anche se facciamo entrambi autobiografie.
Come gestisce (o meglio gestiva) il suo stile di vita giramondo? Era solito fare ampie ricerche sulla politica e sulla cultura del paese in cui stava per trasferirsi, o preferiva formare un opinione direttamente sul campo?
Quando andai in Corea del Nord, lessi tutti i libri che potei perché sapevo che, una volta lì, non avrei avuto alcuna informazione dalle persone, o che le informazioni che avrei ottenuto probabilmente sarebbero state di parte, non obiettive; quindi mi lessi tutti i libri, era facile allora, ora ce ne sono molti di più. Ma prima di andare in Birmania, o persino a Gerusalemme, non ebbi tempo, per via dei bambini, di leggere così tanto sulla nazione; e inoltre sapevo che una volta lì sarei stato a contatto con le persone, come a Gerusalemme, dove ero con giornalisti che risiedevano lì da otto anni, ed erano giornalisti che trattavano entrambe le fazioni, e potevano rispondere in dettaglio a tutte le domande che avevo, e potevamo discuterne; quindi era facile, ogniqualvolta avessi la necessità di qualche tipo di informazione, chiedere a qualcuno che lavorava per l’ONU, per la Croce Rossa, e la quantità di informazioni che riuscivo a reperire era fantastica.
Una delle cose che sono maggiormente apprezzate del suo lavoro è il fatto che lei non prova a fare prediche, non vuole salire in cattedra e dire ai lettori come pensare su Gerusalemme, sulla Corea del Nord. Io penso che lei preferisca raccontare, piuttosto che insegnare. Si tratta di una scelta precisa?
È vero, ma non si tratta di una scelta. Non scelgo di dire “Oh, farò un lavoro in questo modo perché è meglio”. È semplicemente il modo in cui sono, sul serio, sono pieno di dubbi, e questa è forse una cosa che posso collegare al giornalismo. Penso che quando sei un giornalista sia buono avere molti dubbi, e io non mi sento come se possedessi la verità e possa dire la verità; ma penso ci siano delle osservazioni che ho fatto, posso rappresentarle, posso mostrarle ed essere molto preciso e veritiero su quelle. E per me è sufficiente, perché ritengo che i lettori possano formasi una propria opinione, e io non posso cambiarla in ogni caso: quindi mi limito a presentare le informazioni, e loro possono fare il resto, l’altra parte del lavoro.
English version.
Good afternoon Mr. Delisle, and welcome to Comicus. First of all, tell us about your latest work, Le guide du mauvais père. Why have you moved from more or less pure graphic journalism towards personal issues, like family and the relationship with your children?
We stopped travelling like that, so I’m not going to do travelling books like before; it’s not like I said “Well, ok, I’m gonna choose to stop”. We decided to stop because it was a family thing; my kids are too old now to travel like that, and we had the feeling it was time to stop. So I said, “what is going to be my next project?” I have a big one that I’m still working on, but it just happened that on the blog I did one story – and I liked it – about the father, the first one; lots of people wrote back to me to say, “This is funny, it happened to me as a father”. And I did another one, the second one, and then it became a book, so it was not like “Ok, I’m gonna do a book on that.”
Your family, and especially the relationship with your children is a major recurring feature of your works. So, how has your fatherhood influenced your literary and journalistic production?
I really like to work with small details, and the everyday life gives enough food for my stories, so when I’m travelling, of course, I go around in the area, and I talk about the country. But now that I’m at home and I don’t travel so much and I look at my everyday life and it is the children. And I think “well maybe we can do a few funny things with that” and that has become a book now, and the second book in January.
Speaking of graphic journalism and non-fiction comic books, do you think that it could be a kind of graphic literature somehow able to reach a wider audience, and especially people who are not used to reading comics?
I think so, because when we started like fifteen years ago, when I wrote Shenzhen, we sold 2000 copies. I knew that people of my age would be interested by this comic but it was hard to reach them; after fifteen years, now, it has changed, because people of my age now buying books and they are not afraid because they’ve read so many good graphic novels around and they know that there’s actually a different pleasure: there is literature, there are different comic books, and there is graphic novel. So now it’s part of their everyday life habit to go and get some books, so it has changed in 15 years, that’s for sure.
In your opinion, what is the edge about non-fiction, documentary and journalistic production that wants to somehow represent reality, but cannot rely upon photographs, video footage? You don’t use mechanical means of recording reality, you draw your things.
For me, it’s humour, because I go around and if it’s too serious I don’t feel like talking about it. Not that I’m not interested, but...I read serious books, but I don’t wanna do comics about that. But for me, I like when it’s a mix of both, when I have the feeling I’m learning something and at the same time I turn the page and I’m having a good time. That’s what I like, and I guess that’s the type of books I’m attracted to. And I don’t feel like a journalist really, a journalist for me is different; if I think of a journalist I think of Joe Sacco, and his work is a different approach than mine, even though we talk about the same country; it’s all comic books, but I feel that I’m almost opposite to what he’s doing. I really like his books, I’ve read everything that he has done, but my work is different, and I think it’s good that we can have different approaches, even if we do auto-biography.
How do (or did) you deal with your globe-trotter lifestyle? Did you usually make a lot of research on politics and culture of the country you were going to move, or did you prefer to form your ideas, your opinion directly on the field, in the country?
When I went to North Korea, I read all the books I could because I knew that once I would be there, I would have no information by the people, or the information I would get from the people would by probably biased; so I read all the books, It was easy at the time, now there’s a lot more. But before I went to Burma, or even Jerusalem, I didn’t have time, because with the kids, to read so much about the country; and furthermore I knew that being there I would be with people, like in Jerusalem, I was with journalists who where there – some of them were there for eight years, and they were journalists who covered both sides, and they could answer to most of the questions I had, deeply, and we could have discussion; so it was easy to – whenever I had the need of some kind of information, I would ask one guy who works at the UN, at the Red Cross, the amount of information I could have was fantastic.
One of the things that are most appreciated about your works is the fact that you do not try to lecture your audience, you don’t want to act as teacher and teach them how to think about Jerusalem, about North Korea. I think that you prefer to tell, rather than to teach. Is that a deliberate choice?
It is true, but it isn’t a choice. I don’t choose and say: “Oh, I’m gonna work like that because it’s better”. It’s just the way I am, really, I’m full of doubts, maybe that’s something I can relate with journalism. I think that when you are a journalist it is good to have a lot of doubts, so you have to cross every information you have. So I work with doubts a lot, and I don’t feel like I have the truth and I can tell the truth; but I feel that there are observations I’ve done, I can depict them, I can show them and I can be very truthful and precise about that. And for me it’s enough, because I think the reader can make his own mind up and I’m not gonna change it anyhow: so it’s like I just present the information and they can do the rest, the other part of the work.