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Luca Tomassini

Luca Tomassini

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Fire Power 1 - Preludio, recensione: il "Pitch Perfect" di Robert Kirkman e Chris Samnee

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Le opportunità offerte dallo sfruttamento commerciale di proprietà intellettuali ha radicalmente cambiato, negli ultimi vent’anni, la scena fumettistica a stelle e strisce. L’esperienza pionieristica dei sette fondatori della Image, che avevano scelto di abbandonare la Marvel all’apice della loro carriera per mantenere il copyright delle loro creazioni, ha influenzato le scelte professionali della generazione successiva di autori. Così, se prima la maggiore ambizione di un giovane autore era quella di poter scrivere Spider-Man, ora l’obiettivo diventava quello di crearlo, il nuovo Spider-Man.

La concomitante evoluzione dell’industria dell’intrattenimento forniva il terreno ideale alle aspirazioni dei creativi. Studios cinematografici, network televisivi e piattaforme di streaming cercavano nei fumetti idee fresche da traslare in film e serie tv. È in questo contesto che sceneggiatori come Mark Millar, che nel primo decennio degli anni 2000 aveva dato un contributo fondamentale al rinnovamento dei comics con opere come The Authority, The Ultimates e Civil War, decidono di diradare la loro collaborazione con le major del fumetto e mettersi in proprio. Millar, lo scrittore che volle farsi azienda, fonda Millarworld, etichetta personale con cui lancia miniserie a raffica, illustrate da alcuni tra i migliori talenti del settore. La consistenza qualitativa della maggior parte di questi progetti, però, non va oltre quella di un avvincente soggetto concepito per colpire l’interesse di un produttore esecutivo di qualche network.

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La parabola professionale di Robert Kirkman è per certi versi simile a quella di Millar. Dopo una collaborazione con la Marvel a metà degli 2000, che lo lascia profondamente insoddisfatto, Kirkman si concentra esclusivamente sul lavoro creator-owned. Fonda uno studio per poter pubblicare i suoi progetti personali, Skybound Entertainment, il primo ad entrare nel consorzio Image dai tempi della sua fondazione. L’inizio è col botto: The Walking Dead, primo progetto targato Skybound, una serie in b/n a tema morti viventi sulla quale nessuno voleva scommettere, diventa a sorpresa la testata più venduta della Image e viene trasposta sul piccolo schermo con una serie tv enormemente popolare che dura ben 10 stagioni e diversi spin-off. Invincible, uno dei suoi primi successi, è in procinto di debuttare come serie animata per Amazon. In entrambi i casi, parliamo di serie che hanno avuto bisogno di qualche numero di rodaggio prima di fare breccia nel pubblico.

Il nuovo lavoro di Kirkman, Fire Power, il cui primo volume è uscito da poco per Saldapress, sembra essere invece la quintessenza del "pitch" perfetto: trama, caratterizzazioni e topoi provenienti dalla grande tradizione del racconto d’avventura, unite ad una velocità d’esecuzione scoppiettante che vede l’arte della supestar Chris Samnee prendersi le luci della ribalta. Le prime pagine del volume ci catapultano immediatamente nel pieno dell’azione, seguendo le peripezie dell’americano Owen Johnson che, rischiando la vita tra le montagne cinesi innevate, cerca il tempio shaolin del Maestro Wei Lun. Il giovane è stato già allievo tra alcuni tra i più stimati sensei del pianeta e vuole completare il suo addestramento con un ultimo tassello di grande valore. Nel tempio di Wei Lun, infatti, si cerca di recuperare la tecnica del Pugno di Fuoco, arte ormai perduta che neanche il Maestro sembra in grado di padroneggiare. L’allenamento di Owen procede giorno dopo giorno tra la diffidenza dei compagni, che lo ritengono un intruso in virtù del suo essere straniero, e l’amicizia con Ling Zan, unica ragazza tra gli allievi del tempio che potrebbe costituire un interesse sentimentale per il giovane, se non fosse che le relazioni tra studenti sono proibite. Ma quando Wei Lun comincia ad intuire qualcosa sul mistero delle origini di Owen e sulla scomparsa dei suoi genitori, il tempio viene improvvisamente attaccato dal Clan della Terra Bruciata, setta rivale che vuole carpirne i segreti. L’intervento di Owen a difesa della sua nuova casa sarà decisivo ma di più non sveleremo per non rovinare il gusto di un’eventuale lettura.

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La lettura di Fire Power ci ha fatto ripensare ad una celebre frase di Umberto Eco, pronunciata a proposito di Casablanca, che troviamo particolarmente calzante anche nei confronti di un prodotto lontano anni luce dal classico cinematografico come il fumetto di Kirkman e Samnee: “Due cliché ci fanno ridere. Cento cliché ci commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento”. Eco vedeva il film di Michael Curtiz come un ensemble di stereotipi preesistenti e facilmente ravvisabili, ma il cui utilizzo e incastro era talmente ben congegnato da renderlo sublime. Lo stesso dicasi di Fire Power: in molti hanno giustamente notato gli echi dell’Iron Fist della Marvel, o di lungometraggi a tema arti marziali come Karate Kid o Kung-Fu Panda. Tutto vero, ma si potrebbe andare ben oltre, trovando nel lavoro di Kirkman lo stessa schema narrativo che è alla base di Star Wars  e di Matrix, del Signore degli Anelli e del mito di Superman, del ciclo della Tavola Rotonda e della storia di Mosé: quello del "viaggio dell’eroe", codificato dallo psicologo Joseph Campbell. Campbell credeva nell’esistenza di archetipi presente nell’inconscio collettivo, che hanno condizionato la struttura della maggior parte dei miti nelle varie culture del mondo. Che lo abbia fatto coscientemente o no, in Fire Power Kirkman ha attinto a piene mani dagli archetipi ancestrali svelati da Campbell. Owen condivide con i suoi predecessori tutti gli elementi e gli stadi più significativi della cosiddetta “vita dell’eroe”, dalle origini misteriose alla relazione complicata con la famiglia d’origine, dal ritiro dalla società per apprendere una lezione (aiutato da un mentore dai grandi poteri), fino al ritorno nella comunità a cui porta in dono i conseguimenti ottenuti durante il suo ritiro, simboleggiati da una potente arma che solo lui sa usare.

L’abuso degli archetipi e degli stereotipi nella cultura pop ci dice che probabilmente tutte le storie sono state già raccontate, e questa affermazione potrebbe trovare in Fire Power una conferma. Ma la bravura di Robert Kirkman consiste proprio nel prendere suggestioni ed echi di modelli del passato e rielaborarli con assoluta originalità, evitando un’imitazione pedissequa dei prototipi di partenza. L’autore di The Walking Dead ha sempre dimostrato una grande abilità nell’imbastire trame avvincenti e nella caratterizzazione dei personaggi, e questo nuovo lavoro non fa eccezione (si pensi al personaggio del Maestro Wei-Lun, irresistibile profilo di monaco shaolin diviso tra la spiritualità e le passioni secolari, prime tra tutte le scarpe da ginnastica griffate Nike).

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L’obiettivo del plot sembra essere principalmente un pretesto per consentire a Chris Samnee di scatenarsi, confezionando uno dei lavori più spettacolari della sua carriera. Dopo un ciclo ormai leggendario di Daredevil in coppia con Mark Waid, Samnee è assurto al ruolo di superstar della matita: mentre si mormorava di un suo passaggio in DC per disegnare Batman, ha spiazzato tutti accettando la proposta di Kirkman. L’artista, che si è fatto amare per il suo tratto rétro che tradisce l’amore per il fumetto classico, inserito però dentro uno storytelling moderno, firma uno dei suoi lavori più incisivi. Abbandonate le atmosfere noir di Daredevil, Samnee si getta in un tour de force di tavole cariche d’azione: sembra di vedere Alex Toth, di cui Samnee è sicuramente tra i discepoli riconosciuti, applicare le tecniche del montaggio di un film di John Woo. La ricerca del movimento è evidente fin dall’organizzazione della tavola, che Samnee alterna tra vignette canoniche ad altre irregolari, dalla forma trapezoidale e volutamente non convenzionale nel momento in cui parte l’azione. Il tutto per trasmetterne il ritmo, aiutandosi anche con linee cinetiche derivanti dai manga. Al piacevolissimo effetto d’insieme concorrono la consueta cura del dettaglio nella caratterizzazione grafica dei personaggi e degli ambienti da parte dell’artista, coadiuvato dall’efficace colorazione di Matt Wilson, bravo nel passare dai toni freddi delle montagne innevate a quelli caldi nelle concitate scene di combattimento.

Fire Power si segnala anche per l’insolita formula con cui ne è stato concepito il debutto: un numero “zero” raccolto in un volume di circa 170 pp che fa preludio al vero numero uno, narrandone l’antefatto. Saldapress lo propone in un cartonato contraddistinto dall’abituale cura editoriale tipica dei prodotti dell’editore, capace di valorizzare al meglio il lavoro di una delle coppie creative più “calde” del momento.

La Storia dell'Universo Marvel, recensione: raccontare attraversando il tempo

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La continuity, intesa come il flusso ultradecennale di eventi che sono alla base di un universo fumettistico, è delizia dei lettori più fedeli che ne conoscono a memoria gli sviluppi quanto croce degli avventori occasionali che, spaventati da una mole di informazioni che necessiterebbe di anni per essere assorbita, abbandonano sul nascere ogni velleità di accesso agli universi Marvel o DC.

Delle due grandi case editrici, la prima a comprendere la necessità di dover ordinare la propria complessa e convulsa continuity fu la DC che, con Crisi sulle terre infinite del 1985, eliminò i mondi paralleli in cui agivano le versioni golden age, risalenti al tempo della seconda guerra mondiale, dei suoi principali personaggi. La conclusione di questa saga epocale sanciva la nascita del rinnovato cosmo DC che, per quanto attraversato da incongruenze dovute al difficile lavoro di coordinamento tra le tante pubblicazioni dell’editore, poteva finalmente vantare una continuity interna coerente per eventi e storia dei personaggi. Per celebrare degnamente la nascita del nuovo universo, pochi mesi dopo la fine di Crisis la DC pubblicò una sorta di appendice realizzata dai suoi stessi autori, Marv Wolfman e George Pérez, chiamata History of the DC Universe. Si trattava di una “bibbia”, una guida illustrata dal maestro portoricano che prendeva per mano il lettore, portandolo a passeggio nella storia finalmente semplificata dei suoi classici ma rinnovati personaggi.

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Mentre in casa DC si compieva questo sforzo colossale, alla Marvel si dormivano sonni più tranquilli. Il suo universo, all’epoca relativamente giovane, era nato all’insegna della modernità, senza una convulsa storia pregressa da giustificare, come aveva dovuto fare l’editore rivale per spiegare il coinvolgimento nella II Guerra Mondiale degli ancora giovani Batman e Superman. L’unico collegamento con quell’epoca ormai lontana era stato risolto con l’ibernazione accidentale a fine conflitto di Capitan America, ritrovato decenni dopo dai Vendicatori. Per il resto, la continuity Marvel si presentava agile e snella, senza alcun bisogno di interventi riparatori. Ciò nonostante, trentacinque anni dopo e in occasione dei festeggiamenti per i suoi ottant’anni di vita, l’editore ha sentito l’esigenza di pubblicare una sua “Storia”, che non ha intenti aggiustatori come quella della Distinta Concorrenza ma celebra e ordina una continuity che, dopo otto decadi di pubblicazioni, si è inevitabilmente appesantita.

La narrazione è stata affidata ad un veterano come Mark Waid che, oltre ad essere l’autore di opere celebrate come Kingdome Come, è un esperto della complessa storiografia delle due principali major del fumetto a stelle a strisce. Ai disegni troviamo invece Javier Rodriguez, uno dei principali esponenti della scuola iberica che ha in Marcos Martin, Javier Pulido e Javi Fernandez gli altri capofila, tutti molto richiesti sul mercato statunitense. A differenza del corrispettivo della DC, Waid non usa lo stratagemma del narratore onnisciente, incarnato in quell’occasione dal personaggio di Harbinger, ma imbastisce un dialogo alla fine dei tempi fra due tra i più potenti personaggi Marvel, Galactus e Franklin Richards. Il distruttore di mondi e il mutante di livello omega, figlio di Reed Richards e Sue Storm, sono interdipendenti come lo yin e lo yang: uno porta morte e l’altro può creare la vita, e l’uno non può esistere senza l’altro. Arrivati alla fine del loro universo, ripercorrono gli eventi che ne hanno caratterizzato la vita. Questo cosmo morente derivava a sua volta da un universo scomparso di cui Galactus, allora non asceso ancora alla sua forma semidivina e conosciuto col nome di Galan, era l’unico superstite. La morte della realtà precedente costituì la scintilla per la creazione della prossima, e subito gli echi di coscienze antiche e primordiali si incarnarono in entità ancestrali come gli Antichi dell’Universo, il Tribunale Vivente, Eon, Eternità, Caos e Ordine, il Pantheon degli Dei, elementi alla base della mitologia della Casa delle Idee, mentre dallo scoppio della creazione venivano generate le potenti Gemme dell’Infinito.

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Grazie al racconto di Waid e alle spettacolari tavole di Rodriguez, la storia dell’Universo Marvel si dipana davanti ai nostri occhi dispiegando tutta la sua tradizionale geografia cosmica, con i potenti Celestiali, creatori e manipolatori di vita, in prima fila. E poi ancora gli imperi Kree e Skrull, in perenne conflitto tra loro, gli Eterni, gli Inumani e tanti altri classici pilastri del cosmo Marvel che sfilano sotto gli occhi del lettore. Un decennio lascia il passo al successivo, partendo dagli anni del secondo conflitto bellico con la guerra di Capitan America e gli Invasori contro le forze dell’Asse, proseguendo con gli oscuri anni ’50 che videro solo eroi dimenticati come gli Agenti dell’Atlas contrapporsi alle forze del male, in attesa dell’inizio ufficiale dell’Era Marvel nel decennio successivo. Ciascun lettore potrà ritrovare il suo periodo preferito della Casa delle Idee, da quella dei padri fondatori Stan Lee, Jack Kirby e Steve Ditko per arrivare ai giorni nostri.

Il lavoro svolto da Waid è impressionante: lo scrittore è riuscito a condensare nei sei numeri della miniserie una mole immensa di storie a fumetti, riuscendo a garantire comunque una narrazione piacevolissima. Il tutto è stato possibile anche grazie al lavoro di supervisione di Tom Brevoort, garante della continuity Marvel, che ha messo a disposizione degli autori un gruppo di ricerca a cui è spettato il compito di addentrarsi nello sterminato archivio dell’editore. Si sono così potuti integrare elementi narrativi recenti come gli Avengers dell’Era Preistorica, introdotti da Jason Aaron nella sua run di Avengers ancora in corso, ad altri che sembravano dimenticati dalla Marvel moderna come la Lost Generation di John Byrne.

Ma a rubare l’occhio è sicuramente la prova eccellente di Javier Rodriguez alle matite. Lo spagnolo, dotato di un tratto piacevolmente rétro del tutto funzionale alla narrazione, confeziona la prova della vita inanellando una serie di tavole mozzafiato dove, grazie a soluzione grafiche talvolta ardite, riesce a raccontare con poche vignette o splash-page spettacolari le carriere di più personaggi o eventi a fumetti di una certa lunghezza. Guardare, per credere, la tavola straordinaria con cui Rodriguez “risolve” il racconto della controversa Saga del Clone degli anni ’90, con le strade e i grattacieli di New York usate come una scacchiera su cui disporre i protagonisti. E si tratta solo di una tra le decine di invenzioni grafiche geniali concepite dall'artista iberico.

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Da segnalare anche l’imponente apparato bibliografico, cento pagine di note esplicative che segnalano al lettore la pubblicazione originale delle storie citate nell’opera, che contribuisce a fare de La Storia dell’Universo Marvel una lettura indispensabile per qualsiasi appassionato dei fumetti prodotti dalla Casa delle Idee.

Historica: Le Spie di Cambridge, recensione: tradire per una causa

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Lo spionaggio è un genere d’intrattenimento enormemente popolare che ha saputo ritagliarsi, nel corso del tempo, uno spazio importante nell’immaginario collettivo. Spesso associata a trame avventurose, intrighi, scenari esotici, donne ammalianti e gadget tecnologici di “bondiana” memoria, la narrativa spionistica ha saputo declinarsi anche in versioni più realistiche, come nei romanzi di John LeCarré, ex agente segreto britannico divenuto scrittore di best-seller di successo. Nei suoi libri le spie rifuggono da qualsiasi caratterizzazione densa di superomismo alla 007 per rivelarsi, spesso, come grigi burocrati immersi nello squallore di uffici soffocati dal fumo delle sigarette. È il caso di George Smiley, antieroe per eccellenza e presenza ricorrente nei romanzi dello scrittore inglese, come ne La Talpa, romanzo del 1974 da cui è stato tratto nel 2011 l’omonimo film di successo diretto da Tomas Alfredson con Gary Oldman protagonista. La vicenda narrata nel libro ruota intorno alla riorganizzazione dei servizi segreti britannici in seno ai quali opera, ai più alti livelli, una spia doppiogiochista al soldo dell’Unione Sovietica. La trama fu ispirata a LeCarré da una reale e clamorosa vicenda di spionaggio che sconvolse l’opinione pubblica britannica: la storia dei “Cinque di Cambridge”. Si trattava di cinque esponenti dell’alta borghesia che, dopo aver aderito alla causa del comunismo, riuscirono ad infiltrarsi in ruoli chiave della diplomazia di sua maestà e a fornire informazioni riservatissime ai servizi segreti sovietici per più di trent’anni. Una storia incredibile ma realmente accaduta, che ha fornito l’ispirazione per Le Spie di Cambridge, avvincente bd di spionaggio scritta da Valerie Lémaire per i disegni di Olivier Neuray, coppia affiatata tanto nel lavoro quanto nella vita.

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Per capire le motivazioni dietro al tradimento della propria patria da parte dei cinque inglesi e la situazione storica nel quale questo è maturato, bisogna tornare indietro nel tempo fino agli anni successivi alla fine del primo conflitto bellico. In quel periodo una nuova classe dirigente cominciava a rifiutare la tradizionale impostazione della vita pubblica britannica, conservatrice in politica e liberista in economia, ritenendo che fosse stata determinante nel condurre il paese prima in guerra e poi alla rovina economica. Come se non bastasse, alla fine degli anni venti cominciarono a farsi sentire gli effetti della grande crisi economica iniziata oltreoceano. Disoccupazione e miseria facevano sentire la loro morsa. Le politiche di austerity portate avanti dal governo conservatore di Stanley Baldwin finirono per aggravare la situazione, portando allo sciopero generale. Guerra, recessione e disordine sociale convinsero un gruppo di giovani britannici che l’Europa come era stata conosciuta fino ad allora era destinata a un’inesorabile declino. Subendo le suggestioni della Rivoluzione d’Ottobre, aderirono segretamente all’ideologia comunista in nome di un sovvertimento dell’ingessata società inglese, rigida e snob, che si sarebbe dovuta aprire così ad una maggiore libertà sociale e di costumi, oltre all’eliminazione di ogni differenza di classe.

Appartenendo alla classe dirigente britannica, i personaggi della storia raccontata da Lemaire & Neuray divennero una preda ambita dello spionaggio sovietico. I cinque protagonisti di questa bd e della clamorosa vicenda storica che l’ha ispirata, pur appartenendo alla stessa classe agiata, presentavano caratteri molto differenti tra loro. Se Kim Philby, figlio di un diplomatico inglese di stanza in India che gli aveva dato il nome del bambino spia dell’omonimo romanzo di Rudyard Kipling, conduceva una vita da donnaiolo impenitente, di diverso orientamento sessuale erano il libertino Guy Burgess e l’austero Anthony Blunt. Nel caso di questi ultimi due, la contrapposizione alla rigida società inglese derivava anche dalla difficoltà di vivere liberamente la propria condizione di omosessuali in un periodo in cui essere gay in Inghilterra era considerato un reato. Completavano il quintetto Donald MacLean e John Cairncross, sui quali però la coppia di autori si sofferma di meno, puntando i riflettori soprattutto su Philby, Burgess e Blunt.

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È l'ormai anziano Blunt a rievocare l’intera vicenda, tornata agli onori della cronaca dopo che il governo Thatcher l’ha strumentalmente riesumata per distrarre l’opinione pubblica britannica dai disordini sociali, in primis lo sciopero dei minatori, causati dai propri interventi di natura conservativo/liberista nel campo del lavoro. Ripercorriamo così l’incontro tra i cinque all’università di Cambridge, sul finire degli anni 20, la condivisione degli ideali rivoluzionari e la profonda amicizia che li unirà per tutta la vita. Partendo dalla cellula comunista fondata in seno alla prestigiosa università da Maurice Dobb e aderendo in seguito alla società segreta degli “Apostoli”, che sosteneva il libertarismo in campo filosofico e il libertinismo in quello sessuale oltre alla fiducia nel marxismo, i cinque ebbero buon gioco nello sfruttare la propria posizione sociale per scalare i vertici della diplomazia britannica ed occupare posti chiave in seno ad enti come l’ MI5, preposto alla sicurezza interna del paese, e ambasciate inglesi all’estero. Entrati in contatto con i servizi segreti russi, il quintetto inglese cominciò una collaborazione ultradecennale con il regime sovietico, tradendo di fatto il proprio paese. Tale tradimento non avvenne però per interesse personale o per denaro, ma per una fede spontanea verso la dottrina comunista. La prima fase dell’attività spionistica dei cinque coincise con l’ascesa del nazismo in Germania e la successiva Seconda Guerra Mondiale, che rese meno sofferto il loro status di spie sovietiche: in fondo in quel momento Gran Bretagna e Unione Sovietica erano alleate contro il nazifascismo e i loro interessi, in linea di massima, coincidevano. Ben diverso lo scenario che gli si presentava davanti nel periodo post-bellico, con un riposizionamento politico inglese in ottica anticomunista. Senza dilungarci ulteriormente sulla trama per non svelarne troppo, diremo che i cinque dovranno vivere sia con il pericolo costante di essere scoperti, sia con il peso di una inevitabile disillusione.

Valerie Lémaire imbastisce una trama avvincente che è intimamente connessa agli avvenimenti storici del periodo preso in esame. A causa dell’intrecciarsi di molteplici eventi storici, la narrazione non è molto fluida e potrebbe mettere in difficoltà il lettore occasionale non troppo avvezzo alla materia storica. Ciò nonostante, la scrittrice riesce comunque a fornire un’interessante caratterizzazione di personaggi, sfuggendo così al pericolo di realizzare un’opera troppo didascalica, concentrandosi soprattutto sul trio Philby, Burgess e Blunt. A vario titolo, i tre resteranno fedeli all’ideale comunista fino alla fine, anche se sarà Burgess, il più spontaneo e disincantato del gruppo, a pagare il prezzo più alto.

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Dal punto di vista artistico, l’opera si inserisce pienamente nel solco della tradizione della bd francofona, tanto per lo stile del suo disegnatore quanto per l’organizzazione a bande orizzontali della tavola. Oliver Neuray è un classico esponente della linea chiara, ma il suo tratto pulito, per quanto giovi alla chiarezza espositiva, a tratti risulta freddo e non si segnala per particolare originalità. Risulta evidente il metodo di lavoro dell’artista basato su riferimenti fotografici: le fattezze di Burgess, in particolare, sono modellate su quelle del divo del cinema classico Cary Grant. Ciò nonostante, la semplicità del suo stile risulta funzionale a una narrazione già piuttosto ingarbugliata per la vicenda raccontata e ben si sposa tanto con la sceneggiatura della Lémaire, quanto con i colori altrettanto chiari di Dominique Osuch.

A conti fatti, Le Spie di Cambridge è una lettura imperdibile per qualsiasi fan dello spionaggio e degli intrighi internazionali, che potrebbe però risultare intrigante anche per chi volesse approfondire uno dei “casi” storici più clamorosi dello scorso secolo.

Tributo a Dennis O'Neil: Tra la luce della Lanterna e l'oscurità della Bat-Caverna

  • Pubblicato in Focus

La prima volta che ho letto il nome di Dennis O’Neil nei credits di un albo a fumetti ero ancora un bambino che nei primi anni ‘80 si riempiva gli occhi di meraviglia leggendo le storie Marvel portate in Italia da una Editoriale Corno prossima a scomparire. L’Uomo Ragno II serie era rimasta l’unica collana dell’editore milanese a presentare materiale inedito, mentre le altre testate presentavano ristampe dei gloriosi periodi Silver e Bronze Age pubblicati nel nostro paese nel decennio precedente. Denny (come veniva chiamato da tutti) O’Neil era lo sceneggiatore regolare di Amazing Spider-Man in un periodo di passaggio della collana, con storie oggi perlopiù dimenticate a favore di quelle successive, scritte da Roger Stern, che ebbero però il merito di tenere a battesimo un giovane John Romita Jr. sulla testata che avrebbe disegnato a più riprese nei successivi trent’anni, introducendo inoltre interessanti personaggi di contorno come Madame Web. Una storia piuttosto bizzarra di quella run, ma che colpì la mia immaginazione di bambino, fu quella in cui Hydro-Man, villain creato dallo stesso O’Neil, si fondeva per errore con l’Uomo Sabbia dopo uno scontro con l’Uomo Ragno formando un colosso di fango che si aggirava per New York come un novello King Kong, ricalcandone anche la tragica fine.

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Avrei scoperto anni più tardi che quelle storie, pur apprezzate da ragazzino, non erano certamente quelle per cui Denny O’Neil sarebbe stato ricordato. Nonostante la sua carriera fosse iniziata giovanissimo alla Marvel negli anni ’60, tappando buchi per le sceneggiature di testate lasciate orfane da un sempre più indaffarato Stan Lee come Doctor Strange e X-Men, è alla DC che la carriera di O’Neil decolla definitivamente. Voluto da Dick Giordano, che aveva conosciuto durante un rapido passaggio alla Charlton, O’Neil si trasferisce presso l’editore di Batman e Superman sul finire degli anni ’60, preparandosi a sfornare due opere che faranno epoca. Dopo un ciclo di Justice League of America e uno piuttosto contestato di Wonder Woman, in cui O’Neil priva Diana dei suoi poteri e del legame con le Amazzoni, la DC decide di affidargli il rilancio di Green Lantern, personaggio dalle atmosfere tipicamente Silver Age che faticava a trovare il suo spazio in un periodo storico convulso come quello di fine anni ‘60/inizio anni ’70. La nazione, già attraversata dalle contestazioni studentesche e dalla protesta contro la guerra del Vietnam, stava per conoscere lo scandalo del Watergate: un contesto politico/sociale nel quale un poliziotto intergalattico che aveva come unico punto debole il colore giallo sembrava drammaticamente fuori luogo. O’Neil ebbe un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria: mantenere lo status di “uomo di legge” di Hal Jordan calandolo però in un contesto reale. Lanterna Verde si sarebbe dovuto sporcare le mani con i veri problemi di un paese lacerato dal punto di vista sociale. L’intuizione più importante dello scrittore fu quello di affiancare a Jordan un eroe urbano fino ad allora considerato di seconda fascia, che avrebbe accompagnato la Lanterna Verde della Terra nel suo viaggio nel cuore degli States.

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La scelta cadde su Freccia Verde, personaggio che O’Neil aveva già scritto durante la sua gestione della JLA, facendolo evolvere dal clone di Batman dotato di frecce qual’era stato fino a quel momento a un personaggio completamente rinnovato e al passo con i tempi. Spogliato del suo status di milionario e playboy, caduto in disgrazia dopo aver perso la sua fortuna, Oliver Queen si presentava ora come un eroe irascibile e scontroso, adirato con la vita ma profondamente maturato nella sua visione politica, veicolo perfetto per l’anima progressista che avrebbe animato la serie fin dal primo numero e che ben si evince da questa tavola emblematica:

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Le trame di O’Neil affondavano le mani nei grandi problemi politici e sociali dell’epoca, come il razzismo intrinseco nella società americana (tematica piuttosto attuale ancora oggi) e la piaga della dipendenza dalle droghe dei giovani, simboleggiata dall’episodio più celebre di tutto il ciclo, quello in cui viene rivelata la tossicodipendenza di Speedy, il sidekick di Freccia Verde. In assenza del suo mentore, Roy Harper era sprofondato nel tunnel della droga. Lo shock di Oliver Queen fu pari a quello dei lettori. Per la prima volta veniva rappresentato in un fumetto mainstream lo spaesamento di una generazione a cui stavano venendo meno tutti i punti di riferimento, incorrendo inoltre nel paternalismo degli adulti a cui neppure un liberal come l’Arciere di Smeraldo sembrava volersi  sottrarre.

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Green Lantern/Green Arrow inaugurò una partnership parallela a quella cartacea tra Hal Jordan e Oliver Queen, quella tra Denny O’Neil e il disegnatore Neal Adams, artista rivoluzionario per la modernità di cui erano intrise le sue tavole. La loro collaborazione, tra le più celebrate della storia del fumetto, raggiunse l’apice con un ciclo di Batman iniziato nel 1971 che consegnò alla storia quella che molti ritengono la versione definitiva del personaggio.

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All’epoca il Cavaliere Oscuro era reduce da un paio di decenni un cui tutto era stato, tranne che “oscuro”. Le atmosfere cupe degli inizi erano state annacquate per contenere le accuse mosse dal Prof. Wertham nel suo famigerato saggio Seduction of the Innocent, mentre la sbornia “camp” dovuta al grande successo del telefilm trasmesso a partire dagli anni ’60 aveva definitivamente allontanato il personaggio dalle sue radici. Confesso che io adoravo la serie, vista più volte negli anni delle infinite repliche su varie emittenti private, eppure provavo un notevole imbarazzo a vedere Batman impegnato a ballare il “Batusi” o occupato in altre amenità non consone al suo ruolo di giustiziere. Le atmosfere goliardiche tipiche della serie tv trasmigrarono inevitabilmente anche negli albi a fumetti e fu solo grazie al lavoro del duo O’Neil/Adams, coordinato dall’editor-in-chief Julius Schwarz, se il Crociato Incappucciato tornò ad essere il vendicatore notturno immaginato da Bob Kane e Bill Finger. La coppia recuperò la dimensione urbana della serie, accantonando definitivamente gli elementi più bizzarri e pop che avevano contraddistinto le avventure di Batman degli anni ’60, e reintrodusse il suo più grande avversario, il Joker, nell’episodio chiave intitolato The Joker’s Five-Way Revenge.

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In questa storia dai toni noir, il Clown Pagliaccio del Crimine torna a Gotham dopo essere fuggito di prigione, uccidendo ad uno ad uno gli ex membri della sua gang per stanare quello che lo aveva tradito. O’Neil inaugura qui la caratterizzazione moderna del personaggio, mettendo da parte l’innocuo burlone degli anni ’50 e ’60 e liberando su carta il maniaco omicida che perseguiterà il Cavaliere Oscuro fino ai giorni nostri. Il contributo più celebre della coppia O’Neil e Adams al mito di Batman è però la creazione del villain definitivo del personaggio, una sorta di suo riflesso oscuro: Ra’s Al Ghul, capo della Lega degli Assassini, setta dedita ad estirpare la corruzione dell’essere umano tramite azioni di sterminio e genocidio. Pluricentenario, ma ancora giovane grazie al potere curativo della Fossa di Lazzaro, Ra’s condivide con Batman intelletto e vigore fisico fuori dal comune, tanto da ritenerlo un suo possibile e degno erede alla guida della Lega degli Assassini. L’ammirazione per il Cavaliere Oscuro è condivisa anche dalla figlia Talia che se innamora, intraprendendo con lui in seguito una relazione che porterà alla nascita del figlio dell’inconsapevole Bruce, Damien. Per mettere in scena il primo scontro tra Batman e Ra’s Al Ghul, O’Neil si ispira ai film di James Bond tanto in voga in quel periodo, trascinando il Crociato Incappucciato in scenari per lui inediti come il Nanda Parbat e le Alpi Svizzere, costringendolo ad una caccia all’uomo avvincente. Sono storie che mantengono un grande fascino anche oggi, e che all’epoca sembravano provenire direttamente dal futuro, tanto per le sceneggiature scoppiettanti di O’Neil quanto per la prova epocale di Adams al tavolo da disegno. Il Batman moderno viene codificato graficamente in queste pagine, e sarà un punto di riferimento imprescindibile per i successivi autori. L’artista tratteggia un Cavaliere Oscuro avvolto in un lungo mantello, snello e atletico, michelangiolesco nel suo fascio di muscoli tesi fino allo spasmo e sempre pronti a scattare. Le pose iconiche di Batman realizzate da Adams durante il ciclo realizzato con O’Neil si sprecano, come è iconico lo scontro finale a colpi di spada con Ra’s. I due personaggi sono inquadrati in modo che appaiano come giganti impegnati in una resa dei conti epica.

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Voglio ricordare due storie di Batman in particolare, tra le tante scritte da O’Neil in quel periodo, che esercitarono su di me una profonda suggestione: Night of the Reaper, sempre in coppia con Adams, in cui Cavaliere Oscuro si trova ad affrontare un misterioso assassino armato di falce e The Demon of Gothos Mansion, illustrata da Irv Novick, in cui il nostro eroe si trova catapultato in una vicenda di spettri e vecchi manieri che sembra uscita dritta da un film della Hammer.

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I fantastici anni ’70 di Dennis O’Neil alla DC vedono l’uscita di altri progetti prestigiosi, come il rilancio del classico eroe pulp The Shadow per gli eleganti disegni dell’artista Mike Kaluta, e l’epocale scontro tra Superman e Muhammad Alì (di cui vi abbiamo parlato qualche anno fa) che segna la fine della proficua collaborazione con Neal Adams.
Nel 1980 torna alla Marvel, prendendo le redini di Amazing Spider-Man, come detto in apertura. Il ciclo, della durata di un anno, non è all’altezza dei suoi precedenti lavori, mentre invece sono notevoli i due Annual della collana, datati 1980 e 1981, che O’Neil scrive per le matite di un giovane disegnatore di nome Frank Miller.

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Nel primo albo l’Uomo Ragno e il Dottor Strange affrontano la minaccia combinata del Dottor Destino e di Dormammu, in un riuscito omaggio a Steve Ditko, mentre il secondo mette in scena un’alleanza forzata tra l’Aracnide e il Punitore contro il Dottor Octopus, in una storia che esalta la predilezione per i contesti urbani di Miller, in procinto di diventare una delle superstar assolute del decennio. L’incontro con l’ex scrittore di Batman sarà decisivo per la carriera del giovane artista: è proprio O’Neil, in qualità di editor di Daredevil, a sollevare dall’incarico lo sceneggiatore Roger Mckenzie per lasciare al giovane Miller, fino ad allora solo illustratore della serie, il doppio incarico di scrittore/disegnatore. Il risultato di questa mossa sarà il ciclo leggendario conosciuto come la Saga di Elektra. Denny O’Neil e Frank Miller incroceranno più volte i loro passi nel corso delle rispettive carriere, e saranno tutti incroci importanti. Sarà proprio il primo a raccogliere il testimone del secondo sulle pagine di Daredevil, con un ciclo notevole che venne però offuscato dal ritorno di Miller sulla testata col capolavoro Born Again.

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È una sequenza di storie che merita di essere riscoperta (pochi anni fa Panini Comics ne ha raccolto una parte nel volume Il Secondo Segreto della sua Daredevil Collection) e che contiene alcune gemme dimenticate, per la maggior parte illustrate da un giovane David Mazzucchelli. Tra tutte, vale la pena ricordare Nebbia, con un Matt Murdoch attonito di fronte alla scoperta del cadavere di Heather Glenn, sua sfortunata vecchia fiamma suicidatasi dopo essere caduta nella spirale della depressione.

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O’Neil scrisse una sequenza di episodi di forte intensità emotiva e psicologica, preparando il mood della serie per il già citato Born Again di Frank Miller. Una perla assoluta di questo sottovalutato ciclo è …E poi si muore, episodio in cui lo scrittore fornisce probabilmente la migliore interpretazione mai apparsa dell’Avvoltoio, il classico nemico dell’Uomo Ragno, qui alle prese con Devil. O’Neil lo ritrae nella sua natura rapace e predatoria, derivata dall’animale da cui prende il nome, sorpreso dall’eroe mentre profana la tomba di Heather Glenn per rubare i gioielli con cui è stata sepolta.

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Da bambino mi colpì molto la caratterizzazione del villain, ritratto da Mazzucchelli mentre è appollaiato come un vero volatile sul tetto della Nelson & Murdoch, latore di morte dalla filosofia nichilista e ladro miserabile allo stesso tempo. L’atmosfera plumbea e malinconica contribuì a stampare nella mia memoria questo gioiellino misconosciuto.
A metà degli anni ’80, dopo aver scritto un’importante sequenza di storie di Iron Man in cui Tony Stark cedeva momentaneamente l’armatura all’amico Jim Rhodes (il secondo personaggio di colore a cui lo scrittore regala un ruolo da protagonista, dopo la creazione del personaggio di John Stewart sulle pagine di Green Lantern), O’Neil torna alla DC per lavorare ancora sul personaggio che aveva definito la sua carriera, ma non come scrittore. Nel 1986 viene nominato infatti group editor delle collane relative a Batman, ruolo che ricopre fino al 2000, traghettando così il Cavaliere Oscuro nel nuovo millennio. Quindici anni in cui il medium fumetto attraversa un grande cambiamento, a causa soprattutto dell’affermarsi di una “cross-medialità” che vede i personaggi dei comics uscire dai confini angusti degli albi per invadere altri media come cinema, tv e videogiochi. Batman è al centro di queste trasformazioni: il film diretto da Tim Burton che esce nel 1989 è un successo epocale che cambia per sempre la percezione che il pubblico generalista ha del character.

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O’Neil accompagna il personaggio attraverso questa fase di grande popolarità e di profondo rinnovamento del suo mito, coordinando ogni progetto a lui dedicato e svolgendo allo stesso tempo la funzione di garante della tradizione. Nei suoi anni di supervisione delle bat-testate, O’Neil da il semaforo verde a eventi che lasceranno il segno, come la morte di Jason Todd, il secondo Robin, decisa dai lettori grazie ad un sondaggio telefonico in un’epoca in cui internet e i social erano ancora un'ipotesi da fantascienza. Parallelamente, continua la sua carriera da scrittore col rilancio di The Question, il vigilante senza volto creato da Steve Ditko, un cult assoluto di quegli anni che conquista il suo seguito anche nel nostro paese grazie alle sue apparizioni in appendice al Green Arrow delle Edizioni Play Press.

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Continua a scrivere occasionalmente anche il Cavaliere Oscuro, sia nell’adattamento a fumetti del film di Tim Burton, splendidamente illustrato da Jerry Ordway, sia nella miniserie Sword of Azrael, disegnata da Joe Quesada. O’Neil aggiunge un ulteriore contributo personale al mito di Batman creando Jean – Paul Valley, discepolo e campione dell’antico ordine di Saint Dumas col nome di Azrael. Sarà quest’ultimo a sostituire nel ruolo di Batman un Bruce Wayne gravemente ferito dopo uno scontro con Bane, svolgendo però il suo compito con una violenza tale da costringere il vero Crociato Incappucciato a tornare anzitempo dalla sua convalescenza e a reclamare il mantello.

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Le ultime e recentissime sceneggiature realizzate dallo scrittore prima della sua scomparsa sono ancora una volta legate ai personaggi che hanno segnato la sua carriera: una storia breve di Batman per il celebrativo Detective Comics 1000 e un contributo all’albo speciale che festeggia gli 80 anni di Lanterna Verde, con la reunion tra Hal Jordan e l’arciere Oliver Queen.
Con Dennis O’Neil non scompare solamente uno sceneggiatore di grande talento, capace di inserire nel suo lavoro importanti istanze politiche e sociali come nessuno aveva mai fatto prima, ma anche un innovatore del fumetto popolare che ha contribuito a fare evolvere nella forma d’arte matura e consapevole di se stessa che conosciamo oggi.

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