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American
Moods, Foods, Boobs : lo ricomincerei solo perché
mi è dispiaciuto finirlo. Non per le innumerevoli sottotrame
che non ho colto, non per i riferimenti che mi sono sfuggiti, non
per apprezzare una prosa che, pur scorrevole, non è così
particolare e non è nemmeno la vera prosa dell'autore, ma
quella della traduttrice.
Ho terminato |
la mia lettura
di American Gods dieci minuti fa, e già ne sento la mancanza.
Gaiman ha cambiato la mia concezione di come si legge un libro,
ha cambiato la mia concezione di come si tiene fede ai propri
impegni, e più generalmente di come si vive. E tutto questo
lo ha fatto senza volerlo. Non lo saprò mai per tempo,
ma forse ha anche cambiato la mia concezione di come si muore
(questo però lo ha fatto più consapevolmente). La
mia idea delle religioni, invece, è stata solo avvalorata
da questa storia, ma si sa, in un'opera d'arte ognuno vede quel
che vuole vedere, e cerca quel che vuole trovare. Probabilmente
è riuscito a cambiare la mia concezione di come si scrive
una recensione, ma questo lo saprò solo quando avrò
assimilato a sufficienza questo pezzo. Di sicuro, dicevo
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all'inizio
del paragrafo, Gaiman ha cambiato il mio modo di pensare alla lettura.
Mi sono reso conto da tempo di leggere per finire di farlo, per
la quantità, non esclusivamente per il contenuto. Certo,
magari sono anche in grado di assorbire le verità che il
libro dispensa, o quelle che io credo dispensi (solita storia),
ma il mio obiettivo |
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iniziale,
programmatico e raggiungibile, è finire il libro entro una
certa data. Mettere una spunta su un elenco. D'istinto,
quando comincio a trovarmi a dieci, cinque pagine dalla fine di
un romanzo, talvolta materialmente e talvolta metaforicamente tengo
le mani sulla prima e sulla quarta di copertina, pronte a chiudere.
Stavolta no. Stavolta speravo che l'ultima frase del romanzo rimandasse
ad un sito internet in cui erano pubblicate altre trenta, cinquanta,
cinquecento pagine di quella storia. Non mi auguravo più
- come mi capita di fare - che i protagonisti morissero, per essere
sicuro di aver assistito ad uno spettacolo concluso in sè,
alla narrazione compiuta e compita di tre mesi di accadimenti e
di migliaia di anni di vite diverse. Mi dispiaceva di non poter
incontrare più |
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Polunochnaja
Zarja, che mi rimarrà sempre nel cuore (difficilmente lo
farà il suo nome), o Shadow, del quale non riuscirò
mai a farmi un'immagine fissa in mente (contro ogni logica, è
più probabile che io ricordi il suo vero nome, che non viene
mai fatto, piuttosto che quello di Polunochnaja), o il signor Nancy,
al quale vorrei assomigliare da vecchio, se |
non nella
divinità, almeno nel brio. Non volevo capacitarmi del fatto
che la sabbia impalpabile del racconto mi stesse inesorabilmente
sfuggendo dai pugni, e che forse se li avessi stretti di più
sarebbe stato anche peggio, e alla fine non potevo far altro che
aprire i palmi all'aria e soffiarci sopra. Non volevo che finisse,
insomma. Ma niente rimorso (e per cosa, poi?), niente rimpianto
(e di cosa, poi?). Niente commenti, soprattutto. Non voglio ridurre
questo romanzo ad una più o meno distaccata analisi della
complessità che caratterizza la trama, della precisione
socio-storico-economico-geografica con cui sono presentati personaggi
ed ambienti o della fruibilità a più livelli dell'opera.
L'unica cosa che mi sento di dire, e già mi vedo tradire
- come faccio sempre - le mie intenzioni
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originarie,
è che migliora sempre, continuamente. Di pagina in pagina,
di parola in parola. Da un certo punto in poi, l'ho avvertito nettamente,
Gaiman era anche più felice. Con un libro a respiro così
ampio, del resto, è quasi impossibile che non accada: chi
scrive lascia scivolare dalle proprie membra attraverso la penna
sin sul foglio il proprio stato |
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d'animo, le
proprie sensazioni, le proprie idee, nella maggior parte dei casi
senza rendersene pienamente conto, ed è quindi evidente
come in un arco di tempo molto dilatato si possa cambiare umore,
e di conseguenza mutare anche la propria disposizione nei confronti
di ciò che si crea e di come lo si crea. Al contrario,
io sto scrivendo pressochè in simultanea le riflessioni
che mi sovvengono, quindi è improbabile che i suoni che
annuso, i colori che assaggio e il piacere che intuisco dopo aver
appena finito di leggere American Gods - ammesso che io riesca
a trasmetterne una minima parte - siano falsati dal troppo tempo
passato tra l'inizio della stesura e la sua fine. Dicono sempre
che non si scrive di getto, eppure se non fossi partito in quarta
davanti al foglio (virtuale)
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bianco
non sarei mai più stato in grado di parlare di questo lunghissimo
racconto senza finire per fargli le pulci (in senso buono). D'altra
parte, quando scrivo pezzi di "critica", lo so, finisco
per parlare di questioni tecniche che interessano me e pochi altri
come me, aspiranti dilettanti apprendisti scribacchini, ai quali
può essere utile sapere |
come si caratterizza
un personaggio o come si crea un espediente narrativo intelligente
(per inciso, in questo libro ce n'è uno strepitoso, assolutamente
sublime). E invece no, ora che ne abbiamo l'opportunità
parliamo di fiori che sbocciano o di brezza estiva sulla schiena
sudata, se vogliamo, ma parliamo d'altro. Parliamo di ciò
di cui parleremmo se fossimo totalmente ignoranti in ogni argomento,
se avessimo letto solo questo libro (il che, nel mio caso, non
è molto distante dalla verità). Discutiamo in termini
di "bello" e "brutto", "buono" e
"cattivo", non "sapido" o "insipido"
o - peggio - "tecnicamente superlativo ma non mi ha entusiasmato".
Invisibles, quando lo lessi, mi prese così. Alla sprovvista.
Non avevo mai letto una cosa del genere, e mi mancavano le parole
per parlarne.
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Ecco,
American Gods pure mi ha preso alla sprovvista, ma a differenza
del fumetto di Morrison, che suscitava in me una brama di energia,
di visioni mistiche, di cospirazione e di allucinazioni non indotte,
un'esaltazione genuina e sopraffacente, quest'opera di Gaiman mi
ha lasciato ad annaspare al rallentatore e senza paura a un metro
dalla |
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dalla riva,
conscio di poter uscire dall'acqua in qualsiasi momento, semplicemente
puntando i piedi sulla sabbia; mi ha lasciato un sottofondo di
dormiveglia, di impressioni più che di espressioni, di
tentativo disinteressato di ricordare un sogno al quale più
mi avvicino e più me ne distacco. E per una volta potrei
non far leggere questa recensione a nessuno: potrei non proporla
ad un sito, potrei non imporla in un forum, potrei non stamparla.
Potrei persino staccare la spina del computer prima di salvarla,
e questa recensione rimarrebbe esattamente ciò che per
me rimarrà - a meno di eventuali ma inverosimili riletture
- American Gods. Un dejà-vu, un pensiero, un fruscìo.
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