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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Gli Incredibili X-Men 5-9, recensione: l'epilogo del breve e intenso ciclo di Rosenberg e Larroca

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Nell’autunno del 2017 il sito di informazione fumettistica BleedingCool riportò un rumor di una certa rilevanza: secondo il portale Ike Perlmutter, CEO della Marvel, era l’uomo dietro il ridimensionamento che la linea editoriale degli X-Men stava sperimentando da qualche anno. Come motivo della drastica decisione ci sarebbe stata l’avversione di Perlmutter nei confronti della 20th Century Fox, studio fino a quel momento detentore dei diritti di sfruttamento cinematografico dei mutanti di casa Marvel, pronto ad approfittare degli sforzi editoriali della Casa delle Idee sfruttandone i personaggi per il suo franchise cinematografico. Si verificò così la classica situazione del marito che si taglia gli attributi per far dispetto alla moglie: l’editore iniziò un sabotaggio consapevole del marchio più prestigioso e remunerativo della sua storia, affidando le testate con la “X” ad autori di secondo piano che le fecero scivolare agli ultimi posti tra le preferenze del pubblico. In poche parole, il periodo “Gold” e “Blue” che non ha lasciato certo una buon ricordo. Un vero e proprio scempio editoriale e un dolore per milioni di fan cresciuti con le saghe mutanti che, fin dai tempi di Chris Claremont, hanno incollato alla sedia generazioni di lettori. Finché l’acquisizione della Fox da parte di Disney, proprietaria della Marvel, ha nuovamente cambiato le carte in tavola.

Con gli X-Men finalmente a casa e nella disponibilità dei Marvel Studios di Kevin Feige, che provvederà a introdurli nel Marvel Cinematic Universe nei prossimi anni, era arrivato il momento di rilanciare i mutanti anche nei cari, vecchi fumetti. L’operazione non si presentava come delle più semplici, soprattutto a causa di scelte creative discutibili che negli ultimi anni avevano reso l’universo degli X-Men irriconoscibile, con lutti che avevano tolto dalla scena pilastri come Xavier, Ciclope e Wolverine e la presenza di una versione giovanile dei cinque X-Men originali trasportati nella nostra epoca per volere di un Brian Michael Bendis mai così fuori forma come nella sua gestione delle serie mutanti. La rinascita della linea degli X-Men doveva passare attraverso delle fasi preliminari, come il ritorno degli “original five” nella loro epoca, e l’opportuna resurrezione non solo dei tre personaggi fondamentali prima citati, ma addirittura di quella Jean Grey deceduta al termine del fondamentale ciclo di Grant Morrison di inizio anni duemila.

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Le tappe di questo assestamento della linea mutante sono state coordinate da un gruppo di giovani autori a cui la Marvel ha voluto dare fiducia, come Ed Brisson, Kelly Thompson e soprattutto Matthew Rosenberg. Quest’ultimo è stato il responsabile del ritorno in scena di Jean Grey nella miniserie Phoenix Resurrection, una storia dall’esito scontato fin dal titolo che lo sceneggiatore è riuscito a gestire in maniera non banale, conferendogli un’inedita atmosfera da film di David Lynch. Nonostante già dall’estate 2018 si mormorasse di un coinvolgimento di Jonathan Hickman, reduce dai fasti di Avengers e Secret Wars, nel reboot di Uncanny X-Men, la testata uscì a sorpresa con i testi del triumvirato formato da Rosenberg, Brisson e Thompson. L’accoglienza riservata alla serie non fu all’altezza delle attese suscitate, un po’ perché la saga di debutto, X-Men Divisi, sapeva di già visto e si concludeva con l’esilio di alcuni tra i principali membri della squadra nell’ennesima realtà alternativa creata questa volta da Nate Grey, X-Man, un po’ perché il vero rilancio dell’universo mutante a firma Jonathan Hickman venne annunciato ufficialmente mentre questa nuova, controversa saga era in corso, sabotandone ogni attrattiva residua. Brisson, Rosenberg e la Thompson erano quindi dei semplici traghettatori, in attesa che il quotatissimo Hickman prendesse in mano le sorti degli X-Men. In attesa del nuovo demiurgo, nessuno sospettava che l’ammiraglia delle serie mutanti avesse in canna un ultimo acuto prima del passaggio di consegne.

Con Jean Grey, Tempesta, Colosso, Nightcrawler e la maggioranza degli X-Men esiliati nella realtà alternativa di Age of X-Man, venne affidato al solo Matthew Rosenberg il compito di raccontare il ritorno di uno spaesato Ciclope e di Wolverine in un mondo privo della maggior parte dei loro compagni di squadra. A fare compagnia allo scrittore, un artista che ha fatto la storia del franchise mutante a cavallo tra gli anni ’90 e 2000: Salvador Larroca. Nei pochi numeri a disposizione prima dell’arrivo di Hickman, i due hanno creato una sequenza di storie mozzafiato.

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Tornato in vita grazie all’intervento combinato della Forza Fenice e del figlio proveniente dal futuro, Cable, Scott Summers alias Ciclope si aggira in un’America che non riconosce più, nonostante siano passati pochi mesi dalla sua dipartita narrata in Death of X. L’ex leader degli X-Men si mette in cerca dei suoi compagni di squadra, che sembrano essere svaniti nel nulla. La sua ricerca attira l’attenzione di vecchi avversari come Donald Pierce e i cyborg assassini noti come Reavers, che gli tendono un agguato. Ma quando la situazione sembra precipitare, Scott riceve l’aiuto inaspettato di Wolverine, tornato a sua volta in vita nella miniserie Return of Wolverine. Dopo aver sgominato i vecchi avversari, i due decidono di radunare quello che resta degli X-Men. Per quello che ne sanno, la maggior parte dei loro compagni di squadra è passata a miglior vita, ignorando che sono prigionieri della realtà di Age of X-Man. Scott e Logan riescono a rintracciare e a coinvolgere nel loro progetto di rimettere insieme la squadra alcune vecchie conoscenze come Havok, Madrox l’Uomo Multiplo e quel che resta dei Nuovi Mutanti: Magik, Moonstar, Karma e Wolfsbane. Ciclope stila una lista di vecchi avversari ancora in giro, mine vaganti a piede libero da troppo tempo, e convince il resto della squadra a passare all’azione. Le cose si riveleranno un po più complicate del previsto: bisognerà innanzitutto sopravvivere alla persecuzione del Generale Callahan e del suo O.N.E., unità militare dedita alla caccia e alla sterminio dei mutanti, e al ritorno di una vecchia fiamma di Ciclope che potrebbe aver fatto di nuovo il salto della barricata.

In soli 11 numeri, Rosenberg e Larroca recuperano il mood classico delle migliori storie degli X-Men, dopo anni in cui il franchise è stato allo sbando: puro fan-service che omaggia le atmosfere tradizionali delle serie mutanti, soprattutto la lunga gestione di Chris Claremont. Sapendo di avere a disposizione pochi numeri, Rosenberg mette nel frullatore tutti gli ingredienti che hanno reso la saga degli X-Men la più amata della storia del fumetto americano: come ai tempi di X-Chris, Uncanny X-Men torna a parlare di un gruppo di persone che lotta per trovare il proprio posto in una società che non li vuole. Per puro caso, poi, queste persone sono dotate di superpoteri, sparano raggi concussivi dagli occhi ed estraggono artigli di adamantio dal dorso delle mani lottando per salvare, come recita il celebre adagio, “un mondo che li teme e li odia”. Anche i costumi indossati dai personaggi sono allo stesso tempo un omaggio ai vecchi tempi e un regalo ai lettori, interpellati via social dall’editor Jordan White per sapere quali uniformi avrebbero gradito rivedere. Così Ciclope indossa quella gialla e blu, con immancabili tasche anni ’90, del periodo di Jim Lee, mentre Wolverine torna all’iconico costume marrone ideato da John Byrne negli anni ’80.

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Ma Per Sempre e Ci siamo sempre stati, i due archi narrativi della breve gestione Rosenberg ospitata in Italia nei numeri compresi tra il 5 e il 9 della nuova serie de Incredibili X-Men targata Panini Comics, non sono solo un calco riuscito di alcune tra le migliori storie del passato, tra atmosfere persecutorie e riusciti momenti intimisti: il giovane emulo di Claremont sembra portare avanti anche un interessante discorso meta-fumettistico. I suoi X-Men, pagina dopo pagina, prendono botte da orbi dalle quali non riescono a rialzarsi, denunciando un’inadeguatezza straniante per i fan che da anni aspettavano di rivederli. È come se Rosenberg rassicurasse i lettori restituendo loro i personaggi che volevano nei loro costumi preferiti, ma li tradisse subito dopo dicendo che i tempi sono cambiati e sono diventati troppo cupi e difficili per le tutine sgargianti della loro adolescenza. La sfida raccolta da Ciclope e dalla sua squadra è troppo grande da affrontare con i mezzi del passato, e il finale aperto implica che ci vorrà qualcosa di diverso per parlare, oggi, della questione delle minoranze oppresse celata dietro alla grande metafora mutante. Quel “qualcosa” è il nuovo ciclo di Jonathan Hickman, atteso da enormi aspettative e appena giunto anche da noi.

Nonostante sia stata concepita come un breve intermezzo prima del vero rilancio, la sequenza di storie degli X-Men firmate da Matthew Rosenberg ha colto l’essenza dei personaggi e si avvia a diventare un piccolo cult, anche grazie ai disegni del grande Salvador Larroca, nume tutelare della Marvel degli anni ’90 e della storia degli X-Men. L’artista spagnolo non è nuovo alle testate mutanti: ricordiamo infatti il suo debutto americano in un bel ciclo di Excalibur e, soprattutto, gli X-Treme X-Men realizzati in coppia con Chris Claremont, un nome che, quando si parla di X-Men, salta sempre fuori. La scelta editoriale di far disegnare un ciclo del genere a Larroca è fortemente simbolica: solo un artista così profondamente coinvolto nella storia dei mutanti poteva disegnarlo. E lo spagnolo non tradisce le attese: dopo un primo numero dalla resa cromatica incerta, dovuta soprattutto alla prova discutibile della colorista Rachelle Rosenberg (nessuna parentela con lo scrittore), il disegnatore si sbizzarrisce in tavole piene d’azione e di esplosive splash-page, conferendo al tutto un look anni ’90 che calza a pennello. E quando gli X-Men immortalati da Larroca scendono in campo sotto la guida di Ciclope e Wolverine, la certezza che i ragazzi siano tornati in città è automatica.

Speciale Batman '89: Parte IV - Un ricordo personale

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Parte I - Parte II - Parte III

Tornare con la mente all’uscita italiana del Batman di Tim Burton, avvenuta il 20 ottobre del 1989, significa riportare indietro le lancette della memoria a un’epoca spensierata, tipica dei ragazzini che stanno per affacciarsi all’età adulta senza sapere che quel tempo, che prima non passava mai, presto avrebbe cominciato a correre in maniera inesorabile, senza poter mai più tornare indietro. Nel mio caso, significa ripensare alla mia bellissima città natale, che oggi vive un degrado insopportabile a causa degli interessi sudici di una ristretta cerchia di individui inqualificabili che ne hanno corrotto l’anima. Ironia della sorte, per un fan di Batman come me, Roma sta prendendo giorno dopo giorno le sembianze della Gotham City descritta da Todd Phillips nel bellissimo e recente Joker, un cazzotto nello stomaco al perbenismo e al conformismo di una cinematografia contemporanea stagnante che ha ricevuto elogi e critiche in egual misura. Ma nel 1989 non era così.

All’epoca, Roma era una città che sentivo definire “provinciale” nei discorsi degli adulti, ancora raccolta nella sua anima profondamente popolare. Nel mio quartiere, era possibile incontrare tanto i divi della tv della vicina Rai quanto le famiglie formate da nonni e nipotini che scorrazzavano per le strade e i giardinetti pubblici. Con i miei amici dell’epoca, sfruttavamo la libertà che la fiducia dei nostri genitori e l’anagrafe ormai ci concedevano, girando per il quartiere come la Legione degli Strilloni o la Gang di Yancy Street dei fumetti di Jack Kirby. In un’epoca in cui la felicità non era chiudersi in casa a giocare con la console, citofonare a un amico per fare un giro di palazzo era il nostro divertimento. Calpestavamo i marciapiedi delle nostre strade con la gioia di poter vivere la nostra gioventù insieme. In quegli anni di prime uscite tra ragazzi, il cinema era la meta più gettonata. Rigorosamente al primo spettacolo, si intende, e a casa per le 18. Roma poteva vantare una rete di sale cinematografiche sterminata e di grande fascino. Erano quasi tutte risalenti all’epoca del boom economico, gli anni in cui i cinema erano talmente affollati che spesso ci si ritrovava a guardare il film in piedi. Quelle sale erano le vestigia di un tempo mitico e ormai andato, ed esercitavano su di noi un grande fascino. Sale da 1000-1500 posti a sedere come il mitico Adriano, dove i Beatles si erano esibiti nel lontano 1965. O l’Etoile, il Metropolitan, salotti incastonati in antichi palazzi del centro come il Capranica… Il solo entrare in questi cinema era un’esperienza, tra drappi rossi, sedili di velluto, pomi d’ottone e palchetti in galleria, le mie postazioni preferite. Ti poteva capitare di vedere Robocop o Gli Intoccabili in un teatro in cui, nei primi decenni del secolo, si erano esibiti fior d’attori. Negli anni a venire, la maggior parte di queste sale prestigiose sarebbero state chiuse e, grazie al trucchetto del “cambio di destinazione d’uso”, trasformate in boutique d’alta moda o, addirittura, parcheggi, sale bingo, banche e supermercati. Uno stupro del tessuto urbano e sociale della città, compiuto tra l’indifferenza e la miopia delle varie amministrazioni comunali che si sono succedute da allora.

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A casa mia l’amore per il cinema è sempre stata una questione di famiglia, trasmessa da mio nonno che ci raccontava della grande emozione, vissuta alla fine della guerra, di vedere arrivare tutti insieme i grandi film americani bloccati per anni dal regime. Ma in materia di cinema, mio zio era il mio mentore. La sua stanza, piena di libri sui grandi registi della Hollywood degli anni d’oro come Alfred Hitchcock, biografie di attori e dizionari illustrati sui generi cinematografici, era per me il paese dei balocchi. Fu proprio lui a mettermi al corrente, intorno al 1988, che in America si stava girando un grande film ispirato ai fumetti di Batman. In quegli anni, i fumetti di supereroi in Italia stavano vivendo una rinascita, dopo anni di oblio. Il fallimento dell'Editoriale Corno nel 1984, che per quasi tre lustri aveva pubblicato i fumetti Marvel nel nostro paese, aveva gettato i lettori di comics dell’epoca nello sconforto, compreso il sottoscritto. Per placare la sete di fumetti di supereroi, in anni in cui internet non esisteva, si cercavano arretrati nelle librerie che trattavano materiale usato, si mendicavano le rese delle edicole o si acquistavano albi in lingua originale, che mettevano a dura prova una ancora stentata conoscenza dell’inglese, nelle primissime fumetterie delle grandi città. Poi, improvvisamente, un nuovo inizio. Dopo un effimero tentativo della Labor Comics, nel 1987 la Star Comics di Perugia si assunse l’onere e l’onore di riportare i supereroi americani nelle edicole nostrane, a partire dall’Uomo Ragno. Gli anni di assenza dal nostro paese avevano prodotto un notevole gap temporale tra le storie proposte da noi e quelle in corso di pubblicazione in USA, così in Italia nel 1987 si leggevano storie di fine anni ’70 – primi anni ’80. Ma era materiale destinato a lasciare il segno sulla nostra generazione. In un sol colpo, arrivarono cicli leggendari e memorabili come gli X-Men di Chris Claremont e John Byrne e il Daredevil di Frank Miller. Noi che avevamo scoperto i supereroi da bambini con gli ultimi vagiti della Corno, eravamo ormai degli adolescenti ammaliati dalla bellezza dei disegni di Byrne, dalle trame labirintiche di Claremont, dai noir urbani di Miller. Col cuore a pezzi eravamo testimoni del sacrificio di Jean Grey sulla luna, e della morte di Elektra in una strada sudicia, assassinata da Bullseye. Eravamo diventati adulti.

E Batman? Rispetto alla Marvel, la DC ha sempre avuto una storia editoriale travagliata in Italia. Avevo scoperto il Cavaliere Oscuro da piccolo, negli albi di formato ridotto delle Edizioni Cenisio, il licenziatario italiano per i personaggi DC tra gli anni ’70 e i primi anni ’80. Erano storie disegnate da Jim Aparo, un artista sottovalutato che ha dedicato quasi tutta la carriera al personaggio, riprendendone il look atletico imposto da Neal Adams pochi anni prima. Mi piacevano in particolare le storie tratte dalla testata USA The Brave and the Bold, dove di numero in numero Batman era protagonista di gustosi team-up con gli altri personaggi DC. Erano storie più semplici di quelle Marvel che, anche ad un bambino della mia età, sembravano più moderne e al passo con i tempi. Però Batman aveva un fascino che nessun altro personaggio aveva. In particolare, empatizzavo con lui per via delle sue dolorose origini. Essendo molto legato ai miei genitori, soffrivo terribilmente all’idea di poterli perdere in modo violento. Anche per questo provavo un senso di straniamento davanti alle repliche della celeberrima serie tv che durante gli anni della mia infanzia impazzavano sulle reti tv private: cosa c’era tanto da ridere? Quest’uomo aveva avuto la vita rovinata da un dramma personale. Ero affascinato dalla sua figura di vendicatore notturno, quasi soprannaturale, avvolto nel suo mantello. Un regalo molto gradito, all’epoca, fu un volume con una miscellanea di storie di Batman dalle origini fino agli anni ’70. Potei così fare conoscenza con i grandi autori del personaggio di quel periodo come Denny O’Neil, Neal Adams, Frank Robbins e Irv Novick. Come la Corno, anzi prima della Corno, anche la Cenisio fallì e i personaggi DC furono risucchiati dallo stesso limbo di quelli Marvel. Ma a differenza di questi, avrebbero dovuto aspettare più tempo per tornare nelle edicole italiane. Di Batman e Superman non ebbi notizie per anni.

Un giorno, leggendo le note di un albo Star Comics, venni a sapere che il prestigioso editore Rizzoli aveva già da mesi acquistato i diritti dei due principali personaggi DC per pubblicarli sulla sua rivista antologica di fumetti d’autore Corto Maltese. In particolare, era in corso di pubblicazione la rivoluzionaria Batman: The Dark Knight Returns di cui avevo tanto sentito parlare nei redazionali degli albi dei vari editori, realizzato da quel Frank Miller che tanto apprezzavo su Daredevil. Tra i due lavori erano passati svariati anni, e senza internet a darmi conforto con le immagini, cercavo di immaginare la versione milleriana del Cavaliere Oscuro. Chiesi una copia di Corto Maltese al mio edicolante. Quella che mi ritrovai per le mani era una bellissima rivista patinata, di grande formato, dal taglio autoriale. Mi trovai davanti a lavori di nomi prestigiosi che col tempo avrei imparato ad apprezzare: Hugo Pratt, Milo Manara, Sergio Toppi, Andrea Pazienza, Dino Battaglia tra gli altri. In allegato, al centro della rivista, un inserto di piccolo formato con le avventure di Superman firmate dal John Byrne che avevo adorato su X-Men e di cui leggevo ogni mese gli splendidi Fantastici Quattro. In appendice, era serializzato uno strano fumetto che non capivo appieno perché ne avevo perso l’inizio, come uno che entra in sala a film iniziato: si chiamava Watchmen. Ma di Batman nessuna traccia. Compresi in seguito che la Rizzoli aveva impiegato addirittura un anno e mezzo per pubblicare i quattro capitoli di Dark Knight Returns. Si trattava del piatto forte della rivista e l’editore voleva diluirlo il più possibile.

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Un giorno d’estate del 1989, recandomi in edicola ad acquistare un quotidiano, mi trovai davanti ad un’immagine che mi lasciò a bocca aperta. Alle spalle dell’edicolante, tra riviste di viaggi e di critica letteraria come Millelibri, campeggiava in bella vista il numero del mese di Corto Maltese. Il frontespizio recitava: “Batman – La caduta del Cavaliere Oscuro”. In copertina un Batman appesantito, in là con gli anni, in sella ad un destriero nero come Clint Eastwood in un western di Sergio Leone, sembrava arringare una folla. Feci immediatamente mia la rivista. All’interno, era ospitato l’ultimo capitolo de Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Niente avrebbe potuto prepararmi ai livelli di epicità fuori scala di cui quelle pagine erano impregnate. Questo non era il Batman delle mie letture infantili. Era migliore. Era tutto quello che il personaggio conteneva in nuce, ma elevato all’ennesima potenza. Un Batman invecchiato ed imbolsito che ritorna da un ritiro durato 10 anni, disgustato dalla deriva di una Gotham degradata e violenta, che si ritrova a dichiarare guerra all’ordine precostituito e al governo stesso. Fu leggendo quelle pagine che capii che i comics erano cresciuti con me, e che ero testimone della loro era più splendente. Era bello essere un lettore di fumetti americani nell’estate del 1989. Sembrava un’estate come tante della mia gioventù, trascorse nella casa al mare di famiglia. Estati che sembravano infinite, passate a scorrazzare in bicicletta con gli amici o a frequentare le sale giochi come i ragazzini di Stranger Things.

I mesi estivi di quell’anno, però, li ricordo per l’attesa spasmodica dell’uscita italiana di Batman, prevista per il 20 ottobre. Ricordo le prime foto del film, uscite sul numero di agosto della rivista di cinema Ciak, che mi fecero andare in visibilio. Una sera in cui avevo fatto tardi guardando una puntata del “Costanzo Show”, scoprii per puro caso che dopo la trasmissione venivano trasmessi i trailer dei film in uscita nella nuova stagione. E il primo della sequenza era proprio quello di Batman. L’attacco del filmato era da restare secchi: il Cavaliere Oscuro, alla guida del Batwing, girava intorno ad una torre dallo stile assurdamente gotico per poi gettarsi all’attacco del Joker. C’erano Jack Nicholson, Michael Keaton e Kim Basinger in tutto lo splendore della sua giovinezza. La Batmobile aveva un design da urlo. Era il mondo dei miei sogni di lettore che diventava realtà, dark e cupo come l’umore e l’irrequietezza dei tredicenni che eravamo. Inutile dire che, dopo quella sera, il rito notturno estivo fu quello di aspettare quel trailer che veniva replicato tutte le notti intorno all’una. D’altronde, per Youtube e le sue infinite visualizzazioni avremmo dovuto aspettare ancora molti anni. L'estate del 1989 fu scandita dal ritmo della Batdance di Prince, il cui strepitoso concept album Batman era presenza fissa nello stereo dell'automobile di mio padre, per la sua disperazione. Ricordo l'irresistibile video, in cui il folletto di Minneapolis sembrava divertirsi un mondo, lanciato in anteprima a Deejay Television dal nuovo conduttore della versione estiva della trasmissione, un certo Fiorello.

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Intanto, una dilagante Bat-Mania impazzava per il pianeta. Era impossibile non incontrare qualcuno per strada che non esibisse il bat-logo su una maglietta, una felpa, un cappellino. E ancora tazze, zaini scolastici, diari, quaderni e gadget di qualsiasi tipo. Questo sfruttamento intensivo del merchandising, che oggi costituisce la norma, nasce proprio nel 1989 con Batman. La prima volta che vidi il manifesto del film su un cartellone pubblicitario di dimensioni giganti non potevo credere ai miei occhi. Oggi i supereroi fanno ormai parte della cultura popolare, ma all'epoca avevano compiuto solo sporadiche sortite fuori dal confine angusto dei loro albi in quadricromia. Adesso, davanti ai miei occhi, cominciavano ad invadere il mondo reale. Ricordo uno speciale televisivo, condotto da Red Ronnie e dal compianto Bonvi, in cui vennero mostrate in anteprima sequenze del film alternate ad immagini di Dark Knight, Killing Joke e altri classici del canone batmaniano. I fumetti sbarcavano in televisione, per la prima volta dai tempi di Supergulp, ma venivano trattati con un taglio adulto.

E poi, all’improvviso, arrivò l'autunno e quel 20 ottobre, il giorno della prima di Batman. Mio zio, che condivideva la mia stessa emozione, si offrì di accompagnarmi. Non molto tempo fa, ricordando quel giorno, mi disse che fu in quell'occasione che diventammo più di uno zio e di un nipote: diventammo amici. Fu proprio così. L’anno prima avevamo visto insieme anche Beetlejuice, il nostro primo incontro con l’arte visionaria di Tim Burton, un tipo che stava al cinema degli anni ’80 come la malinconia degli Smiths di Morrissey e la gioiosa tristezza dei Cure di Robert Smith stavano alla musica sguaiata dello stesso decennio. Ricordo l’arrivo al cinema Cola Di Rienzo, la sala del mio quartiere che proiettava il film. Le due vetrine ai lati dell’ingresso principale contenevano una locandina ciascuna del film, con due enormi bat-loghi. Non potevo essere più emozionato. Ci accomodammo in sala e la luce si spense.

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La fanfara di Danny Elfman si preparava subito ad avvolgerci, mentre il logo della Warner Bros si dissolveva. Subito dopo la telecamera iniziava una discesa verso un labirinto oscuro che, alla fine, si scopriva essere il segno di Batman. Come negli ipnotici titoli di testa de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcok, Burton ci accompagnava per mano in un mondo onirico. In questo caso, la Gotham City immaginata da lui e dal compianto scenografo Anton Furst, un gioiello di design gotico che fornì il set indispensabile allo scontro tra Batman e il Joker. La scelta di Keaton nel ruolo principale aveva suscitato molte polemiche in patria, ma io ne apprezzai subito l'interpretazione volutamente sotto le righe, anche se finì per farsi rubare la scena dallo straripante Jack Nicholson. Il film era tutto quello che avevo sperato che fosse. Ne amavo ogni aspetto, l'ambientazione fuori dal tempo voluta da Burton soprattutto. Aveva un look da noir anni '40 per quanto riguardava i vestiti, ma i gadget tecnologici di Batman sembravano venire da un futuro possibile. La Gotham City di Furst, poi, era un'opera d'arte indimenticabile, una sintesi conflittuale di stili diversi che richiamava l'espressionismo tedesco e capolavori come Metropolis. Ancora oggi, il film rimane un’esperienza visivamente immersiva ed insuperata. Molti fanno notare la mancanza di coerenza di alcuni punti della sceneggiatura, dovuti soprattutto alle molte riscritture che vennero fatte da diverse mani durante le riprese. Mi sento di dire che nel caso del Batman di Burton, la cosa riveste un’importanza relativa. Perché il Joker sceglie un piano di fuga elaborato come farsi prelevare da un elicottero in cima ad una cattedrale alta centinaia di metri, quando potrebbe semplicemente darsela a gambe per le strade di Gotham? Perché questo dà l’occasione al regista di costruire un inseguimento mozzafiato per le scale del campanile, citando volutamente tra l’altro proprio La donna che visse due volte di Alfred Hitchcok. La sospensione dell’incredulità viaggia di pari passo con la magia del cinema.

La partitura di Danny Elfman per il film divenne iconica, al pari di quella scritta da John Williams per il Superman di Richard Donner. Ancora oggi penso che sia uno dei migliori spartiti mai scritti per il cinema e che sia uno scandalo che non abbia vinto l'Oscar, come successo invece per le incredibili scenografie di Furst. Nei giorni successivi alla visione del film acquistai una copia della colonna sonora strumentale di Elfman, come avevo fatto un paio di mesi prima per l'album di Prince. Inserivo nel mio walkman tanto il Batman Theme di uno quanto The Future e Vicki Waiting dell'altro e me ne andavo in giro per le strade del quartiere illuminate da vecchi lampioni dalla luce soffusa immaginando di essere a Gotham.
Quel pomeriggio del 20 ottobre 1989 uscii dal cinema Cola di Rienzo felicissimo per aver visto il film che tanto avevo desiderato, ma anche triste perché sapevo già che difficilmente avrei assistito, negli anni successivi, a un progetto epocale come quello. Perché Batman è stato il film che ha dato prestigio e rispetto al genere degli adattamenti cinematografici dei fumetti, sconfiggendo i pregiudizi e la diffidenza che avevano confinato il genere al triste settore dei b-movies, preparando allo stesso tempo la strada ai cinecomic moderni. Fu qualcosa che all’epoca non si era mai visto prima. La visione artistica di Tim Burton, Anton Furst e degli altri creativi coinvolti ci ha regalato un’opera in cui ci si addentra rimanendone avvolti e catturati, oggi come ieri.

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Quando rivedo il film riprovo le stesse emozioni di quel pomeriggio di trent’anni fa, anche se intorno a me è tutto cambiato. Come un Bruce Wayne legato alla sua Gotham, o un Matt Murdock alla sua Hell’s Kitchen, ogni tanto torno a passeggiare nel quartiere dove sono nato e cresciuto, arrivando fino alla sua arteria principale, in cui una volta c’era un cinema col suo stesso nome. Da qualche anno il Cola Di Rienzo non c’è più, e una sala bingo ha preso il suo posto. Quando ci passo davanti, non posso fare a meno di ripensare all’emozione di quel giorno, e di rivedere tutto com’era. Mi vedo ancora entrare in sala, per immergermi nel mondo dei miei sogni. In un certo senso, non ne sono mai più uscito.

Speciale Batman '89: Parte III - L'avant - garde della nuova estetica

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Parte I - Parte II

Tim Burton cominciò a lavorare al film mentre girava Beetlejuice – Spiritello Porcello, commedia soprannaturale con venature horror che confermò il suo gusto per l’umorismo nero e per i personaggi stravaganti. Nei piani della Warner, la pellicola doveva essere una sorta di esame di maturità per il giovane regista prima di affrontare le riprese di Batman e avrebbe dovuto fornire allo studio la prova della bontà della scelta fatta. Prima di iniziare davvero a lavorare sul film, Burton dovette sbarazzarsi delle tracce lasciate da chi aveva lavorato al film prima del suo arrivo. Prima tra tutte, la sceneggiatura di Tom Mankiewicz. Il suo script di Batman prendeva in prestito la struttura con cui aveva realizzato, anni prima, la sceneggiatura del Superman di Richard Donner. I genitori di Bruce Wayne morivano durante la seconda scena, dopodiché il film si sarebbe concentrato sull’allenamento fisico e mentale necessario per trasformare il giovane Bruce in Batman. La seconda parte della pellicola avrebbe visto Bruce coinvolto in un triangolo amoroso con la bella Silver St. Cloud e il gangster Rupert Thorne, responsabile della morte dei suoi genitori, che si sarebbe servito del Joker come arma contro il Cavaliere Oscuro. La storia concepita da Mankiewicz era una origin story piuttosto standard, simile per struttura a molti cinecomic che sarebbero stati girati in seguito, ma lontana anni luce dalla visione di Burton. Il copione doveva essere completamente riscritto. Serviva un autore che condividesse la stessa visione del filmaker.

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Fu Bonni Lee a presentare a Burton Sam Hamm, un giovane sceneggiatore che finora aveva venduto una sola sceneggiatura, quella di Mai gridare al lupo (1983). Hamm aveva saputo che la Warner stava lavorando a Batman, e aveva pregato per mesi la Lee di dargli la chance di adattare il mito del Cavaliere Oscuro per il grande schermo. La sintonia fra Burton e Hamm fu immediata e totale. Grazie al lavoro del duo, Batman si trasformò dalla origin story prevista inizialmente alla storia di una leggenda urbana di cui tutta Gotham parla, una creatura della notte che perseguita i criminali, come nella visione di partenza di Uslan. Inoltre, Hamm sostituì i personaggi di Silver St. Cloud e Rupert Thorne, che provenivano dalla run fumettistica di Steve Englehart e Marshall Rogers, rispettivamente con Vicki Vale, giornalista e vecchia fiamma di Bruce Wayne nei fumetti, e Carl Grissom, boss mafioso di sua creazione. Nella prima pagina del nuovo script, Gotham City veniva descritta come “se l’inferno fosse sbucato fuori dal terreno e continuasse a proliferare”. Per visualizzare sullo schermo l’efficace descrizione di Gotham proposta nella sceneggiatura di Hamm, Burton chiese ed ottenne la collaborazione di uno scenografo che stimava molto e che aveva sperato di coinvolgere senza successo in Beetlejuice: Anton Furst.

Furst era, oltre che un rinomato scenografo, uno studioso ed esperto di design, con una vasta conoscenza di stili architettonici internazionali. Burton gli spiegò che, nella sua visione, Gotham era essenzialmente una New York cresciuta senza alcun piano regolatore, con ammassi di edifici stipati e costruiti in verticale. Furst era sulla stessa lunghezza d’onda del regista. Seguendo le sue indicazioni, optò per un mash-up conflittuale di stili, ispirato tanto al futurismo post-moderno dell’architetto giapponese Shin Takamatsu quanto all’espressionismo tedesco e all’opera del tedesco Albert Speer, architetto del Reich: il tutto con una spruzzata retrò della New York decò anni ’40. La giustapposizione di questi stili faceva si che gli elementi fossero pressati nello spazio per farli sembrare opprimenti. L’idea di Burton e Furst era quella di creare per i personaggi di Batman un universo che fosse tutto loro, convinti che quello che non aveva funzionato nel Superman di Donner era stata la scelta di girare gli esterni nella vera New York. Nella concezione del duo, i personaggi del film erano così estremi che avevano bisogno di un ambiente costruito appositamente per loro. Questa Gotham era un luogo dove una creatura della notte come Batman e una inarrestabile forza del caos come il Joker potevano avere un senso. Un posto oscuro, violento e senza tempo. Un misto di passato, presente e futuro concepito in modo che nessuno potesse stabilire l’epoca in cui il film fosse ambientato. Come risultato di questa felice scelta creativa, il film è visivamente intrigante ancora oggi ed è, come la sua Gotham, senza tempo. Il contributo di Anton Furst a Batman sarà determinante per la riuscita del film, secondo solo a quello di Burton, e la sua versione di Gotham City diventerà talmente iconica da influenzare addirittura il fumetto di provenienza. Benjamin Melkiner confiderà a Micheal Uslan che di fronte alla Gotham di Furst anche il monumentale set di Ben-Hur, da lui prodotto, sarebbe impallidito. Il look impresso dallo scenografo inglese alla pellicola avrebbe ispirato lo stile dark decò, utilizzato da Bruce Timm e Paul Dini per la splendida Batman: The Animated Series, capolavoro d’animazione trasmesso a partire dal 1992 che continuerà il discorso stilistico iniziato dalla pellicola di Burton.
Potete vedere alcune immagini nella gallery in basso.

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Grazie al contributo di Furst, Gotham diventò a tutti gli effetti un “personaggio” del film. A questo punto bisognava trovare un Batman credibile. Negli anni precedenti all’arrivo di Burton, erano stati considerati per il ruolo tutti i principali attori del periodo, soprattutto star di film d’azione: Harrison Ford, Tom Selleck, Kevin Costner e Dennis Quaid. A un certo punto, Mel Gibson fu molto vicino ad ottenere la parte. Ma Burton non era d’accordo. Nella sua visione, non c’era un solo motivo al mondo per cui una nerboruta star d’azione, con un fisico alla Stallone o alla Schwarzenegger, avrebbe dovuto mettersi un costume da pipistrello. Serviva qualcuno che potesse trasmettere al pubblico solamente con lo sguardo la sensazione di essere un uomo segnato da una tragedia. Un uomo che, per dirla con le parole del regista, “avesse negli occhi l’energia selvaggia di uno che è costretto a indossare un vestito da pipistrello. L’idea è che se avesse trovato un buon analista non si sarebbe mai travestito da pipistrello. Non l’ha trovato, quindi è questa la sua terapia”. La scelta di Burton cadde sulla star della sua ultima fatica, Beetlejuice, un attore fino a quel momento conosciuto dal grande pubblico soprattutto per le sue doti di commediante: Micheal Keaton. Ma appena la Warner annunciò che la star di Mister Mamma, Night Shift – Turno di notte e Gung-Ho avrebbe interpretato Batman, gli appassionati del fumetto reagirono scandalizzati. Lo studio venne inondato da cinquantamila lettere di protesta. Esattamente quello che accadde quasi trent’anni dopo col casting di Ben Affleck prima e Robert Pattinson dopo, ma senza che ci fossero internet o i social a veicolare gli umori negativi del pubblico. Il caso montò come la panna, tanto che il prestigioso Wall Street Journal dedicò un articolo in prima pagina alla vicenda. Le azioni della Warner subirono un tracollo. I fan temevano che il coinvolgimento di Keaton comportasse una sterzata del progetto verso un tono comico e farsesco. In breve, un ritorno alle atmosfere della serie tv.

Tra i fan atterriti dalla scelta c’era anche Micheal Uslan. Proprio quando tutte le tessere del mosaico sembravano mettersi a posto, il produttore non riusciva ad accettare la scelta di Keaton. Troppo grande era la paura che il suo desiderio di vedere un Batman finalmente dark sullo schermo venisse compromesso. Ma Burton lo rassicurò invitandolo alla proiezione di un montaggio preliminare di Fuori dal tunnel (Clean and Sober), un film drammatico non ancora uscito in cui Keaton interpretava un agente immobiliare alle prese con l’abuso di sostanze, una deviazione dalle commedie per cui l’attore era conosciuto in precedenza. Dopo aver visto la prova notevole di Keaton in questo film, Uslan si convinse delle eccellenti doti interpretative dell’attore. Burton spiegò al produttore che la chiave per interpretare Batman non era una mascella quadrata, ma fornire una versione credibile di Bruce Wayne: Wayne era la chiave del film, non il suo alter-ego. Un uomo talmente ossessionato da essere quasi psicotico, compulsivo nel suo bisogno di uscire di notte vestito da pipistrello e picchiare i criminali. Un uomo terrorizzato dalla possibilità di essere salvato dall’amore di Vicki Vale, che potrebbe distrarlo dalla sua missione. Un uomo che nasconde un segreto, la cui origine è limitata ad un breve flashback. Keaton chiese e ottenne inoltre che alcune battute del personaggio fossero tagliate per aumentare l’aura di mistero intorno al personaggio. Quando il film uscì, tutti dovettero ricredersi dei pregiudizi iniziali e amarono la performance dell’attore. Il Bruce Wayne assorto e pensieroso di Micheal Keaton è oggi considerato un classico.

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La Warner aspettava di poter valutare l’esito commerciale di Beetlejuice prima di dare il semaforo verde alle riprese di Batman. Una volta assicuratosi del successo della pellicola, lo studio diede l’ok al sospirato lungometraggio sul Cavaliere Oscuro. Ma gli studi Warner di Burbank non potevano ospitare l’enorme set di Gotham City costruito da Anton Furst e dai suoi collaboratori. Jon Peters e Peter Guber scelsero quindi di trasferire la troupe in Inghilterra, presso gli studi Pinewood, per due motivi: risparmiare sui costi grazie ad una minore tassazione e, soprattutto, allontanarsi dalla pressione e dalle aspettative da cui il film era circondato. Le riprese iniziarono ufficialmente nell’ottobre del 1988 e si protrassero fino al gennaio successivo. Tim Burton, che aveva solo 30 anni e due piccoli film all’attivo, si trovava a gestire uno dei budget più ingenti forniti adun regista nella storia del cinema e un progetto complesso e ambizioso da traghettare in porto.

Le riprese non furono esenti da difficoltà. Il copione aveva bisogno di continue correzioni, ma uno sciopero del sindacato degli sceneggiatori a cui apparteneva bloccò Sam Hamm in USA, impedendogli di partecipare alla riprese. Le integrazioni necessarie vennero effettuate da Warren Skaaren e Charles McKeown, che approfondirono lo spessore psicologico di Bruce Wayne ma si lasciarono andare ad alcune "licenze poetiche", vedi il ruolo del Joker nella morte dei coniugi Wayne. A pochi giorni dall’inizio delle riprese Sean Young, scelta per la parte di Vicki Vale, cadde da cavallo e si ruppe una gamba. In quella che fu una provvidenziale e azzeccatissima scelta di casting, una delle più grandi dive del decennio, Kim Basinger, venne chiamata per sostituirla. L’attrice accettò dall’oggi al domani, volando immediatamente a Londra. La Basinger conferì al suo personaggio, oltre alla sua straordinaria bellezza, sensualità, fascino e carisma. Il cast fu completato da Billy Dee Williams (Harvey Dent), Pat Hingle (Jim Gordon), Micheal Gough (Alfred), Robert Wuhl (Alexander Knox) e Jack Palance (Carl Grissom).

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Le condizioni di lavoro sul set furono particolarmente probanti. Per conferire al film l’aspetto notturno desiderato dall’autore e dalla produzione, si girò di notte per tre mesi, nel freddo inverno inglese, e per tutto il tempo la troupe non vide mai la luce del sole. Al costumista Bob Ringwood toccò il compito di ridisegnare il costume di Batman, in modo che risultasse credibile nonostante fosse indossato da un attore dal fisico ordinario come Keaton. Il blu venne trasformato in nero e vennero aggiunte delle fasce muscolari nella zona addominale. Il cambiamento venne contestato dai fan, ma ironicamente il Batman dei fumetti avrebbe adottato lo stesso look a metà degli anni ’90, quando Bruce Wayne tornò a vestire i panni del Cavaliere Oscuro dopo l’esilio forzato a seguito della saga Knightfall. Nessuno ebbe invece nulla da dire sull’aspetto della Batmobile, concepito con il suo consueto gusto art decò da Anton Furst e costruita da Julian Caldow e dal suo team, utilizzando come base una Chrevrolet Impala sulla quale vennero montate delle mitragliatrici Browning.

Intanto, sul set, non tutto filava per il verso giusto. Leggendarie furono le intemperanze di Jon Peters, che Burton riuscì a contenere con l’abilità di un veterano. Tra le tante obiezioni di Peters, una riguardava il compositore scelto dal regista per scrivere la colonna sonora, Danny Elfman, leader del gruppo Oingo Boingo alla sua terza collaborazione con Burton. Le perplessità del produttore svanirono quando Burton lo invitò ad ascoltare, in diretta, l’orchestra che eseguiva la “marcia” di Batman diretta da Elfman. Secondo i presenti, Peters scoppiò a piangere commosso e col suo cellulare chiamò i dirigenti della Warner in USA per fargli ascoltare quello che sarebbe diventato uno dei più iconici commenti musicali cinematografici di tutti i tempi. La sinfonia composta da Elfman era insieme misteriosa, eroica, cupa, avventurosa, commovente e lirica. Il contributo del musicista si rivelerà determinante per la riuscita del film. Peters volle raccogliere tutta la musica scritta da Elfman per il film in un album che riscosse un enorme successo. Ma un altro musicista, una delle icone musicali del periodo, contribuì con entusiasmo alla pellicola: Prince.

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Il caso volle che Mark Canton, uno dei produttori associati del film, fosse stato anche il produttore di Purple Rain e pensasse che coinvolgere Prince sarebbe stata una grande mossa commerciale. La Warner, che aveva il musicista sotto contratto, fu entusiasta dell’idea. Meno entusiasta fu Burton, che aveva paura di penalizzare la musica di Elfman; oltretutto il regista voleva realizzare una pellicola non facilmente connotabile in un’epoca precisa e temeva che la presenza delle canzoni di Prince avrebbe causato proprio questo. Ma il dado era ormai tratto: il folletto di Minneapolis, dopo una visita entusiastica al set londinese, si mise al lavoro gettandosi a capofitto nell’atmosfera di Gotham City. Il risultato fu un concept-album di straordinario successo, intitolato semplicemente Batman. Batdance, il singolo di lancio, esplose come una bomba nell’estate dell’89. Nel video, Prince interpretava Gemini, un personaggio di sua creazione, un essere per metà Batman e metà Joker. Burton inserì alcune delle canzoni dell’album nel film, per la gioia della Warner Bros. che vendette milioni di copie di questo secondo LP associato al film.

Il regista riuscì a portare a termine la lavorazione del film, nonostante alcune divergenze creative con la produzione che lo amareggeranno e lo spingeranno a riprendere la strada di Gotham con Batman – Il Ritorno del 1992, una pellicola ancora più dark e pessimista del prototipo ma più vicina alla sensibilità del suo autore.
Batman uscì negli Stati Uniti il 23 giugno 1989, ottenendo un successo clamoroso. Divenne il primo film a superare la barriera dei 100 milioni di dollari nei primi 10 giorni di programmazione. Fu il maggior incasso del 1989, raccogliendo oltre 500 milioni di dollari in tutto il mondo, e il maggior successo in assoluto nella storia della Warner Bros., oltre che un fenomeno culturale multimediale e di merchandising quale mai si era visto prima. Il pianeta venne travolto da una Bat-mania dilagante. Nelle strade delle maggiori città era impossibile non incrociare persone con addosso magliette, felpe e cappellini con il logo di Batman. Ovunque si ascoltava tanto il commento musicale di Elfman quanto le canzoni di Prince. Michael Uslan raccontò di aver capito quanto il film fosse penetrato nella cultura popolare quando, assistendo in tv ad un servizio sulla caduta del Muro di Berlino, vide che uno dei ragazzi festanti che si erano arrampicati in cima al muro indossava un cappellino col Bat-logo.

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Il successo commerciale della pellicola era fuori discussione, ma quello che rendeva più felici gli autori era che la visione artistica di Tim Burton, Anton Furst, Danny Elfman e di Michael Uslan, col quale tutto era cominciato, non solo era stata accettata con entusiasmo ma era diventata il nuovo standard nel ritrarre il Cavaliere Oscuro e il suo mondo. Uslan aveva realizzato il suo sogno: per tutti, adesso, Batman era la creatura della notte, un raddrizzatore di torti che perseguita i criminali, in un contesto urbano dark e tenebroso. Il “Bat-Tusi” era ormai lontano, sepolto nell’album dei ricordi.

Batman lanciò definitivamente la carriera di Tim Burton, che divenne uno dei più grandi registi americani dei nostri tempi, anche se l’Academy non ha mai concesso un meritato riconoscimento al suo genio. Col passare degli anni, la critica europea lo ha invece inserito tra i più grandi maestri della nostra epoca, tributandogli premi come il Davide di Donatello alla carriera.
Anton Furst venne invece insignito dell’Oscar per la strepitosa scenografia di Batman, mentre Peter Young vinse quello come set designer. Furst, artista di grande sensibilità, si tolse purtroppo la vita nel 1991, a 47 anni, gettandosi dall'ottavo piano di un palazzo di Los Angeles. Il suo lavoro e il suo talento non saranno mai dimenticati.
Danny Elfman è ancora oggi il compositore prediletto di Tim Burton, di cui ha musicato quasi tutte le pellicole, formando un binomio indissolubile al pari di quelli storici tra Alfred Hitchcok e Bernard Herrmann, Steven Spielberg e John Williams.
Benjamin Melkiner, il “Leone di Hollywood”, come veniva chiamato durante i suoi anni d’oro alla MGM, si è spento nel 2018 alla venerabile età di 105 anni.
Jon Peters e Peter Guber hanno continuato la loro carriera di produttori di successo, senza però raggiungere mai più i fasti di Batman.

Michael E. Uslan è stato accreditato come produttore esecutivo di tutti i film del franchise di Batman dal 1989 ad oggi, compreso il recentissimo Joker. È possibile incontrarlo in tutte le maggiori convention degli USA, dove parla con piacere dell’interpretazione monumentale di Joaquin Phoenix nel film sul Principe Pagliaccio del Crimine e, con orgoglio e malinconia, della realizzazione del Batman del 1989. Ma quello che conta di più è che Michael è ancora oggi il ragazzino che si chiudeva in camera a leggere i suoi fumetti preferiti: è ancora the boy who loved Batman. La dedizione con cui ha lavorato tutta la vita alla realizzazione del suo sogno, facendo allo stesso tempo ai lettori di comics dell’epoca il più grande regalo che avessero mai ricevuto, sarà riconosciuta e celebrata per sempre.

Il Batman del 1989 compie trent’anni e da allora molti film tratti dai fumetti sono arrivati sullo schermo, compresi alcuni di notevole qualità. Ma nessuno di questi ha segnato la cultura popolare come il film di Tim Burton che cambiò per sempre la percezione che il pubblico aveva dei film tratti dai fumetti, conferendogli dignità artistica, rispetto e prestigio e preparando il terreno per tutto quello che sarebbe arrivato dopo. Per la lunga e travagliata strada che ha portato alla sua realizzazione, la qualità dei creativi coinvolti, le innovazioni portate al genere, le attese suscitate e l’esito artistico finale, è possibile dire che non c’è più stato un film come Batman e mai più potrà esserci.

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Speciale Batman '89: Parte II - Tu danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?

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Il nuovo decennio si apriva con la ricerca di uno studio da parte di Benjamin Melkiner e Michael Uslan. La Warner Bros., consorella della DC nel consorzio Warner Communications (il futuro gruppo Time-Warner), non volle leggere neanche il pitch di Michael. La United Artists, seconda scelta del duo, si rifiutò di produrre il film con una risposta delirante: una pellicola con “Robin” nel titolo, il Robin e Marian di Richard Lester, che parlava però degli ultimi anni di vita di Robin Hood e non aveva nulla a che fare con cavalieri oscuri e affini, era stato un fiasco e sicuramente lo sarebbe stato anche Batman. La coppia ricevette altri rifiuti con motivazioni altrettanto surreali da tutti gli altri studios di Hollywood. Finché Melkiner non calò l’asso. Si ricordò di un giovane promettente che aveva assunto durante il suo ultimo periodo alla MGM, e che aveva fatto carriera arrivando a diventare vice-presidente della Columbia: Peter Guber. Successivamente aveva lasciato lo studio e aveva fondato un’etichetta musicale che andava per la maggiore, la Casablanca Records. Ben aveva raccolto voci nell’ambiente secondo cui la Casablanca stava per associarsi con un’altra etichetta, la Polygram, per lanciarsi nella produzione cinematografica. Il target giovanile assicurato dalla Casablanca sembrava l’ideale per Batman. Ben e Mike combinarono un appuntamento con Guber, e il feeling fu immediato: il produttore si entusiasmò per il progetto, accettando la proposta di Melkiner e Uslan di aiutarli nella realizzazione del film. Le cose sembravano aver preso la piega giusta, tanto che alla New York Comic-Con del 1980, in un panel presentato insieme al nuovo redattore capo della DC, Jenette Kahn, Mike annunciò tra gli applausi del pubblico festante la prossima realizzazione e uscita del film dedicato a Batman, ricevendo la benedizione di Bob Kane in persona. Ma Uslan non sapeva che la strada verso Gotham sarebbe stata ancora lunga.

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Peter Guber stava portando avanti la trattativa per i diritti di distribuzione di Batman con la Universal, potendo vantare un’amicizia col capo produzione dello studio. Ma sul più bello, il dirigente lasciò la Universal per accasarsi alla oggi defunta Filmways, con la promessa che le trattative sarebbero riprese col nuovo studio. Quando la Filmways venne acquistata dalla Orion Pictures, per nulla interessata al progetto, la trattativa si arenò definitivamente. Micheal Uslan faticava ad incassare il colpo. Il suo sogno di un film cupo e gotico di Batman stava per svanire in un nulla di fatto.

Melkiner ed Uslan acquistarono i diritti di Batman il 3 ottobre 1979 e il film uscì negli USA il 23 giugno 1989. I dieci anni che intercorsero tra queste due date videro Mike alle prese con difficili situazioni familiari. La vita non restava ferma, aspettando che Batman venisse realizzato. Durante questo periodo, il produttore perse la madre a causa di un terribile male, e oltre alla felicità per la nascita del figlio David e la figlia Sarah, conobbe anche l’indicibile dolore per la morte improvvisa di un’altra figlia, nata da pochi mesi. Nonostante le difficoltà e quando tutto avrebbe suggerito di desistere, Uslan decise di giocare il tutto per tutto per realizzare il suo sogno. Proprio quando la moglie stava per partorire il primo figlio, decise di licenziarsi dal posto sicuro che ricopriva all’ufficio legale della United Artists, che garantiva tra l’altro a lui e alla sua famiglia l’assistenza medica, per poter lavorare a tempo pieno a Batman. Non fu una scelta facile, ma valeva il motto "ora o mai più".

Intanto i meeting creativi andavano avanti, e personalità di un certo spessore entravano e uscivano dal progetto. Tom Mankiewicz, sceneggiatore di Agente 007: Vivi e lascia morire ma soprattutto del Superman di Richard Donner, scrisse una prima stesura della sceneggiatura. Joe Dante, regista di Gremlins e di Piranha che era stata una delle prime produzioni di Uslan, venne considerato per la regia. E siccome ci trovavamo nei bizzarri anni ’80 e, nonostante gli sforzi del produttore, Batman aveva ancora fama di essere un prodotto camp, vennero considerati Bill Murray per il ruolo del Cavaliere Oscuro ed Eddie Murphy per il ruolo di Robin. Fortunatamente ci sono dei momenti della vita in cui la provvidenza aiuta i coraggiosi e il Dio-Cinema, che fino a quel momento non si era mostrato particolarmente interessato agli sforzi di Micheal Uslan, decise di intervenire in maniera risoluta. E quell’intervento assunse le sembianze del produttore Jon Peters.

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Figlio di una parrucchiera (la madre possedeva un rinomato salone di bellezza a Rodeo Drive, Hollywood), da giovane Peters si esercitò nell’attività di famiglia. Fu così che strinse amicizie importanti nell’ambiente del cinema fino a conoscere Barbra Streisand, di cui diventò l’amante. In seguito produsse il suo film È nata una stella (1976). Anni dopo, conobbe Peter Guber di cui divenne socio e con il quale fondò la Guber-Peters Entertainment Company, in seguito assorbita dalla Columbia. Peters era un decisionista, oltre che il tormento dei registi dei film da lui prodotti, ma la sua intraprendenza fu decisiva nel dare al progetto Batman la sterzata decisiva.

Prima di tutto, la Guber-Peters riuscì a riportare la Warner Bros. al tavolo della trattativa, approfittando del fatto che il nuovo vice-presidente, Frank Wells, era rimasto sconcertato nel sapere che la precedente dirigenza aveva permesso che un film potenzialmente lucrativo come Batman, i cui diritti appartenevano a una consociata dello studio, venisse sviluppato all’esterno dello studio stesso. Jon Peters e Peter Guber firmarono così un accordo vantaggioso, riportando Batman alla casa madre.
Il secondo, importante contributo fornito dal duo alla causa di Batman fu l’ingaggio di uno dei più grandi divi di Hollywood nella parte del Joker, l’unico che, secondo lo stesso Micheal Uslan, avrebbe potuto interpretare il Principe Pagliaccio del Crimine: Jack Nicholson. Mike pensava a Nicholson fin dal 1980, folgorato dalla sua performance in Shining. A conferma della sua intuizione, ritagliò da un giornale la locandina del film di Stanley Kubrick in cui l’attore veniva ritratto col suo classico ghigno. Uslan colorò con dei pennarelli il viso di Jack di bianco, rosso e verde. Il risultato era il Joker. Il caso volle che, anni dopo, Guber e Peters fossero i produttori di Le Streghe di Eastwick, grande successo diretto da George Miller che vedeva Nicholson interpretare il diavolo. Nelle pause sul set, Jon Peters cominciò a parlare a Nicholson del progetto Batman e della parte di Joker. Il produttore – parrucchiere fu talmente convincente che il divo accettò il ruolo per sei milioni di dollari invece degli abituali 10, a patto di poter partecipare agli utili delle future vendite del merchandising relativo al film. Un accordo rivoluzionario, per l’epoca, che farà guadagnare all’attore il quintuplo del suo cachet ordinario.

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A metà degli anni ’80, la produzione di Batman aveva superato le traversie iniziali. Come progetto targato Warner Bros. che poteva vantare la presenza di un divo affermato come Jack Nicholson, il film sembrava avere ormai il vento in poppa. Quello che mancava ancora, era un autore che potesse garantire una visione unica al progetto, oltre alla capacità di gestire le dimensioni di una produzione che andava facendosi sempre più colossale. Dopo la candidatura di Joe Dante, venne valutata anche quella di Ivan Reitman, reduce dal grande successo di Ghostbusters, ma il suo profilo non convinceva appieno. Ma il Dio-Cinema, o il fato, se preferite, fornì l’intervento che diede la svolta decisiva al progetto. Una dirigente importante della Warner dell’epoca, Bonni Lee, aveva visto il cortometraggio di un promettente filmaker, un ragazzo che lavorava al reparto animazione dei Walt Disney Studios. Quel breve filmato, Vincent, era un commosso e visionario omaggio al mito d’infanzia del giovane regista, Vincent Price. La Lee si innamorò dello stile e della poetica dell’autore, e dopo averlo contattato e conosciuto, lo portò con sé alla Warner.  Quel ragazzo si chiamava Tim Burton.

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Burton era un eccentrico creativo di 25 anni cresciuto professionalmente alla Disney, in un gruppo che vedeva tra gli altri John Lasseter, futuro capo della Pixar, e Brad Bird, che avrebbe diretto Gli Incredibili e Ratatouille. Ma il suo gusto per le atmosfere dark e grottesche mal si conciliavano con lo stile canonico Disney. Dopo aver contribuito a classici come Red & Toby – Nemici amici e Taron & la pentola magica, che giudicherà esperienze frustranti per l’atteggiamento ostativo della Disney nei confronti delle sue idee, decise di dedicarsi alla regia. I suoi primi lavori sono due corti, il già citato Vincent e Frankenweenie, in cui inaugura la poetica del diverso che attraverserà tutto il suo cinema. Ma Burton alla Disney è il classico pesce fuor d’acqua: si convince quindi a fare fagotto e ad abbandonare la casa di Topolino. Alla Warner realizza il desiderio di poter finalmente dirigere un lungometraggio. Lo studio gli affida infatti la regia di Pee-Wee’s Big Adventure, il debutto cinematografico del comico televisivo Pee-Wee Herman, al secolo Paul Reubens. La pellicola è poco più di un pretesto per mettere in scena delle gag che esaltano il repertorio slapstick di Reubens: ciò nonostante il film ottiene un ottimo riscontro di pubblico, e mette in mostra la mano sicura di Burton nel dirigere e la sua predilezione per il registro onirico e surreale. Peters, Guber e la Warner restano affascinati dallo stile del giovane cineasta, e si convincono che sia la persona giusta a cui affidare un progetto complesso come Batman. Se ne convince anche Micheal Uslan dopo una proiezione privata di Pee-Wee organizzata per lui e Ben Melkiner dallo studio. I due vennero folgorati dal talento del regista e si convinsero della bontà della scelta della produzione.

In una serie di incontri organizzati dalla produzione, Uslan ebbe modo di conoscere Burton ed esporgli la sua visione del personaggio e del futuro film. Tra il materiale da lui sottopostogli, trovavano spazio l’amata Night of the Stalker, le storie delle origini prodotte da Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson e, ovviamente, la nuova ondata di graphic novel adatte ad un pubblico maturo che avevano per protagonista l’Uomo Pipistrello. Il movimento del cosiddetto "revisionismo supereroistico", che reinterpretava in chiave decostruzionista la figura del supereroe, stava dominando la scena fumettistica degli anni '80 dando i natali ad opere epocali come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller e The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland, entrambe con protagonista il Cavaliere Oscuro. Pur non adattando nessuna delle due opere, Batman sarà debitore della sua atmosfera dark e noir a questi due capolavori della letteratura disegnata che insieme a Batman: Year One, scritta dallo stesso Miller per i disegni di David Mazzucchelli, formeranno il trittico imprescindibile del canone batmaniano nei decenni a venire. 

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